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lavoro culturale

Verso una possibile decolonizzazione dell’immaginario

Un incontro con Serge Latouche

di Paolo Lago

Stiamo così andando verso una società totalitaria
della penuria che resta anche una società del
consumo, ma dove non si potrà più consumare.
Serge Latouche, Uscire dall’economia

Lo scorso 13 marzo si è svolto a Livorno, nell’accogliente sala del teatro del Centro Artistico “Il Grattacielo”, un incontro con Serge Latouche, realizzato in seno ai corsi organizzati dalla Libera Università “Alfredo Bicchierini”, un’associazione culturale molto attiva sul territorio labronico e sempre attenta alle tematiche sociali

Come spiega Massimo Maggini, che introduce Latouche e coordina l’incontro, il seminario del filosofo francese è stato pensato all’interno di un percorso per cercare di capire, da un punto di vista socio-politico, i tratti distintivi della nostra epoca. Maggini – che ha curato quella che, attualmente, è la più recente delle pubblicazioni di Latouche tradotte in italiano, Uscire dall’economia (che vede lo studioso in un faccia a faccia con Anselm Jappe) – spiega che l’attuale crisi è di natura ambientale, economica e sociale e la decrescita, di cui Latouche è il “padre putativo”, sicuramente, può essere un valido aiuto per uscirne.

La ricerca della crescita infinita, infatti, è un meccanismo che porta il mondo verso una «produttività allucinante», la quale crea un contesto critico in cui la stessa produttività, che deve essere continuamente valorizzata attraverso la macina del lavoro, non riesce a trovare sbocchi di mercato, dando così origine ad un ingorgo di merci e capitali superflui che è all’origine della crisi nella quale ci troviamo.

La decrescita è un tentativo di prospettare un’analisi della società della crescita (alias del capitale) che ne metta in luce le pesanti distonie e inviti a meditare sul suo superamento e sulle modalità per farlo, in funzione di una società libera e felice.

Serge Latouche, che sale sul palco indossando un berretto e una sciarpa su un maglione e giacca scuri che lo fanno assomigliare, con la sua barba bianca, a un capitano di mare della Bretagna (e, davvero, siamo tutti seduti in un teatro-nave nell’attesa che ci porti con sé in un avventuroso viaggio per mare), inizia la sua “navigazione” di parole spiegando come ha cominciato ad occuparsi di decrescita.

Dopo un iniziale viaggio in Africa come esperto dello sviluppo con una pianificazione di tipo marxista, sarà un successivo viaggio nel Laos nel 1966 che rappresenta una svolta determinante, durante il quale ha avuto una sua “visione di Damasco”:

Il Laos, allora non era né un paese sottosviluppato né sviluppato perché non c’erano macchine o segni della modernità. Mi è venuta una illuminazione: io, col mio piano di sviluppo, andavo là per distruggere i sogni di questa popolazione che viveva bene così come stava, che non voleva indirizzarsi verso la tecnologia. Anche altri autori e studiosi hanno avuto questo tipo di ispirazione: penso, ad esempio, a Tiziano Terzani quando afferma che il Nepal è stato completamente distrutto dal turismo.

Da questo momento, perciò, nasce l’idea di fare la critica allo sviluppo e Latouche trova nel pensiero e nelle opere di Ivan Illich (soprattutto nel concetto di «convivialità») una vera e propria guida. La critica della crescita si ripropone rinnovandosi un po’ in tutte le sue opere (citando Paul Valery, dice che ogni autore scrive sempre la stessa opera), da L’Occidentalizzazione del mondo (1989) e Il pianeta dei naufraghi (1991) fino a L’altra Africa. Tra dono e mercato (1998), in cui l’autore pone al centro della sua analisi il territorio dell’Africa sub sahariana che vive fuori dall’economia e dallo sviluppo: come è possibile vivere con un PIL uguale a zero? L’economia informale, in questo caso, funziona con la solidarietà.

In Occidente – continua Latouche – dopo la caduta del Muro di Berlino non c’è più un secondo e neppure un terzo mondo: è l’epoca della globalizzazione. Non esiste più un’alternativa di sinistra: ci sono due destre e una si chiama sinistra, come nota anche Marco Revelli. Questo processo si verifica quasi in ogni paese europeo: “sinistra” diventa un altro nome della destra (e a quest’affermazione il teatro scoppia in un applauso). Addirittura, in Occidente, si è inventato il termine ossimorico “sviluppo sostenibile”, creato dai peggiori inquinatori e devastatori dell’ambiente.

