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linterferenza

Bosnia: una verità parziale e ambigua

Riccardo Achilli 

Con la condanna per genocidio di Karadzic si chiude, in un certo senso, il ciclo giudiziario che ha interpretato sotto il profilo storico i fatti della guerra in Bosnia. Con una verità che è parziale. La verità è che le forze serbo bosniache entrarono in una città dichiarata zona smilitarizzata e protetta da forze ONU olandesi, separarono dal resto della popolazione tutti gli uomini fra i 14 ed i 78 anni, e li passarono per le armi. Mentre crimini collaterali, in particolare stupri e rapine, furono commessi dai paramilitari di Arkan, non di rado avanzi di galera scarcerati e spediti in Bosnia.

E la verità è che tale orrore, deciso dai vertici politici e militari della Repubblica Srpska, non fu impedito o sanzionato dal Governo di Belgrado, che d’altra parte armava e finanziava le forze serbo-bosniache (anche trasferendovi reparti speciali della Jna) e dalla Chiesa serbo ortodossa, che peraltro aveva premiato Karadzic come “difensore” della causa cristiana. Il resto è discutibile e parziale. E’ discutibile anche l’accusa di genocidio. Se si vuole sterminare una intera popolazione, perché uccidere solo gli uomini in età da combattimento, e non le donne ed i bambini?

Ed è parziale. E’ parziale in primo luogo la ricostruzione storica dell’esplosione della Jugoslavia. I nazionalismi che presero il proscenio della politica jugoslava negli anni Ottanta furono la conseguenza di tanti fattori che crebbero nel declino economico, sociale e ideale del Paese. Fattori cui non furono estranee le cancellerie occidentali, ansiose di scardinare il comunismo iniziando dal ventre molle jugoslavo, e, nel caso franco-tedesco, di impadronirsi di aree di influenza economica nelle Repubbliche e Province autonome “ricche” e con tradizione industriale (Slovenia, Croazia, Vojvodina). Cui non fu estranea la politica anti-serba con la quale Tito, di origini croate, cercò di depotenziare la Serbia, di cui temeva il nazionalismo cetnico, impedendo il rientro in patria dei serbi kosovari fuggiti durante la guerra (al fine di mantenere i serbi in posizione di grande minoranza in quella che da sempre considerano la loro terra santa, perché luogo di nascita della loro ortodossia) e disegnando le frontiere croate e bosniache in modo da escludere dalla Repubblica Serba rilevanti comunità di serbi etnici. Il famoso Memorandum dell’Accademia delle Scienze del 1986, vera pietra miliare di ciò che avvenne dopo, per chi si sia preso la pena di leggerlo, appare come una disperata richiesta di protezione per le minoranze serbe, specie kosovare, ritrovatesi fuori dal perimetro della Repubblica serba, alla mercè di maggioranze etniche ostili. Il cuore del nazionalismo serbo, del motivo per cui personaggi oggettivamente criminali come Karadzic e Mladic vengono considerati eroi da molti serbi, è questa sindrome da accerchiamento, una reazione difensiva prima che aggressiva.

La stessa indipendenza bosniaca è macchiata da gravi irregolarità e prevaricazioni. La dichiarazione del Parlamento bosniaco del 1992 era incostituzionale, perché presa senza la necessaria maggioranza dei due terzi, e fatta escludendo i deputati di etnia serba. Il successivo referendum fu tenuto esclusivamente fra le comunità bosgnacche e croate, decidendo però anche del destino dei serbi bosniaci, cui fu proibita l’opzione di riunificarsi con la Serbia. Alija Izetbegovic, presidente bosniaco musulmano, un islamista di lungo periodo, avanzo di galera delle carceri titine, che aveva proclamato la superiorità dell’Islam e la necessità di trasformare la Bosnia in uno Stato confessionale basato sulla sharia (in dispregio rispetto alle fedi dei croati e dei serbi bosniaci, cattolici ed ortodossi) tradì la parola data con la sottoscrizione del patto di Lisbona, che prevedeva una Bosnia indipendente sotto la forma di Stato confederale diviso in tre cantoni etnici. Incoraggiato dagli USA (nella persona dell’ambasciatore Warren Zimmermann) si dichiarò infatti contrario ad ogni partizione della Bosnia, ed avviò il processo referendario per arrivare ad una Bosnia dominata dai musulmani, che però rappresentavano solo il 44% della sua popolazione. Un chiaro messaggio lanciato alle altre due etnie: sottomettetevi a noi. Un messaggio appoggiato dagli USA, essenzialmente per due motivi: rinsaldare l’amicizia con l’Arabia Saudita, molto impegnata per una Bosnia indipendente e a regia musulmana, ed aprire un secondo fronte di guerra contro la Serbia, già impegnata nel conflitto con la Croazia, per aiutare l’amico croato Tudjman, bieco nazionalista di simpatie ustascià e criminale di guerra che ha ripulito etnicamente la Krajina e la Slavonia ai danni delle comunità serbe ivi insediate da molti secoli, ma garante degli interessi economici occidentali nei Balcani. Haris Silaijdzic, Ministro degli Esteri e poi Primo Ministro sotto la presidenza di Izetbegovic, arrivò a dichiarare, ancor più esplicitamente, che un eventuale cantone di serbi bosniaci non avrebbe mai dovuto essere costituito.

