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leggilanotizia

Stampa e Repubblica, il matrimonio dell'anno

Sergio Bellucci

È l'intero mondo dell'informazione che inizia la fase di trasformazione definitiva verso il mondo digitale. Gli equilibri che hanno governato il sistema dell'informazione nell'intero '900, sono finiti. Si basavano su uno scambio che, giorno dopo giorno, viene sempre meno. I mass media dovevano raggiungere i cittadini con i loro contenuti e le aziende li avrebbero usati per essere veicolati, con la loro pubblicità, fino davanti agli occhi del cittadino pensato come “consumatore”. I soldi per far funzionare il sistema dei media arrivavano direttamente dalle aziende che, nel concreto dei processi economici, compravano noi tutti sul mercato della pubblicità dei mass media. È per questo motivo che ci hanno potuto “regalare” i contenuti televisivi che, in realtà, pagavamo ogni volta che compravamo un prodotto al supermercato attraverso una tassa invisibile sulla marca e sul prodotto.

Ora il digitale sta rimescolando tutto, gli utenti si sganciano dai mass media tradizionali, giornali, televisioni e radio, e migrano verso strumenti nuovi e la pubblicità si sgancia dai vecchi prodotti e prova ad inseguire il nuovo che avanza. Un nuovo che è più efficiente e a minor costo del sistema precedente.

È in questo quadro che la crisi dei quotidiani investe le aziende del settore e impone nuove strategie imprenditoriali. La vicenda La Repubblica-La Stampa s'inserisce all'interno di questa grande trasformazione. Ovviamente il senso di questa ristrutturazione ha, come sempre, un tasso di complessità più alto di quello che sembra all'apparenza. Da un lato, infatti, la scelta di andare verso la più importante ristrutturazione del sistema editoriale degli ultimi decenni, poggia sulla modifica di fondo della struttura del sistema dell'informazione, ma si possono intravvedere almeno altre due “gambe” sul quale poggia il tavolo dell'operazione. La prima è sicuramente quella di premere sul governo e l'attuale maggioranza per strappare una legge di riforma del sistema dell'editoria che consenta di scaricare sulle casse dello stato i costi della ristrutturazione. C'è da scommettere che la spinta ad ottenere delle norme utili ad “alleggerire” il peso dei costi delle ristrutturazioni del settore in crisi non verrà soltanto dalla risultante del processo di fusione dei due grandi quotidiani. Tutte le aziende del settore devono prepensionare le figure professionali più alte per abbassare i costi e utilizzare personale a costi più bassi. I vecchi livelli di stipendio e i livelli di “tutele” dell'era pre-digitale sembrano diventare, giorno dopo giorno, sempre più un residuo garantito ad una cerchia in via di esaurimento che una condizione di garanzia professionale estendibile alle figure del settore. Già oggi abbiamo una condizione reale del settore dell'informazione che si basa su una separazione sempre più drammatica tra il prima e il dopo. E la base del “dopo” si allarga sempre di più proprio per poter continuare una produzione di contenuti necessaria a produrre giornali e telegiornali o radiogiornali. La legge approvata alla camera sulla riforma del settore dell'editoria (e ora approdata al Senato) contiene tante e troppe deleghe al governo. Queste deleghe si trasformeranno in una trattiva svolta in luoghi esterni ai processi trasparenti e consentiranno al governo di tenere sulla corda i gruppi editoriali nei prossimi, fondamentali, mesi.

La terza e ultima gamba del piano inclinato della fusione è rappresentato dal nocciolo politico dell'operazione. Il sistema politico italiano è strutturalmente in crisi e il ridisegno della geografia politica non si è arrestato con l'avvento di Renzi al governo. Anzi. Alla crisi del gruppo dirigente del PD che ha portato l'ex sindaco di Firenze alla poltrona più ambita del nostro paese ha fatto da contraltare la completa dissoluzione del campo del centro-destra. L'impossibilità di andare oltre la coppia Berlusconi-Salvini rende il PD, di fatto, unico interlocutore dell'intero establishment economico-finanziario del paese. Ovviamente a tale scenario neo-democristiano (nel senso di una sorta di strada obbligata nella scelta dei poteri del paese nello schierarsi sul piano politico) corrisponde la necessità di costruire un quadro comunicativo “omogeneo”. La Pax berlusconiana, che ha governato per 30 anni gli equilibri del sistema dei media, anche per i suoi riflessi verso il mondo dei quotidiani, sembra tramontare velocemente e l'accelerazione del sistema tecnologico sembra voler obbligare i contendenti verso un esito che avrebbero volentieri rimandato. La fusione dei due quotidiani, quello romano e quello torinese, segnala l'inizio della corsa per la costruzione di un polo comunicativo ad uso e consumo del Partito della Nazione che sembra affacciarsi come esito della cura renziana al PD. L'ingresso in maggioranza del gruppo politico del toscano Verdini, sembra essere stato come un Là ad una operazione  dall'orizzonte politico assolutamente obbligato per la strategia renziana. In realtà, è l'intero assetto del mondo della comunicazione che sta piegandosi al progetto neo-centrista. Dal riassetto del servizio pubblico, alle norme sul mondo dell'editoria per arrivare agli accordi fiscali con gli OTT del mondo del web, il mondo della comunicazione e dell'informazione sembra chiudere, tappa dopo tappa, una sorta di nuovo punto di equilibrio con il potere politico. Nella chiusura di tale nuovo accordo emerge una sorta di declassamento del potere milanese, come dimostra la riduzione di peso del ruolo del gruppo RCS e, ancora non in maniera esplicita, di quello del gruppo Mediaset.

Ovviamente, come accade spesso anche al diavolo, tutto è stato pensato ma, nei cavilli delle norme ancora rimaste in vigore, emerge una pentola che rimane senza coperchio. Una vecchia legge del millennio precedente, rimasta probabilmente incolume dall'asfaltatura delle norme voluta da Berlusconi nel decennio scorso, che stabiliva un tetto alla concentrazione delle copie in capo ad un solo editore potrebbe far saltare tutto e impedire la realizzazione dell'ardita strategia di fusione dei due quotidiani. Vedremo se l'AGCOM, che dovrebbe presiedere alla garanzia del pluralismo nel nostro sistema informativo e comunicativo, troverà il coraggio di alzare la testa e imporre lo stop che le leggi prevedono.

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