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ospite ingrato

Letteratura come storiografia?

Un libro di Emanuele Zinato

di Gabriele Fichera

E. Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 238.

Che cosa hanno in comune lavoro e letteratura? La famigerata “mutazione” antropologica è un fenomeno inevitabile o un evento storico reversibile? Il conflitto dialettico fra servo e signore è ancora categoria viva e attuale, o è stata definitivamente espunta da ogni griglia interpretativa? Sono queste solo alcune fra le domande che vengono in mente dopo la lettura dell’ultimo volume di Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana.

Questa raccolta di quindici saggi, di cui due inediti, pubblicati fra 2001 e 2014, si distende fra analisi di storiche riviste – «Officina» e  «Menabò» –, disamine di opere e autori del secondo novecento italiano, e messe a punto metodologiche. A partire dalla distinzione fra storiografia e poesia, e dunque fra tensione verso i concetti generali e racconto del particolare dimenticato e marginalizzato, l’autore insiste sulla capacità dialettica tipica della letteratura di accogliere dentro la propria prospettiva elementi contrastanti e stratificati. La ricchezza e la complessità del testo letterario si basa sul rapporto che riesce a instaurare con ciò che sta fuori, con l’extratesto. Quest’ultimo concetto viene declinato da Zinato in termini differenti, ma tra loro solidali. La sua peculiare sintesi teorica si avvale infatti sia dell’economia politica di un teorico acuto e originale come Rossi-Landi, sia della prospettiva rivoluzionaria, in senso socialista, di Franco Fortini, sia dell’indagine psicanalitica prediletta da Francesco Orlando. Il testo viene visto come luogo in cui emerge, in mille forme diverse, un rimosso antropologico: il carattere intimamente sociale dell’uomo e del suo lavoro. Nel terzo capitolo del libro, a mio parere cuore pulsante dell’intero volume, recuperando l’omologia fra produzione materiale e produzione linguistica studiata da Rossi-Landi, l’autore si approccia al Fortini di Opus servile, e mette al centro dell’attenzione la coppia antitetica lavoro/morte. Il servo si libera dall’angoscia mortale inflittagli dal suo padrone guadagnando grazie al lavoro una diversa coscienza di sé. Questa prospettiva viene ostracizzata fin dalle origini dal canone occidentale, per cui il lavoro è solo tribolazione e pertiene strettamente al doloroso “regno della necessità”. Il lavoro però non è solo liberazione ed emancipazione, ma anche alienazione e dominio. Tale natura bifronte viene salvata dalle opere letterarie che danno del lavoro una rappresentazione dialettica e problematica. Zinato passa in rassegna diversi testi che si collocano in questo orizzonte, dal Philip Roth di Pastorale americana (1998), al Primo Levi di La chiave a stella (1978), passando per Meneghello, Volponi, Pasolini e Rea.

In un’ottica materialista il tema del lavoro umano non poteva che incrociarsi con la questione, diversa ma adiacente, dell’animale, e dunque, in termini letterari, con la figuralità animale nelle opere degli scrittori. In questo senso il quinto capitolo appare come seconda “cerniera” del volume, stavolta tematica, più che metodologica. In esso si analizzano i rapporti fra animalità e civiltà in un insieme di autori, oculatamente selezionato: Sciascia, Levi, Calvino, Volponi, Morante. E ordinato  secondo una «scala graduata: da un massimo di mentalismo e allegorismo a un massimo di corporalità analogica». Se nei primi due scrittori animale e civiltà umana sembrano divaricarsi, in Volponi e nella Morante, al contrario la figuralità corporale vive in continua fibrillazione una bizzarra osmosi con un «lontano passato mitologico e zoomorfo».

Dopo aver dissodato il terreno teorico e tematico dei nessi fra letteratura e materialità dell’esistenza la seconda parte del volume si dedica all’analisi stretta di opere e autori. Del Fortini poeta di Paesaggio con serpente (1984) viene messa a fuoco l’insistita dicotomia fra ordine e disordine, natura e storia, paesaggio e “serpente”; figura quest’ultima di un’essenziale verità, ancora una volta negata e rimossa: «del fondamento violento di ogni vivere civile». Il Parise dei reportages newyorchesi è un attento osservatore di un mondo precocemente consumista, in cui i rapporti umani paiono già sovrastati dal “vacuum” delle merci e degli oggetti. Eppure questa mutazione antropologica, intesa da Parise come «brutale carica di energia», attrae e respinge al tempo stesso. E lo scrittore, forse non a caso, finisce per rilevare la scomparsa della lotta di classe, sostituita dalla darwiniana lotta per la vita – come se, mi permetto di chiosare, l’odierna regressione alla seconda non fosse in realtà una forma estremamente degradata della prima, ancora viva e operante, anche se condotta piuttosto dall’alto che dal basso. In un percorso esaustivo, che si snoda dalle opere d’esordio fino a quelle finali, a proposito di Sciascia viene sottolineata la «propensione, tematica e stilistica, alla circolarità» e la presenza di un’antropologia di marca pessimista. In Volponi viene scandagliato il rapporto fra scrittura e denaro. A partire dal romanzo giovanile La strada per Roma (1991), in cui vitalità finanziaria e vitalità corporea già si intersecavano, si giunge alle Mosche del capitale (1989), in cui, freudianamente, fra negazione e formazione di compromesso, la condanna senza appello verso il capitale farebbe affiorare un «represso più sottile e negato». Proprio come nel primo romanzo infatti, anche qui «vitalità corporea e potenza economica non costituiscono dei poli opposti ma abitano invece un medesimo campo semantico». Questa acuta e stimolante osservazione apre, mi sembra, qualche scenario problematico. Non so se sia possibile infatti equiparare la retorica dell’ironia e il suo «rovesciamento antifrastico», su cui spesso si basano le Mosche, alla negazione che freudianamente afferma. Inoltre questa interpretazione delle Mosche potrebbe dare adito, anche involontariamente, all’idea di una circolarità di Volponi – concetto che ritorna, seppur in modo diverso, anche nella lettura di Sciascia – e quindi di una sua sostanziale invarianza, dagli esordi alla fine dell’attività di scrittore. Un’ipotesi che non solo sarebbe tutta da approfondire e verificare, ma che sembrerebbe in contraddizione anche con uno degli assunti principali del libro: quello pasoliniano per cui dopo il boom economico in Italia si sarebbe prodotta una “mutazione” radicale, addirittura antropologica. Mi chiedo infatti se sia possibile immaginare, proprio a partire da tale trasformazione traumatica, e quindi nonostante essa, che uno scrittore del calibro di Volponi, ma il discorso sarebbe estensibile anche ad altri, osservi e rappresenti, a distanza di trent’anni, i nessi fra corpo, società e denaro, secondo modalità tutto sommato coincidenti. E forse il dubbio che qui si è appena sollevato andrebbe rivolto, con una torsione di 180°, piuttosto alla pregnanza conoscitiva della stessa categoria di “mutazione”. Metafora naturale e biologica quest’ultima, che col suo grado di enfasi ineluttabile, e di nascosto fatalismo vittimario, forse non è del tutto calzante per comprendere fenomeni storici e di costume, mutamenti sociali che per quanto profondi e incardinati su un sistema di dominio ferreo, sono comunque reversibili e contrastabili. E contrastabili proprio a partire da quel nesso fra lavoro e letteratura che il volume di Zinato ha l’evidente merito di mettere al centro dell’analisi e di individuare come ineludibile fuoco d’attenzione; oggi più di ieri, mentre un intero sistema economico e sociale collassa, senza smettere per questo di continuare a produrre orribili danni.

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