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manifesto

Il giornalista astratto e il professore concreto

Paolo Favilli

Modernità, Europa, occidente usati come un’invocazione rituale senza scomodare la parola "capitalismo". Proprio il cuore della riflessione del nuovo soggetto politico

Alcuni giorni fa su questo giornale è uscita un’ampia recensione ad una nuova «Storia del marxismo». Come la quasi totalità delle storie generali del marxismo, si tratta di un’opera dedicata all’analisi di una particolare forma marxismo: il marxismo teorico. Il recensore, Roberto Finelli, è un professore di storia della filosofia con propensioni sostanzialmente teoretiche.

Ci troviamo quindi di fronte ad un insieme culturale di per sé tendente alle sfere rarefatte dell’astrazione, un insieme che dovrebbe essere adatto alla spiegazione della nostra realtà economica, politica, sociale soltanto attraverso un lungo e complicato sistema di mediazioni. Un percorso che appare comunque lontano dall’analisi del nostro quotidiano.

A ben vedere, però, nell’articolato testo Finelli si è interrogato su una prospettiva che rivendica la necessità di usare categorie come «sistemi: e a trattare della privatezza dell’esistenziale e del personale in un dialogo con lo studio della sistematica economica e sociale della nostra realtà, che non è postmoderna quanto invece ipermoderna». Categorie essenziali all’analisi delle «differenze reali» che attraversano e strutturano «il totalitarismo dell’universale capitalistico», (il manifesto, 9 marzo).

Se leggiamo la stampa mainstream, quella autorevole con le sue autorevoli firme, per comprendere il rapporto tra la «sinistra» e i meccanismi di mutamento nel lungo periodo ci troviamo di fronte un evidente paradosso. I giornalisti, che per mestiere dovrebbero essere del tutto calati nelle cose, costruiscono argomentazioni proprio dalle «cose» sostanzialmente avulse, mentre il professore, teorico per mestiere, ha dato prova di particolare concretezza analitica. Non c’è niente di casuale, però, in questo paradosso.

La capacità di concretezza, e dunque la capacità di porre domande alle «cose» in una logica davvero esplicativa, è direttamente proporzionale ad ampiezza e spessore dello sguardo analitico. Le grandi firme della stampa si trovano, per scelta e per convinzione, esattamente nella condizione del corrispondente di guerra embedded di cui abbiamo fatto vasta esperienza nelle molteplici campagne di esportazione della democrazia che hanno caratterizzato questo inizio di XXI secolo. Come quelli erano incapsulati nella macchina da guerra che determinava i loro spazi di movimento, la loro visuale, così gli autorevoli sono integrati, incorporati, del tutto immersi nell’orizzonte ben delimitato dalle ragioni e dalle logiche dell’accumulazione in atto. Non vedono, non possono vedere, panorami analitici ispirati a logiche diverse e fuori da quei limiti. Non vedono, e non possono vedere, un vastissimo mondo di sofferenza che certamente, oggi, in generale, si esprime nelle varie forme del caos, ma che è passibile anche di trovare forme diverse.

E allora le parole, il linguaggio, le narrazioni si fanno «leggere», non nel senso calviniano naturalmente, ma nel senso dell’irrilevanza di significato, e diventano un contributo non secondario a quei meccanismi di manipolazione che sono sintomi evidenti di degrado della democrazia. La «sinistra» ch’essi continuamente evocano deve essere la risultante di un pensiero moderno, europeo, occidentale.

Ovviamente ognuno dei termini di riferimento (modernità, Europa, occidente) è al centro, e non certo da oggi, di una vastissima letteratura critica. Invece tale terminologia è usata alla stregua di un’invocazione rituale del tutto ovvia, quasi fosse di per sé evidente; in maniera tanto ripetitiva quanto priva di qualsivoglia concretezza. O meglio, l’espressione, continuamente ripetuta, non è altro che la forma manipolatoria di superficie della convinzione profonda in cui le autorevoli firme stanno comodamente incorporate: la sinistra moderna, europea, occidentale è quella che non ha elementi contraddittori con le logiche della fase di accumulazione in corso. Esattamente la sinistra che c’è, e che non a caso usa le stesse parole. Non usa invece le parole che derivano da un altro modo di pensare la modernità: quello per cui la storia della modernità coincide con la storia del capitalismo moderno. Pensare la modernità, dunque, è pensare fasi e forme del capitalismo e le parole che ne derivano rimandano tutte ad una dinamica conflittuale.

«Privo di questi vocaboli come può il linguaggio rendere conto della storia che ne è piena, e che continua a trasportarli, muti?» (Forrester, 1997)

Le difficoltà del processo di formazione di un nuovo soggetto politico di sinistra sono, al fondo, legate al fatto che componenti non marginali dello stesso vengono da lunghe esperienze nelle quali la politica che si sono trovati a praticare non aveva nessun rapporto con l’universo delle teorie critiche e con le parole che ne derivano. E di queste parole non può fare a meno nessun «nuovo soggetto politico» di sinistra. Senza queste parole anch’esso resterebbe muto.

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