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Società sotto pressione: logica della notizia

di Marco Dotti

Quando Reginald Aubrey Fessenden si mise dinanzi a un microfono, nella stazione radio di Brand Rock, nel Massachusetts, e, violino alla mano, si abbandonò alle note di O, Holy Night, pochi si resero conto di quanto stava accadendo. Era la sera di Natale del 1906, e quella trasmessa da Fessenden fu la prima emissione radiofonica della storia. Al violino, l’intraprendente inventore, figlio di un pastore protestante, alternò la lettura di alcuni passi dal Vangelo di Luca (2,14).

Quel «gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà» inaugurò un nuovo corso nella storia della comunicazione umana. Sarebbe persino banale ricordare, come provocatoriamente fa nella prima parte del suo lavoro Christoph Türcke, in greco evanghélion significa «notizia» se non fosse per ribadire che la scelta di Fessenden non era priva di coerenza interna in ciò che Türcke chiama assioma della logica delle notizie, la cui analisi occupa i primi capitoli de La società eccitata. Filosofia della sensazione (traduzione di Tomaso Cavallo, Bollati-Boringhieri, Torino 2012). Una coerenza involontaria, o meglio inconsapevole, quella di Fessenden (fare notizia leggendo «la» notizia, il Vangelo) che rinveniamo anche nel termine inglese per notizia, «news».

Ed è su questa coerenza che insiste – tra le altre cose – Türcke. Gli eredi di Fessenden, quelli che Türcke chiama i moderni «divulgatori di notizie» sono spesso costretti a decidere nello spazio di pochi istanti su ciò che conta o non conta e sulle notizie che intendono diffondere, senza badare troppo ai criteri – spesso totalmente autoreferenziali – della loro scelta. Non hanno pertanto «molte occasioni per preoccuparsi del sostrato teologico del loro agire». A dispetto, o forse proprio in ragione di questa dimenticanza, l’esito di ogni impresa giornalistica, di ogni riunione di redazione, di ogni lavoro editoriale sembra convergere su un punto: la notizia deve imporsi. E per imporsi deve essere nuova. Se da sempre, fin dai tempi della Bibbia – che potremmo leggere come una colossale impresa giornalistica – e dell’Epopea di Gilgames, le notizie sono state «fabbricate», per esse valeva entro certi termini ciò che Adorno, tra le pagine della sua Negative Dialektik, poteva ancora chiamare «il primato dell’oggetto». Primario era l’evento ritenuto degno di essere comunicato, non il comunicare stesso. Oggi la mediazione precede l’evento, lo crea e i modernissimi «divulgatori di notizie» sembrano angeli vuoti, portatori di un messaggio zero che per essere percepito come rilevante deve essere sottoposto a un processo di eccitazione infinita e di estetizzazione spettacolare potenzialmente senza limiti.

La società della sensazione è capace di inflazionare l’istante su cui è ripiegata, proprio grazie a modelli che catturino e attraggano su di sé, quasi magneticamente, la percezione. Per continuare a sopravvivere, per non cadere nel baratro di un fallimento al cui rischio è per sua natura esposto, un’impresa la cui materia prima sia costituita da notizie da lavorare mensilmente, settimanalmente, quotidianamente e, oggi, persino istante dopo istante deve continuamente sperare che news degne di essere comunicate non manchino. L’inversione tra mezzo e fine, tra mediazione e evento, ha origine da questo paradosso, purtroppo vitale per l’impresa giornalistica: comunicare eventi rilevanti, ma in mancanza di meglio rendere rilevanti gli eventi.

Siamo allora dinanzi, scrive Türcke, all’inversione di un assioma e la logica della notizia, «nuova e rilevante», genera il suo contrario: dal «comunicare, perché una cosa è importante», al «è importante, perché è comunicato». Gonfiare le banalità, rendere isterici gli eventi, nevrotizzare i lettori, produrre continui corto-circuiti emotivi e cognitivi, ma soprattutto «semplificare realtà complesse, deviare l’attenzione pubblica da una determinata vicenda a un’altra: tutto questo inerisce alla stampa come la sudorazione alla pelle». Si può limitare la sudorazione, ci si può detergere o lavare di continuo, ma non la si può evitare. Per questa semplice ragione, prosegue l’autore, non appena ci si imbatta nell’assioma della logica dell’informazione, ci si imbatte anche nel suo contrario. Di più: «solo grazie al suo contrario, l’assioma si è conservato, rivestendosene come di una seconda pelle e confondendo l’una con l’altra al punto da renderle indistinguibili». Questo processo, certo ma in nuce sino a che la stampa (intesa in senso lato) era in procinto di diventare quel mezzo onnipervarsivo che oggi conosciamo, si rivela adesso nella sua assoluta, nevrotizzante potenza magica.

Non è un caso che proprio il Karl Kraus a più riprese evocato nelle pagine di questo libro, scrivesse – era il 1921 – che la fine del mondo, quando avverrà, avverrà a opera di una ««schwarze Magie», una magia nera in grado di eccitare gli spiriti, uccidendoli. Magia nera che nel linguaggio di Kraus altro non era se non la stampa. Avendo sotto gli occhi il disastro della Prima Guerra Mondiale, Kraus si chiedeva: «La stampa è un messaggero? No, è l’evento. Un discorso? No, la vita. Abbiamo messo l’uomo a cui spetta di annunciare l’incendio, al di sopra dell’incendio stesso, al di sopra del fatto, al di sopra della nostra stessa fantasia».

Oggi, commenta Türcke, l’elevata pressione delle notizie sulla vita stessa ha trasformato la percezione del sensazionale, nella percezione in assoluto, fino a trasformare il caso limite nella norma di una società perennemente eccitata passata dalla Totale Mobil- machung, la mobilitazione generale tenuta a battesimo dalla stampa nelle settimane precedenti il primo conflitto mondiale, alla mobilitazione infinita iniziata con la Prima guerra del Golfo e un giornalismo che non ha nemmeno più bisogno di sapersi embedded, per muoversi al palo, come un cane timoroso, anche quando è senza catene.

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