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manifesto

Theodor Adorno oltre i limiti della Ragione

Stefano Petrucciani

A cinquant’anni dall’uscita la «Dialettica negativa» di Theodor Adorno può fornire elementi per lo sviluppo di un pensiero critico che eviti le sabbie mobili di un generico decostruttivismo e le insidie del materialismo naturalistico

Ci sono ancora dei buoni motivi per leggere oggi, a cinquant’anni dalla sua pubblicazione nel 1966, la Dialettica Negativa di Theodor W. Adorno? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzitutto capire che tipo di opera filosofica sia quella Dialettica che il filosofo francofortese compose negli ultimi anni della sua vita (nato nel 1903, sarebbe infatti scomparso, per un infarto, nell’estate del 1969). Con la Dialettica negativa Adorno, che comincia a lavorarci all’inizio degli anni Sessanta, si autoimpone una sfida molto difficile: quella di dare finalmente una forma compiuta al suo proprio punto di vista filosofico, che fino ad allora non era mai stato espresso in modo pieno ed esauriente. Sebbene fosse uno scrittore assai prolifico, infatti, Adorno non aveva mai dato alla sua propria teoria «speculativa» una forma compiuta: aveva scritto moltissimo di musica e di critica sociale, aveva pubblicato con Max Horkheimer (nel lontano 1947) quel grande libro del Novecento che è Dialettica dell’illuminismo, ma sul piano squisitamente teoretico non era mai arrivato a un approdo definitivo.

Certo, aveva detto molte cose importanti nel suo libro su Husserl (Metacritica della gnoseologia), che era uscito nel 1956 dopo una elaborazione trentennale, ma non aveva mai svolto la sua filosofia in prima persona.

Adorno perciò vedeva la Dialettica come la sua summa filosofica (che scherzosamente chiamava la sua «bambina grassa») insieme alla Teoria estetica che non sarebbe riuscito a finire e che sarebbe apparsa solo dopo la sua morte. La vedeva come il libro che non poteva fare a meno di scrivere, ma che lo metteva di fronte a grosse difficoltà e a uno sforzo assai impegnativo. In una lettera del 1965 confidava a Herbert Marcuse che ciò che scriveva oggi finiva spesso per disfarlo domani, e che la composizione della Dialettica produceva talvolta su di lui un vero effetto di prostrazione. Nel libro questa fatica si vede: c’è la forte volontà di definire il proprio lascito filosofico, ma l’impresa non riesce sempre in modo perfettamente rotondo. Anche perché nella Dialettica traspare un’altra grande e difficile ambizione adorniana: cioè quella di trasformare non solo la filosofia, ma anche la lingua attraverso cui il pensiero si esprime. Partendo dalla convinzione che il modo in cui un pensiero viene espresso non è meno importante, né separato, dal suo contenuto. E cercando quindi un tipo di esposizione filosofica che abbia un tasso di innovazione non diverso da quello che aveva caratterizzato le grandi esperienze dell’avanguardia artistica del Novecento, che per Adorno restano sempre fondamentali (dal romanzo di Kafka alla musica atonale di Schoenberg, per citare solo due esempi emblematici).

 

Le parole del pensiero

Dialettica negativa è dunque un’impresa filosofica molto complicata. È importante, però, perché riesce a stare dentro la grande temperie filosofica del Novecento, affrontandola da un punto di vista fortemente personale. Sappiamo bene che tra gli obiettivi della Dialettica negativa c’era quello di «distruggere Heidegger», che nella prima parte del testo viene attaccato in modo frontale. Sappiamo anche che questa distruzione non ha avuto successo, almeno a giudicare dalla fama e dal credito di cui la filosofia heideggeriana tutt’ora gode. Ma il punto che non si può non vedere, al di là di questa polemica, è che Adorno, Heidegger e Wittgenstein prendono in qualche modo di mira un medesimo problema: lo sforzo di misurarsi, dopo Nietzsche e dopo il crollo dei sistemi metafisici, con i limiti del pensiero, con ciò che esso non riesce ad afferrare. Heidegger pensa questi limiti come la inoggettivabilità e abissalità dell’Essere. Wittgenstein si scontra continuamente con il problema dei limiti del linguaggio. In Adorno questa problematica si raccoglie sotto uno dei concetti più difficili e ricorrenti di Dialettica negativa, quello del Non-identico.

