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Bruxelles, il mostro fatto in casa

di Mario Lombardo

Il giorno successivo al doppio attentato di Bruxelles, con inattesa tempestività le autorità belghe hanno reso nota l’identità dei tre terroristi sospettati di essersi fatti esplodere all’aeroporto di Zaventem e alla stazione della metropolitana di Maelbeek. Due degli attentatori sarebbero i fratelli El Bakraoui, già ricercati dalle autorità in connessione con le stragi di Parigi dello scorso novembre. Vista la manifesta incompetenza della polizia e dei servizi di sicurezza belgi, è molto probabile che in questi mesi fossero entrambi nascosti più o meno tranquillamente a Bruxelles o nei dintorni della città.

Secondo la stampa belga, infatti, Khalid El Bakraoui aveva affittato sotto falso nome un appartamento di Forest, comune alle porte della capitale, perquisito dalla polizia il 15 marzo scorso durante la caccia all’unico membro ancora in vita del commando responsabile degli attentati di Parigi, Salah Abdeslam.

Prevedibilmente, come è sempre accaduto in occasione degli attentati di questi anni attribuiti al fondamentalismo islamista in Europa e altrove, i fratelli El Bakraoui erano ben noti alle forze dell’ordine, anche se prevalentemente per avere commesso crimini comuni. Khalid era stato condannato a cinque anni di carcere nel 2011 per furto, mentre il fratello maggiore, Ibrahim, a nove anni per avere sparato sugli agenti che lo stavano inseguendo dopo una rapina.

Le sorti del terzo uomo che avrebbe partecipato agli attentati di martedì sono sembrate chiarirsi solo nel tardo pomeriggio di mercoledì. In mattinata due testate belghe avevano dato la notizia del suo arresto a Anderlecht per poi fare marcia indietro. Più tardi, invece, le autorità di Bruxelles hanno spiegato che si trattava del terzo kamikaze, ovvero il secondo a colpire all’aeroporto.

L’uomo sarebbe Najim Laachraoui, alias Soufiane Kayal, 24enne, anch’egli coinvolto nell’organizzazione degli attentati di Parigi. Tracce del suo DNA erano state ritrovate sul materiale esplosivo utilizzato dai terroristi al teatro Bataclan e allo stadio Saint- Denis. Secondo il sito web del settimane francese Le Nouvel Observateur, nel febbraio 2013 Laachraoui era stato “uno dei primi belgi di origine araba a unirsi alla jihad siriana” e il 18 marzo 2014 le polizie europee avevano emesso nei suoi confronti un mandato di arresto internazionale.

Laachraoui era stato inoltre identificato alla frontiera autro-ungarica nel settembre 2015 assieme a Salah e a un altro organizzatore della strage di Parigi, Mohamed Belkaïd, ucciso nel già ricordato blitz nei pressi di Bruxelles la scorsa settimana.

Come già i movimenti di Salah Abdeslam e l’organizzazione degli stessi attentati di Parigi, anche le prime informazioni su quanto accaduto questa settimana a Bruxelles sollevano moltissimi dubbi e interrogativi. Per cominciare, se i responsabili sono da ricercare nell’entourage di Salah e quindi legati ai fatti di Parigi di novembre, com’è stato possibile che gli attentatori abbiano potuto organizzare una nuova operazione dal territorio belga ?

Gli oltre 100 morti di Parigi, oltre ad avere fatto scattare uno stato d’emergenza ancora in vigore in Francia con l’implementazione di misure da stato di polizia, avevano portato sul Belgio l’attenzione della comunità internazionale e, soprattutto, sulle forze di sicurezza di questo paese. La gravità degli attentati aveva o avrebbe dovuto perciò far salire al massimo il livello di allarme, almeno fino alla cattura dei responsabili ancora in vita.

Questi ultimi, invece, non solo sono rimasti pressoché indisturbati probabilmente in Belgio per più di quattro mesi, ma si sono sentiti talmente al sicuro da organizzare una nuova strage di massa in una città dove i controlli avrebbero dovuto essere eccezionali.

Ancora, la cattura di Salah avrebbe dovuto fare innalzare ulteriormente il livello di guardia, come avevano suggerito le stesse dichiarazioni delle autorità circa il pericolo di attentati nei giorni successivi. Ciononostante, un gruppo di super ricercati è riuscito a colpire in maniera multipla proprio in luoghi dove la sorveglianza è solitamente maggiore, come un aeroporto e la rete metropolitana.

Le circostanze insolite sono state poi numerose riguardo sia la ricostruzione  dei fatti di martedì sia le fasi iniziali dell’indagine. Con un’altra analogia agli attentati di Parigi, ad esempio, le forze di polizia belghe avrebbero rinvenuto un computer portatile in un cestino della spazzatura nel quartiere Schaerbeek contenente il “testamento” di Ibrahim El Bakraoui.

