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sinistra aniticap

Possano le generazioni future…

di Diego Giachetti

È uscito “La vita è bella”, di Leon Trotsky, Chiarelettere, Milano 2015

Un “piccolo” “grande” Trotsky quello riportato alla luce nella succinta antologia pubblicata dalla casa editrice Chiarelettere (Leon Trotsky, La vita è bella, Milano 2015) in coincidenza con i settantacinque anni dell’assassinio del protagonista, ad opera di un agente inviato da Stalin (21 agosto 1940). Gli scritti spaziano da riflessioni sulla rivoluzione con particolare attenzione all’individuo, ai cambiamenti che si devono operare nella vita quotidiana, nelle “inezie” della vita sociale: essere più educati e cortesi, aver cura di se stessi e delle proprie cose, favorire la nascita di un linguaggio colto, perché la rivoluzione è prima di tutto un risveglio della personalità umana, «si contraddistingue per il crescente rispetto della dignità personale di ogni individuo». Una rivoluzione non è tale se non presta attenzione ai deboli, se non aiuta i bambini, le madri, la donna, se non combatte il patriarcato, tutti quegli elementi che opprimono, quanto quelli economici e sociali, il libero sviluppo della personalità in tutti i suoi aspetti. Erano tutti elementi posti in essere dalla rivoluzione bolscevica, ben presto soffocati dalla controrivoluzione burocratica, totalitaria dello stalinismo contro il quale Trotsky continuò la sua battaglia puntando sulla necessità di una nuova rivoluzione politica in Unione Sovietica, per liberarla dal giogo oppressivo della dittatura burocratica, per ridare dignità alla persona. Lo Stato stalinista infatti offendeva l’umanità, colpendola nel suo lato più debole: i familiari, gli amici, i figli e i nipoti. Oltre ai milioni di persone che morirono o furono ridotte in schiavitù decine di milioni di individui, i parenti delle vittime di Stalin, ebbero la vita segnata in modo devastante, con profonde conseguenze sociali.

Una parte degli scritti ripresi nell’antologia riguardano l’analisi della società stalinista. «Stalin non è responsabile della storia, ma lo è di ciò che ha fatto, come pure del ruolo da lui ricoperto nella storia». La «casta dominante in Urss non rappresenta il comunismo, ma il suo nemico più perfido e pericoloso».

Fanno da cornice alla raccolta due testi significativi: quello che il giovane Trotsky scrisse nel 1901, Finché vivo spero, e il suo testamento scritto nel febbraio del 1940, dalle cui righe conclusive è tratto il titolo del libro: «La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione violenza e goderla in tutto il suo splendore». Questi due testi rappresentano l’alfa e l’omega del carattere di Trotsky. Nella premessa al libro David Bidussa lo definisce col termine perseveranza, intesa come virtù consistente nel non cedere alla sconfitta, non adeguarsi ai tempi, non darsi per vinti, non  lasciarsi travolgere dalla miseria e dalle sconfitte del presente. Quando scrive quello che è passato alla storia come il suo testamento, egli ha da poco compiuto sessant’anni. La Seconda guerra mondiale è appena iniziata in Europa. Durante l’ultimo esilio in Messico Trotsky e la sua compagna Natalja si rendono conto che attorno a loro si è creato un terribile vuoto, una grande solitudine. La loro generazione, sta per essere spazzata via dalla scena. Scomparendo lascia, nel ricordo dei pochi sopravvissuti, una scia dolorosa di affetti rescissi da morti violente, separazioni e rinnegamenti, prese di distanza in sincerità o malafede. Anche la parte migliore della nuova generazione, quella portata alla ribalta dalla rivoluzione del 1917, che comprendeva i figli e le figlie di Trotsky, tutti deceduti, è sotto attacco, calpestata e schiacciata.

Pubblicamente Trotsky non si abbandona alla disperazione, pur potendo contare, se lo avesse fatto, su elementi fondati e ragionevoli. Dichiara di voler continuare a battersi con tutte le forze che gli restano, ma nel profondo dell’animo non può fare a meno di pensare che nulla è più come una volta a cominciare dal suo “corpo”. Si sente vecchio, l’energia vitale si sta esaurendo, la stanchezza spinge per prevalere sulla volontà. Tuttavia, ancora e forse più di prima, ragione e logica bussano prepotentemente alle porte del pensiero ponendo nuovi interrogativi circa il divenire storico. Quando gli fu chiesto se non ritenesse che il suo destino personale fosse patetico e tragico, rispose negativamente. A chi sottolineava la tragedia della sua vita personale e familiare, rispondeva: «non è così che va posta la questione.

Tale tragedia non vive in me. La vera tragedia sta in chi tradisce se stesso, perché così si tradisce la vita. Io tale tragedia non l’ho vissuta, perché sono sempre e felicemente pronto a difendere le mia convinzioni. Non ho mai tradito me stesso». Stalinismo, fascismo, nazismo, l’accumulo di tensioni che muovevano verso una nuova guerra mondiale, facevano sì che il futuro apparisse tetro, senza colori vivaci. Questa era la realtà e tanto peggio per i desideri se non coincidevano coi fatti. Di nuovo aveva davanti a sé la dicotomia che gli si presentò all’inizio del XX secolo, quando i fatti e gli eventi ponevano perentoria una richiesta di resa, poiché utopia, speranza, fede e amore parevano morti. Era questo il futuro che si prospettava? No, aveva replicato allora l’indomabile ottimista, «tu sei solo il presente». Come nel 1901 sentiva ancora di poter dire che niente era perduto, che non bisognava mollare. I processi di Mosca non disonoravano la vecchia guardia bolscevica, perché loro erano le vittime e non i carnefici. Tuttavia non poté fare a meno di chiedersi se quei processi segnassero l’involuzione definitiva della Rivoluzione russa, man mano che la tragedia della repressione poliziesca, della deportazione e dell’eliminazione fisica degli oppositori, andava definendosi in una “quantificazione” tragica di cui era a conoscenza. E non si limitava alla costatazione del fatto, avanzava commenti inquietanti circa il significato che in futuro avrebbero assunti termini quali “comunismo” e “socialismo”, se il processo degenerativo dello stalinismo non si fosse arrestato. Il danno che lo stalinismo stava provocando al movimento operaio e all’ideale socialista era peggiore dei colpi, pur tremendi, inflitti dal fascismo e dal nazismo – osservò – perché Stalin lo attaccava dall’interno: «non un solo principio resta integro; non c’è ideale che non venga macchiato. Le stesse parole socialismo, comunismo sono compromesse dal momento che sgherri, senza alcun controllo, con l’etichetta di “comunisti” chiamano socialismo il regime da essi imposto».  La ragione imponeva di non abbandonarsi alla disperazione, di continuare a battersi con tutte le forze che gli restavano per non abbandonare «la bandiera del socialismo nelle mani dei falsari!», di consegnarla “pulita” di falsificazioni e di orrori alle future generazioni.

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