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manifesto

Suicidio a due velocità

Marco Bascetta

Abolire Schengen per salvare Schengen. Il paradosso è servito. L’imponente afflusso di migranti dal Medio Oriente e dall’Africa non sarebbe più compatibile, sono in molti a pensarlo, con la libera circolazione all’interno dell’Ue, di fatto già interrotta dalla decisione unilaterale di diversi stati di ristabilire controlli alle frontiere.

Nessuno ignora, tuttavia, che la fine di Schengen ostacolerebbe anche la circolazione delle merci e della forza-lavoro (anche quella comunitaria) assestando un serio colpo all’integrazione economica e al mercato comune.

Una frontiera nazionale non la si può infatti circoscrivere a una singola emergenza né ricondurre a una regola generale condivisa. È, per definizione, affare della nazione che la istituisce. A questa e solo a questa sono riconducibili i criteri e i metodi di gestione del confine, la larghezza delle sue maglie, i suoi principi di selezione.

Sul confine nazionale si arresta il diritto comunitario. L’involuzione autoritaria in corso nei paesi dell’est potrebbe, per esempio, sbarrare il passo ad altri fattori «inquinanti», quali attivisti transnazionali o altre persone «non grate». L’Unione si è del resto rivelata piuttosto impotente nel contrastare sostanziali deroghe ai principi della democrazia in alcuni dei suoi paesi membri.

Il pericolo è evidente e fioriscono così le formule più varie per salvare il trattato di Schengen da se stesso. Si spazia dall’istituzione di un’area più ristretta di libera circolazione nordeuropea che trasferisce l’idea dell’ Europa «a due velocità» a quella dell’Europa «a due confini» (sancendo così definitivamente la frattura tra nord e sud e la fine dell’Unione) fino all’ipotesi di sospendere l’accordo per due anni.

Quanto basta per renderlo un evanescente ricordo.

Non sono che miserabili tentativi di dare una copertura europea alla dilagante riscossa degli egoismi nazionali e all’incapacità di tenerli sotto controllo. Dall’Olanda si propone la deportazione forzata dei profughi verso la Turchia (un buco nero dentro al quale nessuno ha interesse a gettare uno sguardo), mentre la Svezia annuncia 80.000 espulsioni via charter.

Missione impossibile, aldilà dei suoi intenti propagandistici, destinata comunque a protrarsi per decenni. Altro che «emergenza».

Alla fine la tempesta si abbatte sul reprobo per antonomasia, il governo della Grecia.

Che la chiusura delle frontiere escludono di fatto dall’area Schengen dalla quale Bruxelles minaccia di escluderla anche di diritto se non saprà difendere come si deve il limes dell’Unione. Le pressioni erano partite dalla ministra degli interni austriaca Johanna Miltk-Leitner che aveva accusato la marina greca di non fare abbastanza per contrastare gli sbarchi.

La risposta da Atene è stata netta: «Che dovremmo fare, affondare le imbarcazioni stracolme di rifugiati?» Forse a Vienna farebbe maggior comodo un governo di Alba Dorata, ben più adeguato a svolgere questo genere di funzioni. Per la seconda volta in pochi mesi, è in Grecia che lo stato in cui versa l’Unione europea, per non dire la sua natura distorta e squilibrata, viene pienamente in luce. Nonché il filo che lega la crisi dei debiti sovrani con quella dei migranti.

Intanto i segni di imbarbarimento proliferano un po’ ovunque. Lasciando anche da parte quei paesi dell’est che dichiarano apertamente la propria divergenza dai modelli democratici occidentali, nella civile Danimarca la ministra dell’immigrazione Inger Stojberg interpreta fieramente il suo mandato con il compito di rendere la vita impossibile ai rifugiati tramite drastiche restrizioni del diritto di asilo e sadiche vessazioni quali il sequestro di tutti i beni in possesso degli immigrati che eccedano il valore di 1.340 euro. Misura infame analoga a quella, ancor più esosa, adottata dall’extracomunitaria Svizzera.

La Gran Bretagna, sempre più blindata, accoglierebbe solo qualche migliaio di minori non accompagnati, passati attraverso il filtro dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu.

L’orrore procede per slittamenti progressivi sempre più rapidi e inquietanti. E mentre tutto questo apparato di discriminazioni e respingimenti viene spacciato come strumento per sedare l’allarme dell’opinione pubblica ottiene il risultato diametralmente contrario: quello di alimentarlo insieme all’ostilità verso gli stranieri agendo come una implicita legittimazione dei sentimenti xenofobi.

