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scenari

Sospendere la competizione

Insieme a sfida, merito, valutazione, selezione, la parola competizione ricorre oggi nel discorso pubblico con una frequenza quasi ossessiva. L’idea che una competizione generale debba animare le relazioni sociali tra persone, imprese, istituzioni, organizzazioni, stati, blocchi di potere transnazionali, domina la maggior parte dei programmi politici, di destra e di sinistra. Ingenti risorse vengono ovunque impiegate per stabilire classifiche precise, frutto della comparazione dei più svariati parametri, al fine di stabilire l’esatta posizione di ciascun concorrente.

Eppure le analisi dedicate specificamente alla competizione sono piuttosto rare. È come se questa idea fosse immediatamente comprensibile, evidente a chiunque. Come se fosse un dato naturale. Non la si discute, non la si esamina. Se ne danno per scontate le valenze positive, di conseguenza si incoraggia il pieno dispiegamento di forze e condotte sempre più competitive e la soppressione degli ostacoli – solidarietà tra gruppi sociali, difesa dei più deboli ecc. – che si suppone la frenino. Anche quando si prendono le distanze dagli imperativi a gettarsi nel rischioso gioco della competizione, quando finalmente si comincia a contestare la tenuta di un modello di sviluppo imperniato sulla crescita della produttività, sull’efficienza e sull’accelerazione, il significato preciso e le implicazioni della competizione stessa restano stranamente fuori scena. Ci si aspetterebbe allora dalla filosofia innanzitutto un supplemento di riflessione cirtica, una messa tra parentesi di una nozione in realtà non così chiara né innocente come sembra.

Sospendere la competizione, il saggio di Beatrice Bonato appena pubblicato dalla casa editrice Mimesis, promette sin dal titolo di compiere una mossa di questo tipo. Non una mossa neutra, anzi: come l’autrice dichiara fin dalle pagine introduttive, la sua ricerca nasce da una crescente estraneità nei confronti delle retoriche e delle pratiche competitive, con il loro corollario dei premi e punizioni. Di qui il sottotitolo del libro, Un esercizio etico, a indicare lo sporgersi continuo dell’analisi fuori dal campo della teoria. Ma un esercizio etico, come sottolinea Pier Aldo Rovatti nella prefazione al volume, è a pieno titolo un esercizio filosofico, almeno se intendiamo la filosofia stessa come un’attività in cui l’esercizio è componente ineliminabile, per quanto problematica da definire e da concretizzare. L’esercizio filosofico qui evocato si richiama apertamente alla decostruzione, e non è certo un caso se il passaggio attraverso il pensiero di Derrida ha un posto importante nell’economia del libro. Accanto a lui numerosi pensatori, filosofi come Sloterdijk, Agamben, Nancy e sociologi come Ehrenberg, Sennett, Boltanski, sono convocati in un confronto volto a portare alla luce le stratificazioni complesse e i significati ambivalenti del “paradigma” competitivo, gli snodi e le svolte culturali che ne hanno fatto prevalere ora l’uno ora l’altro aspetto: la sfida, la violenza, il gioco, il rischio, l’aspirazione al miglioramento.

La tesi di fondo è che la forza del modello competitivo venga tanto dalla determinazione con cui viene applicato, quanto dal suo radicamento nella cultura di cui siamo eredi. Nei diversi capitoli il libro accosta riferimenti alle logiche manageriali, alla quotidianità, alla filosofia, per coglierne di volta in volta un lato, isolarne un ingrediente. La carrellata inquadra ora la macchina effcientistica della produzione e dell’amministrazione, ora il groviglio delle passioni soggettive da essa mobilitate; mette a fuoco ora il connubio tra lo sport e l’economia, così evidente nella pressione a primeggiare e a vincere, ora la tendenza alla comparazione invidiosa che domina, fino a sfigurarli, i rapporti tra individui. L’azzardo filosofico maggiore, compiuto non senza cautele di metodo e nella consapevolezza della difficoltà che comporta, sta però nel cercare di andare alle radici della visione agonistica dell’esistenza, al cuore della questione, mettendo in campo il pensiero di Nietzsche e la sua concezione della vita come lotta tra forze antagoniste, gioco interno alla volontà di potenza.

Il discorso neoliberale, ultima versione dell’ideologia capitalistica, resta sullo sfondo. Esso rappresenta, sostiene Bonato, lo strato più visibile e recente del linguaggio competitivo. Certo il più potente, non solo perché parla con la voce dei massimi poteri economico-politici, ma perché non fa sprofondare né cancella le altre componenti, piuttosto ne sfrutta tutto il potenziale, riplasmandone le categorie nel vocabolario tecnico-economico.

Costretti a correre sempre più velocemente, ossessionati dall’ingiunzione a competere per superare gli altri e noi stessi, cominciamo in effetti ad avvertire un certo disagio, che assume sfumature diverse a seconda del livello sul quale le gare della vita si svolgono: dall’ansia da prestazione alla paura di perdere credito, dall’umiliazione per le sconfitte al delirio di onnipotenza per le effimere vittoria. Eppure la “macchina” non funziona senza la nostra collaborazione. I soggetti rispondono, talvolta rassegnati ma spesso con entusiasmo, alle richieste di essere sempre più competitivi. Ci mettiamo all’opera per modellare la nostra esistenza attraverso il potenziamento delle nostre dotazioni psico-fisiche e intellettuali, e ci gratifica non solo essere premiati ma, purtroppo, vedere punire qualcun altro. D’altra parte è indubbio che il mito agonistico, talvolta abbellito dal richiamo ad altre epoche più nobili, mobiliti forze creative, e susciti davvero una spinta positiva a un reale miglioramento qualitativo di se stessi e del proprio mondo vitale. Non è dunque a una condanna moralistica che il saggio vuole spingerci. Ma può la competizione, ecco la domanda, rappresentare la principale, se non unica, chiave interpretativa con cui leggere i comportamenti sociali e a cui piegare tutte le nostre azioni? Ecco l’ultimo tornante del percorso di sospensione intrapreso dal testo. Che scommette sull’esistenza attuale, non solo immaginata in un futuro utopico, di attività, relazioni, opere, forme di vita non competitive, eppure per nulla riducibili a semplici strategie di difesa e di sopravvivenza. L’ampliamento delle esperienze e delle pratiche non competitive appare al contrario come una proposta etica forte, non priva di risvolti politici, che si afferma nel momento stesso in cui arresta, “disattiva”, per dirlo con una parola presa in prestito da Giorgio Agamben, il meccanismo descritto. La cura potrebbe essere certamente uno dei nomi di tali pratiche, come pure l’insegnamento, una volta restituito al suo senso e liberato dai cascami aziendalistici che lo affliggono da tempo.

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