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Europa e anti-Europa

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Giovedì e venerdì scorso hanno avuto luogo due incontri internazionali tutto sommato marginali ma estremamente simbolici. Giovedì la Lega Nord di Matteo Salvini si è incontrata a Milano con le destre “euroscettiche” di tutta Europa e in particolare con Marine Le Pen, vero cardine della moderna destra radicale continentale; venerdì invece è avvenuto l’atteso vertice bilaterale tra l’Italia di Matteo Renzi e la Germania di Angela Merkel. I due eventi rientrano in quella diplomazia priva di significati sostanziali. La concomitanza li ha però innervati di significati simbolici tutt’altro che secondari.

Mai come nella scorsa settimana si è avuta la netta sensazione di una faglia storica che andrà sempre più approfondendosi: da una parte le forze coerentemente “europeiste”, quel partito unico formato dai centrosinistra e centrodestra nazionali espressione politica del processo liberista europeista; dall’altra quelle forze politiche che a parole combattono l’Unione europea, tutte oggi inequivocabilmente schierate a destra.

Simbolicamente le immagini e le parole dei due fronti non potevano essere più distanti. Da una parte un establishment politico-economico che reitera se stesso costruendo un polo imperialista sempre più contraddittorio; dall’altra un “anti-establishment” reazionario capace però di raccogliere i consensi se non di tutti, di una grande parte della popolazione impoverita dall’accentramento ordoliberista. Questa faglia, questa contraddizione insanabile tra Europa e anti-Europa (dove per Europa deve intendersi Unione europea), invaderà sempre più il campo dei rapporti politici del prossimo futuro nel nostro continente. La frattura correrà sempre più sulla visione politica dell’Unione europea, schiacciando inevitabilmente la posizioni in un pro o contro il processo imperialista. Anche in chiave nazionale, ormai la distinzione vera, seria, sostanziale tra forze politiche concerne il rapporto con la Ue. Chi è a favore e chi è contro. Chi non si schiera viene risucchiato da una delle due posizioni, il più delle volte quella europeista. In tale dinamica perversa, ma a suo modo densa di significati e di svelamento, la sinistra rischia di scomparire.

Il campo europeista assumerà forme sempre più politicamente omogenee, sfrondando vecchie distinzioni tra centrosinistra e centrodestra per trasformarsi in una sorta di “partito della nazione” transnazionale, una specie di Democrazia cristiana aggiornata e al passo coi tempi. Già oggi (ma da diverso tempo in realtà), le differenze politiche tra sinistra e destra europeiste sono decisamente marginali, e tutte relegate a campi sovrastrutturali fisiologici ma non determinanti (tra Renzi, Hollande, Merkel, Cameron, Rajoi, ecc passano molte più omogeneità che differenze insomma). Viceversa, anche il campo antieuropeista rischia di assumere forme sempre più politicamente omogenee. Le differenti forze anti-Ue del continente, pur nelle loro diversità rivendicate, hanno in comune molto più di ciò che non dicono (anche tra M5S, Ukip, Lega Nord o Front National passano molte più omogeneità che differenze). Alla prova dei fatti, l’intento di scompaginare questo piano decidendo di non schierarsi, come ad esempio la Syriza di Tsipras, è destinato ad un inevitabile fallimento. L’esperienza di una forza di sinistra radicale ma ambigua sul piano dell’europeismo ha prodotto prima una crisi e immediatamente dopo una normalizzazione politica inevitabile. Oggi Syriza è un soggetto politico completamente pacificato, adeguato all’europeismo, malleabile e sconfitto. E tale parabola costituirà l’orizzonte di tutte quelle forze, ad esempio Podemos ma non solo, che si propongono forme di populismo di sinistra volontariamente ambiguo sul piano della rottura con la Ue.

L’assenza della sinistra in uno dei due campi dovrebbe far riflettere. Questa infatti non è determinata dalla forza di imporre e contrapporre un “terzo campo” distante tanto dall’una quanto dall’altra visione (cosa d’altronde politicamente impossibile: la realtà non la si può manipolare sottraendosi alle contraddizioni che produce, ma occupare politicamente piegandola ai propri superiori interessi). Oggi la sinistra in assenza di posizione è risucchiata nel primo campo, quello della subalternità all’establishment europeista. Producendo, di conseguenza, la sua scomparsa, perché come forze coerentemente europeiste i vari “partiti della nazione” rispondono meglio e con maggior successo elettorale alle attese dei rispettivi elettorati ma soprattutto alle aspettative dei potentati economici protagonisti del processo europeista. La scommessa per il futuro è allora quella di incrinare e disarticolare il fronte antieuropeista, provando ad occuparlo, destrutturando le proprie narrazioni tossiche pacificanti, reintroducendo il conflitto declinato però su di un terreno visceralmente anti Unione europea. Per fare questo però quella stessa sinistra dovrebbe (ri)dotarsi di una capacità di rappresentanza, accettare culturalmente lo scontro oggi in atto, scegliere di posizionarsi da una parte. Non è un percorso facile o di breve periodo. Ma se quella faglia di cui parlavamo continuerà ad allargarsi e ad occupare il piano del discorso politico, o accettiamo la sfida o saremo destinati alla perenne irrilevanza.

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