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Tecnopolitica e postcapitalismo secondo Paul Mason

di Matteo Pasquinelli

Una linea rossa collega gli internet café degli slum di Manila, usati spesso come reti autogestite di solidarietà e servizi, con la teoria dei cicli tecnologici dell’economista russo Nikolai Kondratieff, giustiziato dallo stalinismo nel 1938. Nel suo ultimo libro Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro (Milano: Il Saggiatore, 2016) Paul Mason batte sentieri eterodossi della storia dell’ultimo secolo per segnare la via d’uscita da un sistema economico, il capitalismo, che a suo dire “sta morendo”. La storia della sinistra e dei movimenti globali è ricostruita in un viaggio appassionante, che Mason, con la maestria di un giornalista d’inchiesta (già BBC e Channel 4), riconduce sorprendentemente alla questione tecnologica. Pochi autori sono riusciti in una sintesi del presente così robusta: seguendo la storia delle lotte e l’idea dei cicli di innovazione tecnologica di Kondratieff, Mason spiega l’attuale stagnazione come effetto del regime a costo-zero indotto dalle merci digitali e dal lavoro cognitivo.

Come incorniciare lavoro e tecnologia in un unico diagramma? La forma onda è bellissima, scrive Mason all’inizio del secondo capitolo. Il libro è ricchissimo di aneddoti storici, che sulla scorta di Kondratieff vengono appunto raccolti in quattro grandi ‘onde’ o cicli economici. Ciascun ciclo è legato a ben precise innovazioni tecnologiche e si sviluppa come un’onda, raggiunge l’apice ed entra in crisi, generando depressione e conflitti. Mason riconosce esplicitamente il lavoro come sorgente del valore economico, ma la tecnologia è qui la principale catalizzatrice dei cicli economici, che entrano in crisi quando appunto una ‘nuova’ tecnologia raggiunge il punto di massima diffusione e saturazione.

I quattro cicli storici sono grosso modo i seguenti: la rivoluzione industriale delle macchine a vapore (1790-1848); l’età delle ferrovie, del telegrafo e dei transatlantici (1848-1895); l’età del management scientifico, dell’ingegneria elettrica e del telefono (1895-1945); l’era dei transistor, dei materiali sintetici, dell’automazione industriale e dei computer (1945-2008). Periodizzare è sempre problematico e non sorprende che l’orologio modello di Kondratieff si inceppi subito dopo la quarta onda e non riesca a spiegare questa lunga onda di stagnazione, i cui sintomi hanno cominciato a manifestarsi già negli anni ‘90. Come surfisti fuori stagione, i capitali rimangono sul bagnasciuga ad aspettare una ‘quinta onda’ di ripresa economica che stenta a manifestarsi.

Mason riconosce che la sua tesi non è del tutto nuova: già Marx nei Grundrisse aveva presagito la crisi del capitale ad opera della conoscenza scientifica generale accumulata nella macchine come capitale fisso, di fronte al quale il valore prodotto dal lavoro manuale diventava progressivamente marginale. Ma di sicuro Mason è uno dei pochi a sottolineare l’effetto di devalorizzazione prodotto dalle tecnologie informatiche e concausa dell’attuale stagnazione. È evidente in questo libro il passaggio dalle posizioni dell’anticapitalismo al programma del postcapitalismo, il passaggio dalle lotte alla pianificazione, dall’organizzazione del lavoro all’organizzazione della tecnica. Mason ha di sicuro il merito di toccare il nervo scoperto di una questione teorico-politica ancora non risolta, ovvero la riappropriazione della tecnica o riappropriazione del capitale fisso, per usare un’espressione di Toni Negri.

Mason ricorda tutti “i profeti del postcapitalismo”, le lotte e i pensatori radicali che queste tesi hanno già anticipato: da Alexander Bogdanov all’Autonomia italiana, da André Gorz al movimento hacker. Ma in quale dibattito internazionale si inserisce il libro? L’idea di iniettare nell’agenda della sinistra e dei movimenti complexity theory, analisi di lungo periodo, pianificazione tecnologica e reddito di base incondizionato appartiene anche al libro Inventing the Future di Nick Srnicek ed Alex Williams (Londra: Verso, 2015). Mason ha il merito di fornire una cornice monetario-economica più realistica rispetto al motto fully automated luxury communism di recente divenuto molto popolare a Londra.

Se la proprietà dei nuovi robot e intelligenze artificiali (dei mezzi di produzione e del capitale fisso in genere: tecnologia, infrastrutture, piattaforme) non viene messa in discussione, la completa automazione nella grandi aziende ed un reddito di base sganciato dal welfare rischiano di esacerbare le disuguaglianze anziché contrastare l’accumulazione di capitale. In questo Mason sembra più vicino al dibattito nord-americano, dove la tecnopolitica, in modo molto pragmatico, è declinata come movimento do-it-yourself e cooperativista (vedi il lavoro di Trebor Scholz sul mutualismo 2.0 introdotto da Roberto Ceccarelli su il manifesto del 26 gennaio scorso).

Mason di sicuro intercetta una nuova generazione che riconosce se stessa come vittima sia del regime dell’austerity sia della crisi dell’economia digitale. Potremmo chiamarla la generazione dell’austerity digitale: una generazione che ha visto la rete trasformarsi al tempo stesso in un sistema di monopoli e in un apparato per la sorveglianza di massa. È un precariato planetario lasciato a terra dalle dot-com e diventato, in pochi anni, un esercito di baristi con titolo di dottorato. Si tratta di una composizione sociale la quale si riconosce sia in Assange e Snowden che in Podemos e Syriza (ed anche il movimento DIEM25 lanciato da Yanis Varoufakis sembra intenzionato ad incrociare questi due blocchi sociali).

Il programma politico di Mason si chiama Progetto Zero, perché si orienta verso un sistema energetico a zero emissioni, la produzione di beni a zero costi marginali e la riduzione del tempo di lavoro necessario (il più possibile) a zero. Nelle ultime pagine, in una dettagliata proposta, Mason inoltre chiede di sostenere modelli cooperativi di business come la compagnia Mondragon in Spagna, di sopprimere i monopoli, di nazionalizzare le banche centrali, di socializzare la finanza e di pagare a tutti un reddito di base.

L’uscita dal capitalismo che Mason intravede richiede quindi robusta ingegneria politica. Sarà la generazione della rete capace di costruire la Grande Macchina, ovvero di trasformare la potenza del codice digitale in un nuovo codice istituzionale, di tradurre il lavoro cognitivo in nuove visionarie istituzioni? Mason descrive una nuova dialettica tra potere costituente e potere costituito, nella quale un ruolo normativo viene riconosciuto anche alla tecnologia, alla infrastrutture di comunicazione e alle piattaforme globali (il nomos planetario imposto da Google sulla pelle degli stati nazione dovrebbe ricordacelo senza difficoltà). Sarà davvero la tecnopolitica a far saltare il vecchio gioco normativo? Per Mason è già all’opera.

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