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micromega

La guerra al sindacato e l'etica neoliberista

Carlo Formenti

Harlan Elrich insegna matematica in una media superiore californiana. È assurto agli onori della cronaca nazionale perché, assieme ad altri nove colleghi e con l’appoggio del Center for Individual Rights (un’associazione di destra finanziata da alcune fondazioni conservatrici), ha denunciato il sindacato degli insegnanti perché lo obbliga a versare una quota di iscrizione anche se non ne condivide la linea politica. Il caso è finito davanti alla Corte Suprema che si presume prenderà una decisione entro la prossima estate. Decisione che, secondo gli esperti in materia, sarà quasi certamente a favore di Elrich e contro il sindacato, e sarà quindi destinata ad avere pesanti conseguenze sul potere contrattuale di tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche negli Stati Uniti.

Sul piano formale le posizioni che si fronteggiano sono, da un lato, la tesi di Elrich e soci, secondo cui l’obbligo di versare la quota di iscrizione viola il Primo Emendamento perché, nella misura in cui il sindacato non si limita a contrattare il salario ma prende posizione su temi politici generali (per esempio appoggiando questo o quel candidato durante le campagne elettorali), limita la libertà di espressione e di pensiero di quella parte degli iscritti che non ne condivide le scelte; dall’altro lato, il sindacato obietta: 1) che a chi condivide il punto di vista di Elrich viene rimborsata quella parte della quota di iscrizione che serve a finanziare l’attività di lobbying politica; 2) che se il versamento della quota diventasse volontario, si offrirebbe a una parte dei lavoratori l’opportunità di usufruire delle conquiste sindacali (aumenti salariali e altro) a sbafo, sfruttando cioè chi versa la quota che permette al sindacato di svolgere la sua funzione.

Sul piano sostanziale la questione è più tosta. La posta in gioco, come ha sottolineato un ex dirigente della confederazione AFL-CIO, è infatti la sopravvivenza stessa del sindacato, tanto più che, dopo decenni di aggressioni da parte delle imprese e dei governatori di destra che hanno falcidiato le rappresentanze del settore privato, i sindacati dei dipendenti pubblici rappresentano ormai la maggioranza degli iscritti. Del resto, come ci insegna la storia recente dei sindacati italiani, il punto è politico-culturale, prima ancora che economico-organizzativo. Le repressioni di Marchionne e soci in azienda, i continui attacchi legislativi da parte dei governi (vedi il Jobs Act), le tambureggianti campagne dei media che presentano i sindacati come una reliquia del passato che ostacola la crescita economica, mirano a creare: prima un clima d’opinione sfavorevole all’attività sindacale (e anche qui, come negli Stati Uniti, il bersaglio grosso sono soprattutto i sindacati dei dipendenti pubblici), poi una mutazione antropologica che faccia sì che le nuove generazioni non concepiscano nemmeno più la possibilità di coalizzarsi per tutelare i propri interessi.

Seguiranno (l’obiettivo è già stato formulato chiaramente da associazioni industriali e da molti politici di destra e di “sinistra”) l’abolizione dei contratti nazionali, il passaggio alla contrattazione aziendale, infine a quella individuale, perché la maggioranza comincerà a ragionare come il signor Elrich: “non ho bisogno del sindacato, posso negoziare per conto mio, perché sono un bravo insegnante e tutti mi rispettano”. È l’etica neoliberista che ci vuole tutti imprenditori di noi stessi, un’etica che anche chi pensa che i nuovi soggetti della rappresentanza del lavoro debbano essere free lance e lavoratori autonomi finisce per avallare, nell’illusione di poter costruire nuove coalizioni che sostituiscano le vecchie sigle nel ruolo di interlocutori privilegiati di padroni e politica. Purtroppo, fatti fuori i vecchi sindacati, anche loro si accorgeranno di contare poco o nulla.

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