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A che servono i filosofi?

di Stefano Scrima

Questa non è una recensione, ma un consiglio. A che servono i filosofi? (Pourquoi des philosophes?) si chiede Jean-François Revel nel 1957. Già, a che servono i filosofi?

La risposta di Revel è brillante e provocatoria: a niente, perché la filosofia non esiste. O meglio, esiste nella misura in cui i filosofi accademici la creano, mantenendo in vita le loro creature, attraverso i due poteri illusori dai quali il pensiero moderno (scienza, arte, letteratura – ma non la filosofia) cercò con tutte le sue forze di distaccarsi: la religione e la retorica. La filosofia, intesa nel senso che riveste oggi, è un accademismo — sacro, perché ogni filosofo spiega sé stesso ed è a suo modo un’autorità, ma su sé stesso!, non su quello che la sua opera vorrebbe spiegare: il mondo, l’uomo, la conoscenza; e sostenuto dall’incantesimo della parola persuasiva, la quale non spiega proprio niente se non l’arbitrarietà di quello che si vuole sostenere.

Revel propone addirittura di abbandonare il termine filosofia. Ormai filosofia vuol dire troppe cose, e il suo ruolo originario è stato assunto da altri (dalla metà dell’Ottocento, ad esempio, dalla letteratura). Oggi la filosofia non è che una “provincia” della letteratura, un esercizio di stile; Heidegger è un esercizio di stile, oltretutto tautologico. Ed è la letteratura che parla di noi – che offre uno sguardo sull’uomo, un accrescimento della nostra conoscenza a partire dal particolare per giungere all’universale –, senza tuttavia aver la presunzione di farlo. Mentre la filosofia parla solo di sé stessa.

Sembrano discorsi banali, e forse oggi lo sono. Più che banali, già sentiti. Ma nel 1957 non era così ovvia la deriva dell’accademia filosofica, un luogo di potere e piaggerie che assume come contenuto la storia della filosofia quale nuova scolastica in netto contrasto con la realtà che si respira fuori dai suoi muri.

Argomento già sentito, e pare che tutti siano d’accordo, anche gli stessi accademici. Ma allora perché tutti vogliamo far parte dell’accademia e reggiamo il gioco? Per vanità, per superbia, per paura dell’emarginazione. Certo. Il sistema è marcio, ma o sei dentro o sei fuori, e se sei fuori devi trasformare la filosofia in qualcosa di valido nella pratica, ed è un circolo vizioso, perché l’accademia in cui hai studiato filosofia non ti ha insegnato nulla di tutto ciò. Ecco perché quando ti chiedono cos’hai studiato sarai sempre costretto a subire un risolino o nella migliore delle ipotesi un’occhiata sconcertata. Come biasimare i vostri genitori preoccupati per il vostro futuro?

Ovviamente Revel argomenta il tutto, come ho già accennato, in modo brillante e a tratti ironico, ma sempre mostrando una precisa e approfondita conoscenza delle materie di cui parla: filosofia, psicologia, psicanalisi, sociologia, epistemologia, letteratura. Insomma, non lancia il sasso e nasconde la mano, ma vi spiega perché i filosofi (sempre per come sono intesi oggi) non possono servire a niente se non all’uso e consumo interno all’accademia e alle case editrici che stampano i loro libri sicuri che verranno comprati da studenti e colleghi che hanno tutto l’interesse a fare bella figura all’esame o nei ringraziamenti dei loro stessi libri.

Quindi, cari giovani e vecchi filosofi, il consiglio che vi do è di leggere questo libro di cinquant’anni fa, quando il fenomeno dell’accademismo era già sulla strada della putrefazione, ma mai come oggi. Qualche uomo di potere accademico potrebbe avere un’illuminazione riformatrice e proclamare la rivoluzione della filosofia. Oppure fatelo solo per avere consapevolezza di voi stessi e quantomeno per placare la vostra saccenza profetica.

Ma subito dopo, per favore, andate a leggervi un romanzo – un bel romanzo –, perché, come dice Revel, non può considerarsi filosofo chi legge solo di filosofia. Oppure volete continuare questa volgare pratica dell’onanismo filosofico?

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