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Precari digitali: note sul reddito di base

di Christian Marazzi

Il primo e forse più importante merito del dibattito attorno al reddito di cittadinanza, o reddito di base incondizionato, è che costringe a riflettere sul futuro dello Stato sociale così come esso è stato costruito nel corso del Novecento. Uno Stato sociale concepito e realizzato sulla base di una figura professionale centrale, il lavoratore a tempo indeterminato, un lavoratore che, grazie alla stabilità e alla durata del suo impiego, ha permesso il finanziamento delle grandi assicurazioni sociali.

Da una ventina d’anni a questa parte, questa figura professionale è in via d’estinzione, sostituita come è da una miriade di nuove forme contrattuali o extra-contrattuali, il lavoro atipico, che va dal lavoro a tempo determinato, a quello interinale e su chiamata, al lavoro parziale, ai freelance, il tutto attraversato dalla realtà del lavoro sottopagato e, in ogni caso, intermittente.

Con conseguenze già visibili per le assicurazioni sociali a causa delle lacune contributive di un numero crescente di cittadini, che lo Stato sarà chiamato a colmare con le PC nel momento del pensionamento. I risultati d’esercizio dell’AVS dello scorso anno, con il duplice disavanzo della ripartizione e degli investimenti delle riserve sui mercati finanziari, dimostrano con tutta probabilità che il sistema della sicurezza sociale è giunto a un punto di svolta.

Alla precarizzazione del lavoro va ad aggiungersi l’effetto della digitalizzazione dei processi di produzione e dei consumi, un processo destinato a falcidiare l’impiego del classico lavoro salariato, se è vero, come evidenziato da una ricerca dell’Università di Oxford, che qualcosa come il 47% delle professioni vigenti scomparirà nei prossimi anni. L’accelerazione di tali processi indotti dalla potenza delle nuove tecnologie è tale che, differentemente dal passato, la creazione di nuovi posti di lavoro e di nuove professioni non riuscirà a compensarne le perdite.

Con la conseguenza che non solo le disuguaglianze aumenteranno oltremodo, ma anche che una parte della popolazione attiva, le donne in particolare, sarà costretta ad accettare paghe miserevoli per poter rimanere all’interno del mondo lavorativo. La presenza di un reddito di base garantirebbe, prima ancora di un minimo esistenziale, una maggiore forza contrattuale sul mercato del lavoro, specie nelle regioni (come il Ticino) in cui il basso costo del lavoro inibisce l’innovazione tecnologica e con essa la competitività sui mercati globali.

L’idea stessa del reddito di cittadinanza suscita reazioni scomposte, dal pericolo delle “invasioni barbariche” a quello dell’instaurazione del comunismo in un paese liberale, alla catastrofe economica e finanziaria, per non parlare della fine dell’etica del lavoro.

Meglio quindi, sostengono i suoi detrattori, continuare con il nostro Stato sociale. Senonché, sono proprio i politici che evocano la catastrofe ad adoperarsi, da anni ormai e con assiduità, al ridimensionamento sistematico del nostro Stato sociale, privilegiando il cosiddetto reinserimento professionale al ruolo ridistributivo dello Stato sociale. Tant’è, era prevedibile: è giusto che l’idea del reddito di cittadinanza susciti le più diverse visioni della nostra società futura. Purché lo sguardo non venga distratto dalle questioni fondamentali.

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