Nello stesso quartiere di Bruxelles, gli investigatori hanno inoltre trovato in un appartamento del materiale esplosivo e un’immancabile bandiera dello Stato Islamico (ISIS). Questi ritrovamenti lasciano com’è ovvio molti dubbi sul comportamento dei terroristi, in grado da un lato di portare a termine operazioni sofisticate nonostante la sorveglianza di forze di sicurezza dotate di poteri enormi e, dall’altro, talmente sprovveduti da lasciare maldestramente indizi e tracce della loro presenza.

Anche dando per certo che le falle nei sistemi di sicurezza resi evidenti dagli attentati in Belgio, così come almeno parzialmente in quelli dei mesi scorsi in altri paesi, siano da attribuire esclusivamente all’incompetenza delle forze di polizia e dei servizi segreti, a livello generale è inevitabile constatare come questi fatti di sangue alimentino un clima di paura e isteria di cui è fin troppo facile individuarne i beneficiari.

Le stragi deliberate che fanno vittime innocenti hanno una natura profondamente reazionaria proprio perché finiscono col confondere e disorientare l’opinione pubblica, permettendo ai governi dei paesi colpiti di giustificare interventi legislativi che comprimono i diritti democratici e di intensificare l’impegno militare all’estero per difendere o promuovere i propri interessi strategici.

A riprova di ciò, già nelle ore successive agli attentati, politici, capi di stato e di governo in Europa e dall’altra parte dell’Atlantico hanno minacciato misure e interventi più duri per combattere la minaccia terroristica. Le iniziative promesse, va ricordato, dovrebbero così aggiungersi a quelle messe in atto in oltre un decennio di “guerra al terrore” e che hanno eroso drammaticamente diritti democratici e la privacy di tutti i cittadini in Occidente e non solo.

Per quanto odiosa e condannabile, la violenza a cui l’Europa ha nuovamente assistito con la strage di Bruxelles non nasce però dal nulla né, tantomeno, da un presunto odio senza fondamento di una minoranza di fondamentalisti islamici per la libertà o la civiltà occidentale, peraltro intaccata da un processo di grave deterioramento per ben precise ragioni di natura economica e sociale.

Al contrario, il terrore di matrice jihadista è indissolubilmente legato alle manovre e agli interventi militari nel mondo arabo promossi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, responsabili della destabilizzazione se non la completa distruzione di interi paesi. L’invasione illegale dell’Iraq del 2003, l’intervento “umanitario” in Libia del 2011 e, ancor più, la guerra scatenata in Siria per il rovesciamento del regime di Assad sono gli esempi più macroscopici di queste politiche dissennate condotte da Washington, Parigi e Londra.

Utilizzando un modello inaugurato oltre tre decenni fa in Afghanistan, gli USA e il loro alleati hanno favorito e apertamente appoggiato l’attività di gruppi fondamentalisti per fare il lavoro sporco contro regimi sgraditi. L’ISIS, assieme ad altre milizie integraliste violente, è la diretta emanazione di queste politiche, tanto che nei primi anni di guerra in Siria le formazioni jihadiste furono responsabili di attentati sanguinosi a Damasco e altrove con le stesse modalità osservate a Parigi o a Bruxelles, spesso senza suscitare nemmeno la condanna formale dei governi occidentali.

La stessa guerra avviata dall’amministrazione Obama contro l’ISIS in Iraq e in Siria è apparsa ben presto come una farsa, vista l’inefficacia di mesi di bombardamenti laddove l’intervento della Russia in tempi relativamente brevi ha ridotto considerevolmente le capacità dei gruppi più estremi.

Una reale strategia di contrasto al terrorismo dovrebbe perciò scaturire, ancor prima che dal rafforzamento dei controlli e dei poteri delle forze di sicurezza o dal coordinamento di queste ultime a livello europeo, da una profonda auto-critica da parte dei governi occidentali.

Una simile prospettiva è però virtualmente impossibile all’interno del quadro politico attuale, sia perché significherebbe ammettere l’utilizzo e la collaborazione di questi governi con la stessa galassia fondamentalista che oggi colpisce nel cuore dell’Europa, sia perché la stampa ufficiale è essa stessa responsabile in larga misura della promozione delle guerre e degli interventi “umanitari” che hanno alimentato il mostro jihadista.

Se, dunque, pur essendo quella del terrorismo islamista una minaccia concreta per l’Europa, che richiede iniziative di contrasto ferme, seppure nel rispetto dei diritti democratici universali, qualsiasi strategia che escluda l’assunzione di responsabilità nella creazione del clima tossico attuale da parte dell’Occidente è destinata non solo a fallire ma, ancora peggio, ad aggravare la minaccia stessa e a compromettere ulteriormente quel modello di società che tutti i governi assicurano di voler difendere dalla “barbarie” fondamentalista.

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