Come avrebbero dovuto prendere tali segnali i serbi residenti in Bosnia? Come li avreste presi voi, al posto loro? Ovviamente, li interpretarono nel modo più evidente: come minacce alla loro integrità etnica e culturale ed alla loro stessa esistenza. E il primo motivo per il quale una popolazione, che aveva a lungo convissuto pacificamente in un territorio multietnico, prese le armi, fu quello dell’autodifesa. Certamente mettendosi nelle mani sbagliate: affidandosi a mediocri ladruncoli ed opportunisti (Karadzic e Kraisnik) o a folli violenti o razzisti (Mladic e la Plavsic). Ma d’altra parte, questi erano i dirigenti che Belgrado sosteneva, in cambio dell’aiuto militare, finanziario e politico necessario. Ed erano i dirigenti a disposizione, anche in base al gradimento della popolazione ed alle condizioni politiche in cui si trovava, in quegli anni, la stessa Belgrado.

Lo stesso massacro di Srebrenica è pieno di verità parziali, ed è lo specchio di quanto sia ambigua la storia della ex Jugoslavia, al di là delle verità ufficiali sui serbi cattivi veicolate dagli USA e dai loro alleati. Oltre alla già rammentata ambiguità dell’accusa di genocidio, vi è il fatto che la strage fu la ritorsione per gli attacchi reiterati che l’esercito bosgnacco, al comando di Naser Oric (altro macellaio, che però guarda caso è uscito assolto dal processo al Tribunale dell’Aja) condusse, nei mesi precedenti, contro i villaggi serbi delle vicinanze, in particolare contro il villaggio di Kravica, attaccato proprio nella notte del natale ortodosso, il 7 gennaio. Attacchi che costarono la vita a centinaia di civili serbi, per i quali nessuno ha pagato. La strage fu anche legata al fatto che, contrariamente agli accordi presi, l’ONU consentì alle forze sotto il comando di Oric di mantenere depositi di armi nell’area smilitarizzata di Srebrenica, trasformando quindi i civili che vi risiedevano in scudi umani a protezione delle armi. E nessuno ha mai spiegato l’incredibile e vergognosa passività con la quale i caschi blu olandesi lasciarono che la Vrs, l’armata serbo-bosniaca, entrasse in città e perpetrasse la strage. Addirittura collaborando con i militari erbi nel separare gli uomini che da lì a poco sarebbero stati uccisi. O il ripetuto diniego ad autorizzare attacchi aerei contro i serbo-bosniaci in azione, con gli F-16 statunitensi che, in volo nei pressi della città, vennero rimandati alla base. Anziché subire la corte marziale per viltà e collaborazionismo, i caschi blu olandesi vennero insigniti di una medaglia al valore da parte del loro Governo. Il sospetto che la strage facesse molto, molto comodo, per poi giustificare un intervento militare su larga scala contro la Serbia, è più che legittimo.

Ma nessuno scriverà la vera storia. Milosevic è morto, presumibilmente avvelenato in una condizione carceraria che avrebbe dovuto essere di massima vigilanza. Karadzic, Mladic e gli altri, riconosciuti come autori della strage di Srebrenica, non hanno il quadro né la motivazione per fornire una versione alternativa. E anche se potessero fornirla, sarebbero silenziati, esattamente come Milosevic. E oggi non sono più coperti nemmeno dalla Serbia (e dai suoi servizi segreti, comunque ampiamente epurati dopo la fine di Milosevic), che per evidenti motivi politici li ha scaricati. Rimane la verità più semplice, la più comoda, la più deresponsabilizzante. Quella che buca lo schermo: un popolo di cattivi che ha cercato di distruggere altri popoli innocenti.

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