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Lo Stato sviluppista

L’innovazione e la crescita tra pubblico e privato

Davide Visigalli

Spesso sentiamo parlare del ruolo importante dell’innovazione e della ricerca come stimolo alla crescita economica. Spesso ci sentiamo dire che un’adeguata spesa in R&S è fondamentale per resistere e uscire dalle crisi economiche. Spesso in questo contesto, è lo Stato che, con la sua “inefficiente” macchina burocratica e le sue decisioni politiche “corrotte” viene presentato come il problema.

Il recente libro della professoressa Mazzucato, Lo Stato innovatore, docente di Economia allo Science and Technology Policy Research dell’Università del Sussex (UK), sfata ben più di qualche luogo comune su questo argomento.

In quasi tutti i paesi del mondo stiamo assistendo a un arretramento dello Stato.

Con questa premessa, il libro dimostra come lo Stato sia storicamente sempre stato un attore indispensabile del processo innovativo:

Nell’innovazione, è cruciale che i finanziatori siano pazienti dato che la R&S è un processo altamente incerto e dai tempi molto lunghi.

In quasi tutte le innovazioni più radicali e rivoluzionarie che hanno alimentato il dinamismo dell’economia capitalista, dalle ferrovie alla Rete fino alle nanotecnologie e alla farmaceutica dei nostri giorni, gli investimenti più coraggiosi, precoci e costosi sono riconducibili allo Stato.

Uno Stato imprenditoriale investe in aree in cui il settore privato non investirebbe comunque, nemmeno se avesse le risorse. Per esempio nel settore farmaceutico, gli investimenti pubblici in R&S tendono ad aumentare, mentre quelli privati diminuiscono. Preferiscono integrare la conoscenza prodotta altrove, invece di finanziare al proprio interno. Queste riduzioni della spesa hanno coinciso con una finanziarizzazione sempre maggiore del settore privato, aumentando i fondi destinati al riacquisto delle proprie azioni, una strategia finalizzata ad accrescere la quotazione del titolo e di conseguenza il valore delle stock options e delle retribuzioni dei top manager a esse collegate.

I venture capitals aspettano ansiosamente il momento giusto per uscire dall’investimento, in modo da monetizzare la quota del pacchetto azionario ricevuta in cambio. Questo dimostra come l’attuale settore privato sia eccessivamente focalizzato sul breve termine.

Lo Stato è importante, non solo dal punto di vista della consueta e keynesiana funzione anticiclica – intervenire quando il livello della domanda è troppo basso – ma anche in qualsiasi momento del ciclo economico. Gli investimenti pubblici non solo producono un crowding in degli investimenti privati: fanno qualcosa di più. Lo Stato non elimina il rischio, se lo assume, plasmando e creando nuovi mercati.

Nonostante questo, aumentare la spesa in R&S non è una panacea, infatti, come la professoressa spiega, citando vari esempi tra Europa e Stati Uniti, non esiste una ricetta economica buona per tutte le stagioni:

Non esiste nessun legame causale diretto tra investimenti in R&S, innovazione e crescita economica.

La riduzione delle tasse non ha prodotto un aumento degli investimenti in innovazione.

L’incremento esponenziale del numero di brevetti negli ultimi 30 anni  non nasce per forza e solo da un aumento dell’innovazione, bensì soprattutto da cambiamenti legislativi (per gli Usa cfr. legge Bayh-Dole 1980) che sono stati introdotti e/o da ragioni strategiche.

Non è la quantità di R&S che conta, ma il modo in cui è distribuita all’interno di un’economia, spesso influenzata in maniera determinante dallo Stato. Le competenze che generano innovazione sono parte di un’attività collettiva che avviene attraverso una rete di attori e i loro collegamenti o relazioni. Il basso livello di spesa in R&S è un problema per tutta la periferia dell’Eurozona, ma è vero anche che avere una spesa in R&S più bassa della media non è necessariamente un problema se i settori in cui il paese è specializzato non sono settori in cui l’innovazione passa attraverso di essa.

Aumentare gli investimenti pubblici senza controllare la mobilità di capitali e merci non farà aumentare  l’occupazione, il gettito fiscale e le esportazioni. L’innovazione non è uguale a una crescita più equa, migliori condizioni di lavoro e adeguato livello dei salari. Infatti, a causa della libera circolazione dei capitali non è detto che il Paese che più si impegna per finanziare l’innovazione sia anche quello che ne ricava i maggiori benefici economici.

Lo Stato dovrebbe tendere a una sorta di equilibrio tra la promozione e il sostegno economico all’iniziativa privata nella R&S cercando di adottare politiche redistributive a tutela dei suoi cittadini. Infatti, spesso l’investimento pubblico va a solo vantaggio delle multinazionali senza un ritorno adeguato a chi si è assunto il rischio maggiore:

In moltissimi casi gli investimenti pubblici sono diventati regali alle imprese, perché hanno arricchito singoli individui e le loro aziende, garantendo un ritorno molto limitato per l’economia e lo Stato.

Le corporations lucrano su innovazioni sostenute dal denaro dei contribuenti, e come se non bastasse, sottraggono al fisco una porzione rilevante dei loro profitti e non investono in altra innovazione (Esempi di questi tipi ne esistono molti, uno su tutti la Apple).

Quando nel processo di innovazione, l’appropriazione dei guadagni è largamente sproporzionata rispetto all’assunzione dei rischi, il risultato è una situazione di iniquità, quando l’iniquità produce effetti negativi sugli investimenti, il risultato è una situazione di instabilità, e quando l’instabilità fa aumentare l’incertezza del processo di innovazione, il risultato è un rallentamento o perfino un calo della crescita economica.

Se lo Stato deve fare la ricerca, sostenere gli investimenti per le infrastrutture principali e anche intraprendere lo sforzo di commercializzazione, qual è esattamente il ruolo del settore privato? Il problema è scegliere la direzione degli investimenti pubblici per evitare che seguano solamente gli interessi delle aziende.

La risorsa chiave che spesso scarseggia è la volontà politica a lungo termine.

Concludendo, non esiste una ricetta economica salvifica, ma è solo la politica che, stabilite le priorità in un dato momento storico e sotto l’influenza del tipo di cultura nazionale, promulgherà le leggi economiche adatte al progetto sociale che ha in mente, adattandole poi alla realtà territoriale con modifiche opportune. Tutto questo al netto di una forte iniziativa dello Stato che garantisca la piena occupazione e opportuni correttivi redistributivi.

In poche parole, meno draghi e più caffè!

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