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paroleecose

Modernità e limite. Sull’ultimo libro di Remo Bodei

di Luca Illetterati

Per Aristotele il limite è il punto estremo di ogni cosa; il punto, cioè, al di là del quale c’è il nulla della cosa e al di qua del quale c’è il tutto di essa. Il limite è dunque ciò che disegna l’esserci della cosa, che fa essere la cosa ciò che essa effettivamente è, ovvero, detto diversamente ancora, ciò a partire da cui la cosa assume un suo specifico senso e una sua specifica determinazione. Se questo vale per tutti gli enti – non c’è infatti ente fuori dal limite che lo costituisce – l’animale umano appare da un lato anch’egli segnato da limiti ineliminabili (il corpo, la nascita e la morte, ma anche la necessità di nutrirsi e di respirare), dall’altro come incessantemente spinto a una sorta di guerra contro i propri limiti costitutivi, nel tentativo di spostarli sempre più in là, di trasformarli e padroneggiarli in vista di un incremento continuo di essere, della possibilità di essere di più rispetto a ciò che egli è.

In questa sfida con il limite c’è evidentemente, per l’umano, il pericolo estremo. Il tentativo di andare al di là del limite, di oltrepassarlo, di opporsi alla sua stabilità, espone infatti al rischio della perdita di sé, dell’annullamento del proprio esserci, dello svaporare del modo d’essere stesso che lo costituisce in quanto umano. Il superamento del limite proprio – del limite cioè che appartiene all’ente in quanto tale e che gli consente di essere ciò che è – è ciò che i Greci chiamarono Hybris, ovvero la tracotanza, la pretesa di essere, appunto, altro da ciò che si è, il voler infrangere il limite che ci costituisce e di modificare così, attraverso lo sfondamento dei limiti dati, lo stato delle cose stabilito dagli dei.

L’idea di un limite di cui aver cura, che costituisce lo spazio dentro il quale si è se stessi e che non può dunque essere manipolato e trattato come un ostacolo passeggero o come una barriera accidentale, è uno dei temi che caratterizzano, nelle sua varie espressioni, dall’arte alla politica, tutta la cultura classica greca e romana. Si pensi, ad esempio, allo splendido e famosissimo racconto che Platone mette in bocca ad Aristofane nel Simposio. Secondo Aristofane, come è noto, la condizione attuale degli uomini – quello che potrebbe essere definito il nostro modo d’essere concreto, la nostra esistenza in qu8anto esseri finiti che abitano il mondo – è sostanzialmente il frutto di una punizione divina rispetto alla tracotanza degli umani, i quali, nella loro perfetta rotondità, pretendevano di porsi al medesimo livello degli dei, pretendevano, cioè, di andare al di là del limite che ne costituiva l’essere. Per questo Zeus li spaccò in due, li separò e – dice Platone – “di uno fece due”, tagliandoli a metà, “come una sogliola”. L’azione di Zeus è tutta tesa, evidentemente, a ristabilire il limite, anzi a fare di questa ferita prodotta dal taglio, di questa menomazione, il nuovo limite, ovvero, per meglio dire, la testimonianza del pericolo sempre incombente nel tentativo, che pure appare per molti versi connaturato alla natura dell’esistenza, di varcarlo o di ignorarlo.

In qualche modo – seguendo il percorso che traccia Remo Bodei in un piccolo libro della collana Parole Controtempo del Mulino (Limite, pp. 124, Euro 12) – si potrebbe affermare che questa hybris, o perlomeno ciò che agli antichi sarebbe sembrato tale, diventa invece il sigillo dell’umano nell’epoca moderna. Il moderno è per molti versi proprio l’erosione delle barriere che proteggevano quegli ambiti che nella cultura antica dovevano rimanere inaccessibili all’umano, che segnavano il limite preciso della differenza tra la condizione umana e quella divina, e cioè, in prima istanza, i misteri della natura, di Dio e del potere. La rivoluzione scientifica, e con essa l’impresa di penetrazione del linguaggio stesso della natura – per cui, per citare Galilei, l’universo sarebbe un libro scritto in caratteri matematici – la riforma protestante e la messa in discussione dell’autorità della Chiesa – che trova una sua specifica declinazione nella traduzione in tedesco della Bibbia, ovvero nella trasformazione da parte di un soggetto della lingua di Dio garantita dall’autorità della Chiesa – e l’analisi ‘scientifica’ delle diverse forme di costruzione e mantenimento del potere a opera di Machiavelli, segnano ben più che un’incrinatura dei limiti tradizionali dentro i quali veniva classicamente posta l’azione degli uomini rispetto al cosmo, a Dio e all’autorità politica, fino ad assumere per alcuni aspetti la forma di un radicale rivolgimento.

In questo senso si può affermare che uno dei tratti emblematici della modernità nella sua differenza rispetto al mondo classico a cui si contrappone è proprio quella che si può definire un’idea mobile del limite. Detto con altre parole: laddove nella cultura classica il limite è qualcosa di dato e oggettivo, che non può essere spostato o modificato, in quanto depositato nella cosa stessa, in quanto cioè segno di un ordine che non può essere manipolato dall’azione degli umani, nel moderno il limite diventa qualcosa di posto più che di dato. Ed essendo posto e non dato il limite è qualcosa a cui il soggetto non deve semplicemente attenersi, quanto invece qualcosa che egli può continuamente plasmare, modificare, spostare, spingere in una direzione piuttosto che in un’altra: “il limite diventa quindi – scrive Bodei – immancabilmente provvisorio, si sposta con i soggetti al pari dell’orizzonte, chiude per aprire, è fatto per essere sormontato” (96).

Il progresso, che è la parola chiave del moderno rispetto al mondo classico, è in effetti questo continuo spingere il limite sempre al di là, questa pressione continua a pensare l’oltre rispetto al dato, questo non considerare il limite come qualcosa di definitivo e stabile. Il moderno, detto diversamente ancora, è la cancellazione del peccato di tracotanza, è la decostruzione progressiva del senso della hybris classica attraverso la sua fagocitazione. Ed è una cancellazione che ancora una volta, però, per quanto all’interno di una visione totalmente diversa rispetto a quella classica, espone al rischio estremo, espone alla possibilità della distruzione di sè, della deflagrazione dell’umano a opera dell’umano stesso. Ciò è evidente nello sfruttamento delle risorse naturali o nella costruzione di ordigni in grado di distruggere completamente la vita nel pianeta. Ma è anche qualcosa che attraversa evidentemente la nostra esperienza quotidiana, nella quale la linea di demarcazione tra il lecito e l’illecito, tra il buono e il cattivo, tra il possibile e l’impossibile appare sempre più porosa, sempre più soggetta a contrattazioni estemporanee, sempre più difficile da rintracciare.

In questa convinzione, tutta moderna, che i limiti non sono semplicemente qualcosa di dato una volta per tutte e nello spaesamento, anch’esso tutto moderno, di fronte all’evanescenza del limite, si pone la questione radicale che interroga il presente. Una questione che chiama in causa da un lato l’inalienabilità della libertà dei soggetti, che costituisce la conquista irrinunciabile della modernità, e dall’altro lato la necessità del riconoscimento di un limite in grado di dare senso a quella libertà; la possibilità – che è il compito al quale ci troviamo di fronte – di istituire un nuovo senso della hybris, che sorga da quella libertà stessa e che non sia ad essa imposta da un’autorità che non ha più autorevolezza alcuna per farlo.

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