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PD, dopo il fallimento delle primarie romane, avremo le secondarie?

di Giorgio Salerno

Ancora una volta il Partito Democratico è al centro della scena politica per alcune vicende che ne scuotono la vita interna e che alimentano il dibattito sulla natura ed il futuro del partito: le primarie di domenica 6 marzo e l’intervista di D’Alema di cui ci occuperemo in un prossimo articolo.

A Roma la partecipazione alle primarie è stata di 44.000 elettori, numero di gran lunga inferiore a quello che incoronò Marino candidato sindaco con 104.000 voti nel 2013. Un fallimento. ‘Una città dalla pelle scorticata’ (Bersani). A Napoli numeri altrettanto scarsi ma con lo scandalo dei voti comprati e la ‘non vittoria’ di Bassolino per poche centinaia di voti. Uomini che ‘sussurravano alle tessere’. Accuse, ricorsi e contro-ricorsi. Una faida.

Delusioni, frustrazioni, richieste di regolare le primarie per legge, messa in dubbio dell’istituzione stessa. Impietosi giudizi di autorevoli commentatori politici vicini al PD come Ezio Mauro che ha parlato di anima smarrita del Pd nato proprio nell’auto mitologia delle primarie che oggi ‘vengono viste come un rito usurato e inutile, di auto-conferma di una nomenclatura minore’; Antonio Polito lamenta un PD lacerato, Massimo Franco che il PD stia cambiando meno di quanto dichiara, il patetico Veltroni che implora di non sciupare il suo PD “partito-società che fa scegliere ai cittadini e non a ristretti gruppi dirigenti i candidati ai vertici istituzionali” (sic !).

Vale la pena soffermarci un attimo sulla storia delle primarie nel nostro Paese. Furono utilizzate, le prime volte, per la scelta di candidati alle elezioni amministrative ma il loro vero atto di nascita avvenne il 16 ottobre del 2005. Esse si svolsero su scala nazionale ed erano indirizzate a tutti gli elettori italiani di centro-sinistra.

Eravamo ancora nella fase ‘ulivista’ cioè al tempo della coalizione tra DS e Margherita e furono volute soprattutto da Romano Prodi e da Arturo Parisi i quali, non essendo l’Ulivo un partito e non avendone Prodi uno suo, volevano una investitura popolare che desse più forza alla leadership della coalizione di allora.

L’Unione chiese ai suoi elettori di scegliere il candidato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per le elezioni politiche che si svolsero nel 2006 (e che furono vinte da Prodi seppur di poco). Segnarono un insperato successo poichè videro la partecipazione di ben 4 milioni e 300mila cittadini ed incoronarono Prodi leader con più di 3 milioni e 182mila voti di preferenza. Gli altri voti si dispersero sugli altri candidati alla leadership.

Sull’onda di questo innegabile trionfo, di questa entrata in scena di un popolo antiberlusconiano che si riconosceva nella ‘chiamata’ democratica per dirimere le controversie tra i vari leader della coalizione, le primarie furono assunte come pilastro costituente del nuovo partito che nasceva dalla fusione tra gli ex comunisti e tra gli ex democristiani che diventavano Partito Democratico.

Nella ‘prima’ Repubblica il processo di selezione dei gruppi dirigenti dei partiti avveniva dentro gli stessi partiti secondo un cursus honorum che designava il candidato alla carica in questione dopo anni di militanza e dopo una serie di ‘prove’ di competenza, capacità, rappresentatività e proiezione esterna. L’abbandono delle culture di riferimento, o delle ideologie come si diceva un tempo, e la disaffezione crescente dei cittadini verso la politica, convinsero il neonato PD a sposare il meccanismo delle primarie.

Tra l’altro piacevano molto ad un Veltroni sempre più anglosassone ed ‘americano’, prima blairiano e poi kennediano e clintoniano (Obama non era ancora arrivato alla Presidenza degli Stati Uniti).

