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effimera

Una lunga storia

di Andrea Fumagalli

Di fronte alle reiterate  azioni terroristiche, finalizzate a uccidere a caso per seminare paura con il solo obiettivo di mostrare la potenza di fuoco e la fragilità di alcune istituzioni, c’è poco da dire. Rimane un senso non tanto di terrore ma di depressione e frustrazione. Con atti (a Parigi l’ultimo di una serie che rischia allungarsi sempre più) che durano qualche decina di minuti, si fanno compiere alla storia balzi all’indietro misurabili in lustri.

Siamo in un mondo che definire orrendo è poco.  Un mondo che negli ultimi 30 anni ha visto naufragare non solo la possibilità di sviluppare pratiche di convivenza civile e di tolleranza reciproca ma anche la possibilità di proseguire sulla via del progresso sociale e della multiculturalità. La responsabilità principale sta proprio in quei poteri che oggi vengono così crudelmente attaccati a scapito di chi, come in un antico rito sacrificale, non ha direttamente la colpa. Perché  tutto è cominciato dal nuovo ordine mondiale geoeconomico e geopolitico che si è andato configurando alla fine degli anni Settanta.

La svolta liberista di Thatcher e poi di Reagan hanno segnato il riscatto degli interessi manageriali e finanziari dopo un decennio di crisi e ritirata di fronte alle rivendicazione di una classe operaia fordista oramai matura e che doveva essere annientata con qualunque mezzo.  Contemporaneamente, la stabilità globale veniva messa a dura prova dalla crisi di egemonia statunitense con il crollo del sistema di Bretton Woods, la sconfitta in Vietnam, la nascita del movimento dei paesi non allineati, l’incapacità dell’Urss di rappresentare un’alternativa credibile alla crisi del fordismo (anche l’URSS era un’economia fordista).

La rigidità imposta dall’equilibrio bipolare è così superata dalle nuove tendenze nel campo tecnologico, produttivo e lavorativo volte a imporre il nuovo ordine neo-liberista. La flessibilità economica si accompagna infatti alla rigidità ideologica del libero mercato.  Il libero pensiero e l’esercizio della critica nei confronti delle trasformazioni in corso vengono zittite in nome del modernismo e del superamento di un assetto istituzionale keynesiano – centrato sulle mediazioni fra capitale e lavoro – considerato eccessivo e pericoloso. Dopo il crollo del muro di Berlino e la decomposizione dell’Urss, si teorizza la fine della Storia e l’inequivocabile trionfo dell’ideologia capitalistica dell’individualismo proprietario. Il massimalismo del libero mercato comincia a produrre disuguaglianze e nuove forme di divisione internazionale del lavoro in seguito allo sviluppo di filiere produttive sempre più internazionalizzate che suddividono lo scacchiere mondiale in funzione dell’opportunità economica e di profitto.

Parallelamente, la finanziarizzazione diventa l’ago della bilancia, il “non luogo” dove si definiscono gli assetti di dominio  e le strutture di un comando, che non più basato sulla sola proprietà dei mezzi di produzione ma piuttosto sul controllo della tecnologia e del sapere (diritti di proprietà intellettuale) e dei flussi finanziari (concentrazione dei mercati finanziari e arma del debito come strumento di imposizione economica).

Gli effetti sono noti. L’internazionalizzazione produttiva accelera il processo di migrazione, che mai si era arrestato, ma che oggi assume volumi quantitativi maggiori. La distribuzione del reddito internazionale e intranazionale si concentra sempre più. Sono due facce di una stessa medaglia.  Lo sviluppo esponenziale di guerre locali per il controllo non solo delle materie prime ma anche di territori, da spossessare da un punto di vista finanziario e tecnologico, aumenta il grado di instabilità e rende impossibile pervenire ad un nuovo ordine mondiale. Se un ordine di tipo imperiale, sebbene tendenzialmente multipolare viene raggiunto, esso non può che essere temporaneo e instabile.

È dal massimalismo di mercato in grado di distruggere la nascita di qualsiasi opzione riformista e progressista che nasce e trae linfa il massimalismo religioso, come illusorio tentativo di sviluppare una sorta di “contro-potere” che non è in grado di cogliere l’attuale essenza dello stesso potere finanziario-economico sovranazionale (e che, nel caso dell’Isis, ne trae linfa).

Alla violenza dei mercati finanziari, alla violenza delle politiche d’austerity, alla violenza degli eccidi di massa e della costruzione di muri, a danno dei migranti e dei profughi (da noi stessi creati) che cercano di sbarcare sulle nostre coste, si vorrebbe contrapporre un’altrettanta violenza cieca, stragista, in ultima analisi “fascista”. Una violenza per di più generata da élite di potere che sono state per anni foraggiate e strumentalizzate dagli interessi  economici e territoriali di molti stati occidentali. E’ noto, infatti, – e non ce ne stupiamo –  che i principali finanziatori diretti o indiretti  dei quadri dell’Isis siano Arabia Saudita, gli Emirati del Golfo e, per ragioni interne riguardo il Kurdistan, anche la Turchia. Tutti alleati dell’Europa e degli Usa.

Loro, le élite mondiali di potere, si stanno avviluppando in un vortice di irrazionalità, di nichilismo, di miopia, di opportunismo.

E noi, lungi dall’assistere alla fine della Storia, stiamo assistendo al ritorno indietro della Storia. Non lo possiamo permettere, cominciando da casa nostra, cominciando a denunciare chi fa traffici d’armi con il Medio Oriente, chi fa accordi economici con le monarchie che fiancheggiano l’Isis, con le multinazionali che lucrano sulle stragi altrui , con i politicanti meschini che cercano di guadagnare voti in nome del razzismo e della xenofobia,  con i giornalisti servizievoli e a libro paga, con gli intellettuali che sputano sentenze sullo scontro di civiltà… Si tratta di una lunga lista che svela che il nemico non è solo l’Isis. Il nemico è dentro di noi.

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