Non c’è da stupirsi, dice Latouche, perché all’interno della società dello spettacolo vi è solo una battaglia di vuote parole, svuotate di senso e di significato; viviamo in un tempo, d’altronde, in cui quasi si realizza la neolingua preconizzata in forma distopica da George Orwell in 1984: che differenza c’è tra l’affermazione del “Grande Fratello” orwelliano “la guerra è pace” e termini come “guerra giusta” o “guerra pulita”?

Se la nostra società è una società dell’economia e il nostro immaginario, ormai, non è più determinato dalla religione ma dalla stessa economia, mentre le banche si sono sostituite alle chiese nel ruolo dominante all’interno del territorio urbano, oggi più che mai dobbiamo diventare «atei della crescita», «agnostici dello sviluppo».

È di estrema importanza, perciò, decolonizzare il nostro immaginario dall’economia e immaginare un altro mondo, un’altra civiltà dove si può vivere bene con poco senza distruggere il pianeta. Viviamo infatti in una società dello spreco, non certo dell’abbondanza, una società in cui bisogna sempre rinnovare un desiderio di cose nuove, come l’ultimo modello di smartphone o di tablet. Questo è il risultato della colonizzazione dell’immaginario da parte della pubblicità, alfiere del «Grande Fratello» dell’economia.

Come si può, quindi, decolonizzare l’immaginario dalle reti in cui esso è rimasto impigliato? Tutto sta, intanto, a dedicare più tempo all’immaginario stesso: l’antropologo Marshall Sahlins, ad esempio, afferma che l’unica società che può essere definita «di abbondanza» è quella del paleolitico, perché in essa l’uomo aveva pochi bisogni. Poco tempo veniva dedicato ad attività come la caccia e la pesca e molto all’immaginario. Nella nostra società “colonizzata”, invece, siamo dominati dall’idolo del lavoro, secondo lo slogan “lavorare di più per guadagnare di più”. Per dedicarci di più alla “vita contemplativa” e rivestire di nuovo significato ed importanza “conviviale” la sfera dell’immaginario, occorre ridurre drasticamente il tempo dedicato al lavoro, come già aveva mostrato Paul Lafargue nel suo arguto pamphlet Il diritto alla Pigrizia (1881).

È necessario, quindi, riscoprire il valore dell’«abbondanza frugale» che, in questo caso, non è certo un ossimoro: l’abbondanza vera si ha quando possiamo limitare i nostri bisogni. La necessità di porsi dei limiti, del resto, la ritroviamo un po’ in tutte le saggezze: dalla filosofia greca fino al taoismo e al buddismo zen e al buen vivir dei popoli amerindi. La crescita è una piccola parentesi nella storia del pensiero umano.

È estremamente importante uscire da questa dismisura che i Greci chiamavano hybris, cioè una «tracotanza» capace di distruggere lo stesso ethos greco (ovvero la percezione del far parte di una comunità che non ha mai dubitato dei propri fondamenti e valori): nessun rappresentante politico o economico, d’altronde, vuol sentire questo discorso perché esso mette in discussione l’attuale stato di cose. La parola decrescita, perciò, ha un forte valore provocatorio, diventa uno slogan (come Latouche afferma in Uscire dall’economia) «che serve a spezzare il gergo, il rumore dominante dell’ideologia economicista, che è l’ideologia della necessità della crescita».

Nel dibattito che segue l’incontro, infine, mi è sembrata particolarmente interessante una domanda che pone l’attenzione su come si può attuare una politica di decrescita a livello locale. Come si possono affrontare i problemi del futuro come la fine del combustibile o delle risorse? Parole-chiave, dice Latouche, sono «autonomia energetica» e «resilienza»: occorre sviluppare a livello locale le resilienze, cioè le capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici. Non meno importante è l’idea della pedagogia delle catastrofi: una crisi può essere un’opportunità per riacquistare potere.

Ormai è tardi, si conclude il dibattito e Latouche appare visibilmente stanco. Se, come afferma Michel Foucault in una conferenza tunisina del 1967, la nave è «l’eterotopia per eccellenza» e che «nelle civiltà senza navi i sogni si inaridiscono», tanto più dovremmo essere grati a capitan Latouche per averci portati con sé per oltre due ore, in un teatro-nave, nel suo avventuroso viaggio per mare con la prua rivolta verso il tentativo di una possibile decolonizzazione del nostro immaginario. Che non è una terra lontana, fantastica o utopica, ma raggiungibile in qualsiasi momento, se solo lo vogliamo e ne accettiamo lo sforzo.

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