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manifesto

Non è il Corano a colpire l’occidente

Michele Prospero

Con la metafora della guerra globale per i diritti umani, Bush e Sarkozy coprivano la puzza dell’oro nero

Anche chi di mestiere fa lo storico tende ad interpretare i fatti di Parigi come episodi di una guerra di religione. Con queste categorie non si capisce però ciò che sta accadendo. Se si vuole comprendere la minaccia che incombe, è meglio non assecondare certe semplificazioni storiografiche. Sarebbe un’impresa vana accostarsi a un fenomeno armato, che minaccia di incendiare l’occidente, pretendendo di rintracciare la sua genesi ispiratrice nel Corano.

Come non si spiega la politica estera di Putin leggendo i testi ortodossi, così non si può cogliere il senso delle stragi ispirate al fanatismo religioso consultando il Corano. Non tiene, a un minimo vaglio critico, il diffuso pregiudizio per cui in occidente si fa politica con la logica della potenza e in medio oriente o altrove invece si fa terrore con la logica della fede.

I classici del pensiero politico lo avevano segnalato già alcuni secoli fa. Locke suggeriva di vedere nell’invocazione del sacro, usata dalle fazioni avverse che si affrontavano nelle guerre di religioni, solo una maschera che nasconde effettivi obiettivi di potenza. E sul finire del 1500 Alberico Gentili, il fondatore del moderno diritto internazionale, esortava ad eliminare la cortina teologica nella descrizione della condotta degli Stati, che segue altre suggestioni rispetto a quelle contenute nei sacri testi.

Molti oggi sono disposti a compiere il tragitto inverso rispetto a quello che ha percorso il grande pensiero politico, con il suo trasparente invito rivolto alla teologia a mettersi da parte, per scrutare il fenomeno politico nella sua diramazione di potenza. Con il ritorno alla teologia politica, e quindi alla metafisica dello scontro di cultura o di civiltà, si getta solo una coltre di fumo che devia nell’interpretazione di una grande emergenza che viene così sottratta ai moduli di gestione della politica.

Quando le mistiche anime della potenza imperiale pregavano nella sala ovale prima di sganciare le bombe, hanno determinato la catastrofe attuale. Il volto profetico del presidente che ripescava la dottrina medievale del tirannicidio per sbarazzarsi di despoti sgraditi, e mettere le mani sulle loro gradite risorse, ha creato il deserto disordinato che oggi viene riempito dalle velleità di occupare terra per inseguire il mito del Califfato.

L’occidente ha confidato troppo in questi anni nelle virtù delle sue bombe intelligenti perché da decenni latita una sua politica intelligente. Con la metafisica della guerra globale al terrore, Bush o Sarkozy hanno ordinato politiche folli e inefficaci, con il pretesto del sacro dovere di combattere per i diritti umani, soprattutto nelle aree dove la puzza dell’oro nero era più nitida. Con i loro disastrosi calcoli di potenza hanno destrutturato alla radice quel minimo di ordine feroce che le dittature assicuravano dall’Iraq alla Libia, alla Siria. Hanno lasciato sul campo élite deboli e denazionalizzate, che non hanno forza, organizzazione per trattenere masse mobilitate.

Il riciclaggio tardivo dello scontro di cultura non solo ignora i disastri che ha provocato la ri-teologizzazione della politica internazionale ma non fa che fornire un insperato fondamento politico agli strateghi del terrore che sperano nella spoliticizzazione dell’evento bellico, nell’accantonamento cioè del suo profilo pubblico-statuale. L’ancoraggio alla teoria di Alberico Gentili sulla pubblicizzazione-statalizzazione del conflitto impone invece di escludere il movente della fede come motivo di un’iniziativa bellica.

Il moderno, con Locke raggiunge la pacificazione-neutralizzazione della sua vita interna solo con la privatizzazione della fede, e con il De jure belli di Gentili acquisisce la pubblicizzazione della guerra solo con la negazione del “nemico di fede” esterno. Deviare da questo processo comporta solo sciagure politiche: disordine, terrore, caos. La pubblicizzazione del conflitto sconsiglia di intraprendere guerre asimmetriche contro non-Stati, ed implica comunque il dovere prioritario di vedere la geopolitica dove la propaganda mette la fede. Di esaminare il calcolo dove si esibisce il Corano. Di scorgere il territorio dove si invoca Dio.

Contro un nemico che sfila con auto e armi occidentali nei territori dell’autoproclamato Stato islamico, non si può rispondere con i simboli delle armi convenzionali della guerra via terra che assume l’altro come “nemico etico”. Prima bisogna spiegare gli effetti perversi delle nuove guerre in distese spaziali che l’occidente ha destrutturato nei vertici politico-militari. E poi occorre riflettere sulle implicazioni di una organizzazione del terrore capace di portare la morte entro le metropoli dell’occidente.

Con un quasi Stato, oltre che con la minaccia delle armi si parla con la diplomazia, con l’arte del compromesso, con l’offerta di un ragionamento plurale sulla nuova ripartizione dei territori in un’area ormai implosa. Solo con i conflitti non mediabili, quando cioè le altre alternative sono sfumate, si procede manu militari. Ma, anche in questi casi, l’efficacia delle armi è stata sinora devastante, e le guerre del petrolio hanno creato solo disordine mondiale. Non si può trascendere il nucleo forte degli interessi di potenza che la Russia tradizionalmente coltiva in Siria. E non è possibile escludere la tattica del negoziato con la semplice definizione del nemico come agente del terrore.

Il fatto è che la gola tagliata dall’Isis allarma molto di più della testa legalmente sgozzata in Arabia, con le cui classi dirigenti le cancellerie europee sottoscrivono contratti d’oro. Con ciò che si definisce Stato islamico è prova di forza, non di disperata debolezza parlare con il linguaggio degli interessi, dello spazio, delle risorse. Dopo tutto, anche i capi dell’esercito del Califfato maneggiano più i barili di greggio che gli scaffali zeppi di Corano. Si tratta di élite del terrore che rivendicano potere e quindi sanno effettuare il calcolo dei costi e dei benefici dinanzi a offerte e a minacce.

Confidano i signori del Califfato in un indubbio punto di forza, e cioè il prevedibile contagio della maschera fondamentalista nelle rabbie delle periferie della vecchia Europa. La sola forza del Califfato è nel consenso che può nascere tra fasce di cittadini esclusi delle periferie, colpiti non tanto nella carenza di risorse economiche ma nella dignità. Privare ancor più di dignità i migranti in nome della sicurezza e negare negoziati con le élite del terrore in nome dei diritti umani non disponibili, questa sì che è l’avventura folle, che conduce l’occidente al suicidio.

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