Veltroni le utilizzo’ nel 2007 per individuare il Segretario Nazionale del nascente Partito. Si recarono ai gazebo più di 3milioni e mezzo di elettori e Veltroni fu eletto segretario con 2milioni e 700mila voti circa. Seconda si piazzo’ Rosy Bindi con mezzo milione di voti e terzo Letta.

Naturalmente già da subito si avverti’ il pericolo che essendo aperte ai cittadini tutti, simpatizzanti ed elettori del PD o del centrosinistra, poteva accadere che al voto si presentassero elettori dell’altra parte politica per influenzare la scelta del candidato. Le primarie per i Sindaci ed i Presidenti delle Regioni dimostreranno, pochi anni dopo, come questa possibilità si avverasse massicciamente nelle ultime elezioni regionali in Liguria, e poi per le comunali di pochi giorni orsono. Ma anche per la vittoria di Renzi alle primarie per la segreteria del PD che videro il voto del 45% degli iscritti al partito per Renzi ma ben il 67,5% dei voti espressi alle primarie ed aperti a tutti. La differenza la fecero in parte i voti di elettori di centro e di destra.

L’altra critica seria all’istituto delle primarie è che esse si svolgono senza alcuna garanzia di controllo sulla veridicità del numero dei partecipanti e sulla quantità delle preferenze espresse nonchè sulla possibilità di brogli nelle chiuse stanze del partito.

Non vi è alcuna autorità indipendente che certifichi la regolarità e la trasparenza di tutte le operazioni delle stesse.

Viene spontaneo chiedersi: sono ancora utili le primarie? hanno ancora forza attrattiva? e Renzi vorrà tenerle in vita? E’ già singolare che sia passato sotto silenzio il fatto che non si siano tenute né a Torino né a Bologna perché sono stati (da chi?) riconfermati candidati i sindaci uscenti. Allora il popolo democratico è chiamato a dire la sua quando il partito non sa che pesci pigliare?

A nostro parere non vi saranno più primarie per la scelta del Segretario del Partito Democratico. Renzi ha dichiarato che il referendum sulle riforme costituzionali è il primo banco di prova della sua leadership ed il secondo il Congresso del PD nel 2017. Poi le Elezioni politiche nel 2018. E’ questo il percorso più conveniente per Renzi che, con la sua spregiudicatezza sceglie sempre il terreno di gioco a lui più favorevole: le primarie quando si trattava di battere Bersani sapendo che nel Partito non contava la stessa forza che aveva nell’opinione pubblica, il congresso di partito quando ormai la sinistra è ridotta al lumicino e non potrà contare su iscritti ormai renzianizzati.

E’ venuto al pettine il nodo delle primarie. Nacquero per un deficit di politica, muoiono quando la politica (cattiva) ha ripreso il sopravvento. In soatanza non servono più al PD renziano, anzi ne sono un intralcio. Un giudizio non sospetto e molto autorevole è quello del primo beneficiario delle primarie, Romano Prodi.

Secondo Prodi le primarie sono state “un parziale rimedio alla caduta di partecipazione dei partiti politici. Non per nulla sono nate in America dove i partiti sono solo macchine elettorali e dove la scelta dei candidati attraverso le primarie rende almeno più trasparenti le scelte stesse” (R. Prodi “Missione incompiuta. Intervista a Marco Damilano” pag. 105, Laterza 2015). Nello stesso libro-intervista Prodi riconosce di aver fatto il suo ‘errore più grande ‘, uno sbaglio, all’indomani dell’enorme successo delle primarie del 16 ottobre 2005, non costruire un suo partito politico, il Partito dell’Ulivo. E secondo prodi senza l’Ulivo, che univa in coalizione gli ex PCI e gli ex Dc, il Partito Democratico non esisterebbe. Un Partito che ereditava l’idea forte dell’Ulivo, mettere insieme tutti i riformismi.

Prodi non immaginava che quel partito avrebbe messo insieme tutti i trasformismi

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