La «colpa» del pensiero filosofico tradizionale, e dell’idealismo che ne rappresenta la linea egemone, è quella di avere spacciato come realtà quel mondo che noi strutturiamo e organizziamo ai fini del dominio su di esso – un dominio che in ultima istanza è sempre solidale con il dominio dell’uomo sull’uomo che si perpetua nella società. Per uscire dal cerchio magico il pensiero deve prendere atto delle sue compromissioni col potere sociale; deve rinunciare alla sua sovranità e acquisire la coscienza dei propri limiti e del carattere paradossale della sua impresa: cercare di decifrare con concetti la realtà non concettuale (il Non-identico, appunto) senza che questa decifrazione la snaturi, la riduca a semplice specchio del pensiero identitario che se ne appropria.

Ma la questione davvero interessante che qui si apre è se (o in che misura) la radicale autocritica del pensiero in cui la Dialettica negativa consiste possa condurre in una direzione decostruttiva, terminando quindi in sintonia con le tanti voci del differenzialismo postmoderno. In questo modo Adorno è stato letto, per esempio, da Jürgen Habermas, secondo il quale l’autocritica della ragione in quanto compromessa col dominio non poteva dar luogo ad altro che ad esiti autodistruttivi.

 

Un rigore critico

In realtà però, dall’opera adorniana, con tutta la sua complessità e il suo carattere non risolto, non si possono trarre esiti come quelli che Habermas denuncia. Ciò che distingue radicalmente il pensiero dialettico di Adorno dal successivo pensiero decostruttivo o differenzialista è il fatto che per il maestro francofortese il ragionamento teorico resta ancorato ad un suo rigore che non può mai venire meno: la critica della ragione è operata dalla ragione stessa, con ragionamenti stringenti che non aprono il varco ad una prospettivistica pluralità delle interpretazioni.

A conferma di ciò si può ricordare che, pur nella sua problematicità, la Dialettica negativa difende e articola un ben preciso orizzonte teorico, che Adorno si ostina a definire «materialistico»; il che la rende incompatibile con ogni tipo di decostruttivismo. Ma il materialismo pensato da Adorno (che lui definisce «primato dell’oggetto») è molto più sofisticato di quello appartenente alla tradizione marxista.

Adorno infatti riconosce perfettamente, con tutte le epistemologie postkantiane o costruttivistiche, che non vi è nessun accesso diretto alla realtà, che essa è strutturata e organizzata secondo prestazioni mentali o schemi categoriali. Non c’è alcuna oggettività che non sia mediata dal soggetto, che non sia una interpretazione. Ma da questo non si può trarre la conseguenza che la realtà sia solo una nostra interpretazione.

 

Il primato dell’oggetto

Bisogna guardare infatti anche l’altro lato, quello su cui ha insistito il materialismo: il soggetto che interpreta il mondo è, a sua volta, un elemento del mondo oggettivo; è producente, ma è anche il prodotto dei processi naturali e storico-sociali attraverso i quali si è costituito. L’uomo crea il suo mondo, ma il mondo crea l’uomo, e il pensiero, e il soggetto interpretante. L’idealismo rimanda al materialismo e viceversa.

In questa dinamica apparentemente circolare soggetto e oggetto non pesano allo stesso modo. Al lato del materialismo appartiene, secondo Adorno, un peso maggiore, un «primato», per una ragione molto semplice: «L’oggetto può essere pensato solo dal soggetto, ma rimane sempre, nei suoi confronti, un Altro; il soggetto è invece sin dall’inizio anche oggetto in base alla sua costituzione. Il soggetto non è pensabile senza l’oggetto nemmeno idealmente; l’oggetto senza il soggetto invece sì». Uno degli elementi di attualità di Adorno potrebbe essere proprio quello per cui egli, con la sua dialettica, cerca una sensata «terza via» tra le posizioni che oggi si contendono il campo: da un lato quelli per cui «non esistono fatti, ma solo interpretazioni», dall’altro i fautori di un materialismo «naturalistico» che oggi sta tornando di moda.

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