Non passa giorno che banali episodi di vita quotidiana non si trasformino in eclatanti allarmi terrorismo. In Germania, secondo gli organi di sorveglianza, migliaia di attivisti dell’estrema destra sarebbero pronti ad azioni violente contro i rifugiati.

A questa gestione «protezionista» della crisi se ne affianca però un’altra, tutto sommato meno ipocrita anche se complementare.

Se ne fa interprete il capo economista della Deutsche Bank David Folkerts-Landau secondo cui la discriminazione deve essere portata dentro i confini dell’Unione. Il flusso migratorio suggerisce, a suo parere, di abolire il salario minimo e il principio di uguale retribuzione per uguale prestazione.

I rifugiati, insomma, nel bisogno impellente di trovare lavoro in seguito alla negazione dei sussidi, dovrebbero ottenere un salario inferiore a quello dei lavoratori tedeschi. Questo bacino di forza lavoro a basso costo consentirebbe allora di ricondurre in patria produzioni delocalizzate e costituirebbe una formidabile attrattiva per gli investimenti.

Insomma un ulteriore fattore a favore della competitività dell’economia germanica. Una combinazione vincente di interesse nazionale e profitti. Che scatenerebbe però aspri conflitti su un mercato del lavoro giocato tutto al ribasso.

Cosicché sarà un delicato equilibrio tra filtraggio dei migranti e bisogno di mano d’opera, necessariamente regolato da un confine, a guidare la politica di Berlino, ma non a tenere insieme l’Europa. Che mai è stata debole e instabile come lo è oggi. E che con la fine di Schengen, in un modo o nell’altro, si avvia verso l’insussistenza.

Comments

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Claudio
Monday, 08 February 2016 11:58
Sul paradosso mi trovo d'accordo con lei, mentre sulla "interpret(azion)e del capo economista della Deutsche Bank, David Folkerts-Landau, secondo cui la discriminazione deve essere portata dentro i confini dell’Unione". Il che significa, "a suo parere, di abolire il salario minimo e il principio di uguale retribuzione per uguale prestazione", vorrei poter aggiungere la seguente riflessione.
Per prima cosa ricordo che la globalizzazione della forza-lavoro, è stata spinta dalla grande finanza globalizzata, proprio per poter abbassare i salari, ed aumentare conseguentemente i pingui profitti.
Allo stesso risultato a cui vuole arrivare il solerte ministro, mirava l'illustrissima cancelliere, signora. Merkel, allorquando ha spalancato "magnanimamente" le porte della grande Germania agli esuli siriani, e soltanto a loro, in quanto dotati di elevata professionalità, e quindi pronti per esser sfruttati dalle rampanti industrie tedesche (se ci dovesse essere una ripresa produttiva in Europa, che per il momento però sembra alquanto evanescente, e non soltanto in Europa), e per tali "disinteressate" aperture, applauditissima dai riformisti buonisti nostrani, che gli hanno riconosciuto doti di unica vera statista d'Europa. Il fatto che la generosa apertura gli sia poi scoppiata fragorosamente tra le mani, ed abbia creato ondate xenofobe in molti paesi europei, e sia inoltre all'origine delle poderose spinte all'abolizione del trattato di Schengen, è un altro discorso, che tratteremo in un'altra occasione, se sarà necessario.
In quanto al salario minimo che il nostro magnanimo ministro vorrebbe abolire, vorrei ricordare che si tratta dell'astronomica cifra di ben 8,50 euro l’ora, la quale, tra l’altro, viene frequentemente aggirata dai solerti ed assai altruisti imprenditori germanici, come ha più volte documentato, a mo d'esempio da imitare, il quotidiano conservatore Die Welt. Sul punto, dev’essere però chiaro a tutti, che al centro dell'attenzione del governo tedesco, così come di tutti gli altri governi, al soldo della grande finanza, non è soltanto la forza-lavoro immigrata, la quale deve fungere da semplice apripista, in modo da poter ridurre i salari ai lavoratori autoctoni, che sono molto più numerosi.
Infine, sulla sua deduzione a conclusione dello scritto, secondo cui "scatenerebbe(ro) però aspri conflitti su un mercato del lavoro giocato tutto al ribasso", mi trovo perfettamente d'accordo sulla seconda parte di tale deduzione, mentre sulla radice del suddetto discorso, considerando il ruolo di convinti sostenitori del regime, giocato in tutti questi decenni dai sindacati, ed in particolare da quelli tedeschi, mi consenta d'avere fortissimi dubbi.
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