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Costituzione Italiana o Trattati UE? La scelta di Vladimiro Giacché

Piotr Zygulski

Nella Costituzione della Repubblica Italiana ci sarebbe un articolo incostituzionale. Si tratta del “nuovo” articolo 81 che, in seguito alla riforma del 2012, ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio, vincolo imposto dagli impegni firmati in sede europea. Vladimiro Giacché, economista formatosi alla Normale di Pisa e in Germania, apre il suo pamphlet Costituzione italiana contro trattati europei: Il conflitto inevitabile (Imprimatur edizioni, 2015) con una dedica al partigiano Fra’ Diavolo, nome di battaglia di Luigi Fiori, venuto a mancare nel maggio del 2015, dal quale l’anno precedente aveva ricevuto in dono una copia della Carta fondamentale della nostra Repubblica. Una copia che però era priva del nuovo articolo 81. “Non c’è, perché quell’articolo non fa parte della nostra Costituzione”, affermava il novantaquattrenne.

Da tale spunto scaturisce una riflessione sull’idea di società che informa la Costituzione italiana e quella che invece soggiace ai trattati europei, da quello di Maastricht a quello di Lisbona. Vladimiro Giacché giunge a concluderne la sostanziale incompatibilità dei principi, come già enuncia il sottotitolo del saggio. Infatti, se la Costituzione Italiana presuppone un modello di “capitalismo interventista“, in cui lo Stato si impegna a garantire ai suoi cittadini il diritto al lavoro e quello ad una remunerazione adeguata e dignitosa – rimuovendo “gli ostacoli di ordine economico e sociale”, come recita il terzo articolo – i trattati europei sono intrisi di un’impostazione liberista che tende a legare le mani agli Stati membri, ma finanche alla Banca Centrale Europea, che avrebbe solamente il compito di tenere bassa l’inflazione. La stessa scienza economica ufficiale, tuttavia, insegna che ad una bassa inflazione generalmente corrisponde un alto livello di disoccupazione (la cosiddetta “curva di Philips”), oltre a maggiori difficoltà per i debitori. Una concezione simile si era già insinuata nelle nostre istituzioni almeno a partire dal 1981, fatidica data in cui avvenne la separazione tra Tesoro e Banca d’Italia, che ha costretto l’Italia a indebitarsi solamente sui mercati finanziari, con conseguenti interessi sempre più alti; in ciò andrebbe ricercata l’esplosione del debito pubblico italiano, a detta di Giacché. Con la scusa del medesimo debito pubblico elevato, tuttavia, nell’ultimo decennio sono state introdotti provvedimenti di riduzione di spesa pubblica improntati all’austerity e lo stesso principio del pareggio di bilancio assicurato per via costituzionale, seppur con l’attenuazione che dovrebbe tenere conto delle fasi avverse del ciclo economico.

Il timore di Giacché è però che questo nuovo articolo 81 sia un grimaldello per scardinare l’intero impianto costituzionale, restringendo sempre più i margini di manovra necessari allo Stato per perseguire equità e solidarietà sociale, ad esempio con investimenti pubblici di lungo periodo e con tutte quelle misure definite keynesiane o di welfare state, che includono la spesa previdenziale e pensionistica. Riguardo quest’ultima, una norma del decreto “Salva Italia” risalente al Governo di Mario Monti ha bloccato la rivalutazione di alcune pensioni, richiamandosi all’esigenza del rispetto dell’articolo 81 e dei vincoli “esterni” europei. Ma la Corte Costituzionale lo scorso aprile ha a sua volta sancito l‘illegittimità del blocco, così come ha ritenuto incostituzionale la non rivalutazione degli stipendi dei dipendenti della pubblica amministrazione. In queste occasioni – e probabilmente in molte altre che si susseguiranno in futuro, come è accaduto ad esempio in Portogallo – emerge il conflitto cruciale: rispettare l’articolo 3 oppure l’81 della medesima Costituzione?

La risposta della Corte Costituzionale nel caso specifico ha privilegiato il terzo articolo, ma non è detto che in futuro possa confermare questo orientamento, anche perché le critiche a tale decisione non sono mancate. Più netto è l’orientamento dell’autore Vladimiro Giacché che, di concerto con altri giuristi italiani del calibro di Luciano Barra Caracciolo – cui questo pamphlet è debitore – non ha dubbi: i primi 12 articoli della Carta fondamentale sono talmente strutturanti per la nostra Repubblica che non potrebbero essere sottoposti neppure a modifica (stando alla Sentenza n. 1146 del 1988), pertanto nessuna aggiunta posticcia deve poterli scavalcare. Ma il rischio c’è, e il saggio dell’economista ha il merito di evidenziare i punti in cui potrebbero aprirsi ulteriori conflitti. I quali, in fondo, sono conflitti tra due idee di società incompatibili tra loro.

L’autore del libro, con questo intervento sintetico e accessibile a molti grazie alla sua agilità divulgativa, ha il merito di aver esposto le motivazioni della propria scelta di campo a favore della Costituzione Italiana, e quindi contro il “vincolo esterno” proveniente dai Trattati Europei. Ciò non vieta che qualcun altro, animato da diverse prospettive ideali, possa preferire lo schieramento opposto, ma a patto di dichiararlo, anziché nascondersi dietro all’ipocrisia di chi affianca il tricolore al vessillo di eurolandia, ossia di ciò che ci resta del “sogno europeo”, al quale lo stesso Giacché – non si vergogna ad ammetterlo – aveva inizialmente creduto.

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