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manifesto

La memoria di Gramsci può andare in naftalina

Leonardo Paggi

La sinistra italiana non può nascere senza un bilancio sul Pci, un morto che divora il vivo. Il Pci non finisce affatto nel 1989 ma persiste fino a oggi nei gruppi dirigenti, portando al logoramento del socialismo europeo e trascinando nei suoi miasmi tutta la politica italiana

Leggo sul manifesto del 22 aprile che i deputati Michele Piras e Carlo Galli di Sinistra Italiana vedono nella promozione renziana della casa di Ghilarza a monumento nazionale «un atto dall’importante significato simbolico che riconosce la grande valenza storica del pensiero e dell’azione politica» di Antonio Gramsci.

Per l’amico Guido Liguori, che scrive nella stessa pagina sullo stesso tema, si tratta più modestamente di una «medaglia» – ma «anche le medaglie servono», aggiunge, confortato in questo parere da tutta la rete della International Gramsci Society, di cui è presidente.

Ma siamo veramente sicuri che tutto fa brodo? Che a caval donato non si guarda in bocca?

In primo luogo, questo parlamento dichiarato illegale dalla Consulta per il modo in cui è stato eletto, che quotidianamente viola la più elementare legge liberaldemocratica della distinzione tra maggioranza e opposizione, sottoscrivendo a cascata patti sempre più oscuri e inquietanti, non ha veramente nessun titolo per togliere e tanto meno aggiungere qualcosa alla presenza e alla reputazione di Gramsci in Italia e nel mondo.

In secondo luogo non ha senso esprimersi sul significato di quel voto senza ricollocarlo nel contesto dell’azione di governo che quel parlamento sostiene da due anni.

Il governo Renzi si caratterizza oggi per il tentativo di rispondere alla crisi di governabilità che la politica di austerità sta provocando ovunque, con un’offensiva sul terreno istituzionale che non ha, allo stato attuale, equivalenti in Europa (salvo forse il caso ungherese).

Alla dissociazione tra democrazia e capitalismo ormai apertamente consumata sul terreno dei contenuti economico-sociali (rimando all’ottima letteratura socialdemocratica di C. Crouch e W. Streeck) si vuole dare un prolungamento corrispettivo e adeguato sul terreno delle forme politico-istituzionali. Questa ambizione è resa possibile da un solo fatto: il governo Renzi, a onta della sua politica, continua a valersi del consenso attivo e passivo di una parte assai significativa dell’area storica della sinistra italiana. E’ a questo dato, per inciso, che devono essere ricollegate tutte le difficoltà e le incertezze a cui sta andando incontro la stessa impostazione della campagna referendaria.

Il Pci non «muore» affatto nel 1989, come alcuni nostalgici, tuttora tormentati nell’elaborazione del lutto, continuano a pensare, ma persiste fino a oggi nella continuità dei suoi gruppi dirigenti e dei suoi insediamenti territoriali, vivendo fino in fondo il logoramento intellettuale e politico che investe il socialismo europeo e trascinando nei suoi miasmi cadaverici la situazione politica italiana.

Un pezzo rilevante di quel partito lavora oggi alacremente a sostegno dell’attuale corso politico.

Mi stupisce sempre il compagno Poletti, segretario, alle origini, della federazione comunista di Imola, oggi ministro del Lavoro che si fa puntualmente smentire dai bollettini Istat nell’entusiasmo di annunciare dati truccati sull’occupazione. Ma c’è anche un’attiva adesione intellettuale, dai fondatori dell’operaismo che si fanno presentare i libri da Maria Elena Boschi (lo apprendo dal Corriere della sera) agli editori degli scritti di Gramsci che invocano la teoria del moderno principe per legittimare Verdini.

E’ precisamente da quest’area, non dalla mente di Luca Lotti, il sottosegretario alla presidenza del consiglio, che nasce l’idea di «monumentalizzare» (come hanno fatto i tedeschi per chiudere con i loro trascorsi nazisti) la memoria di Gramsci.

Non si tratta di un trucco, di un espediente, ma della vischiosità di una sorta di coscienza infelice (in sedicesimo, dirà qualcuno) che vuole a ogni modo conciliare le identità del passato con le miserie di una politica del presente, per cui non sa o non vuole pensare alternative. Giorgio Napolitano cominciò alla fine degli anni Settanta la sua lunga carriera di «riformista» legittimando il contenimento della dinamica salariale richiesto dalla Confindustria di Carli con l’affermazione di Gramsci che quando la classe operaia ha conquistato lo stato può e anzi deve fare sacrifici di ordine economico per programmare il proprio sviluppo egemonico. Nessuno contestò, né allora né dopo, questo falso in atto pubblico, che apriva la strada a un pasticcio intellettuale e politico non ancora sciolto.

Voglio dire che l’ostacolo maggiore che si para oggi dinanzi alla ricostituzione di una sinistra italiana/europea sta proprio in questo mancato bilancio storico di quello che il Pci ha dato in positivo e in negativo alla storia tormentata della nostra democrazia repubblicana.

Solo dopo questo bilancio difficile (ma c’è ancora chi pensa di ripartire con Berlinguer) che sappia cogliere tutti i nessi tra l’esperienza nazionale e quello che si consumava contemporaneamente sul campo internazionale, sarà possibile voltare veramente pagina e avventurarci nel cuore delle sfide dell’oggi.

C’è il bisogno di una rottura drastica con questo morto che continua a mangiare il vivo. Il prezzo obbligato è quello di un grande balzo culturale di cui purtroppo non si vede ancora cenno nel dibattito in corso.

Il riflusso neoliberista del socialismo europeo ha nella storia del ‘900 il grande precedente dell’agosto 1914. Anche allora il socialismo europeo imboccò volontariamente la strada del suicidio: votando i crediti di guerra si confuse in un abbraccio mortale con il più feroce nazionalismo. Incapace di governare la crisi postbellica che pure lo favoriva, aprì inevitabilmente la strada alla vittoria del fascismo. Il comunismo di Lenin risolse il problema della rottura con il passato con la scomunica ideologica, ossia dando a Kautsky la qualifica di «rinnegato». Una scorciatoia foriera di interminabili regressioni teoriche e politiche.

La strada di Gramsci, che i suoi presunti eredi postcomunisti hanno confinato nel limbo dei «classici» validi per ogni (e quindi nessuno) tempo e luogo, è tutta diversa e incide acutamente nella nostra coscienza della crisi. Non esiste per definizione un’ortodossia culturale e politica valida in sé e per sé, per la semplice ragione che la storia del lavoro è una funzione subalterna della storia del capitale.

La possibilità di sopravvivere ai tornanti delle crisi, che però scandiscono anche le tappe della innovazione, sta solo nella capacità di ritradurre il proprio patrimonio di coscienza e di vita nei nuovi contesti creati dallo sviluppo capitalistico. In questo scenario non ci sono rinnegati o traditori, ma i bypassati dalla storia.

Tradurre è operazione estremamente creativa, vuol dire rimettere sempre in questione le proprie acquisizioni teoriche alla luce delle insorgenze della vita, della prassi, vuol dire «inventare», in senso bergsoniano, come Gramsci tende più volte a specificare.

Forse gli amici della International Gramsci Society non dovrebbero sentirsi paghi, soddisfatti e riconosciuti dal Gramsci museale che il governo Renzi offre loro.

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