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Alain Badiou, La passione di essere nel mondo

Francesco Ceraolo

Gli ultimi due libri pubblicati in italiano da Alain Badiou – Metafisica della felicità reale e Alla ricerca del reale perduto, entrambi usciti in Francia nel 2015 – rappresentano, come ci ha abituati perlomeno a partire dal 2006, quando uscì il suo Logiche dei mondi, il suo tentativo di percorrere ed esemplificare le tappe concettuali della grande cattedrale filosofica iniziata negli anni Ottanta con Teoria del soggetto, Manifesto per la filosofia e L’essere e l’evento, proseguita appunto con Logiche dei mondi e tuttora in attesa di essere compiuta con un’ultima grande trattazione dedicata al tema dell’immanenza delle verità, in lavorazione e di futura uscita.

Se negli anni Badiou ha spesso lavorato su problemi teorici posti dal suo pensiero in relazione al presente (Sarkozy: di che cosa è il nome?, Il risveglio della storia, ecc.), o tentando di scioglierne alcune contraddizioni interne (Condizioni, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, ecc.), le questioni poste in gioco qui sono due, come indicano chiaramente i rispettivi titoli dei volumi: che cos’è la felicità umana e in che modo ogni autentica filosofia deve poter rappresentare una metafisica della felicità reale? E poi: in cosa consiste questo «reale» nella nostra contemporaneità globale ma frammentata, ipermediatizzata e interconnessa ma lontana – fallite le utopie novecentesche – dall’aver realizzato tanto un qualsiasi universalismo illuminista (persino nei suoi rovesciamenti dialettici cari a Adorno e Horkheimer) quanto alcuna palingenesi storica?

Per dirla in modo schematico, le risposte fornite da Badiou sono un chiaro prolungamento dei nodi teorici che Logiche dei mondi aveva stabilito diametralmente alla natura stessa dell’agire filosofico: a partire dai modi in cui le verità, che L’essere e l’evento aveva tematizzato coappartenere a una molteplicità immanente, trovano forma nell’apparire dei corpi e nelle forme del mondo. La filosofia si attesta dunque quale unica tenutaria di un regime delle verità umane, le quali possono solo scaturire dal costituirsi di nuove soggettività, a loro volta prodotto di eventi interni alle quattro condizioni dell’agire umano: l’amore, la politica, l’arte, la scienza. Solo la filosofia, insomma, permette all’uomo di cogliere la felicità come sua possibilità immanente: ogni felicità è infatti la pura adesione a un evento dell’azione («l’entusiasmo politico, la beatitudine scientifica, il piacere estetico, la gioia amorosa») che la filosofia è capace di portare ad autocoscienza. In tale evento si consuma un godimento «finito dell’infinito», ovvero un movimento di ascesa e non di caduta, una coesistenza dell’apparire e del vero, del corpo e dell’idealità. Inoltre, riprendendo uno dei nodi cruciali della Scienza della logica hegeliana, Badiou sostiene che affinché questa possibilità si possa realizzare sia necessario pensare il processo di appropriazione della realtà attraverso la dichiarazione della «possibilità dell’impossibile»: in altre parole, essere felici significa aderire a un evento in grado di trasformare ciò che prima apparteneva al piano dell’impossibilità (la nascita di una storia d’amore, una scoperta scientifica innovativa, la realizzazione di una grande opera d’arte, un evento politico rivoluzionario) in un «reale» effettivo.

Fin qui siamo nella ormai nota costruzione teorica di Badiou: che ha avuto certamente il grande merito in questi ultimi decenni di chiudere la stagione post-strutturalista francese (pur non rinnegandola) e di inaugurare una nuova fase del pensiero (seppur in modo ancora piuttosto minoritario), con le sue aperture a un cosiddetto «platonismo del molteplice», che a sua volta ha riproposto con forza l’esigenza di una nuova metafisica delle verità, mediata ed esperita dall’avventura postmodernista.

Se però questo rimane l’orizzonte generale della posizione di Badiou e su cui non mi pare si possa aggiungere altro, se non che i due libri lavorino a declinarlo in forme ancora nuove ci tengo a soffermarmi qui su un filo rosso che attraversa la riflessione nei due volumi in questione. Lo compendierei nella risposta alla seguente domanda: in che modo il pensiero è capace di indirizzare l’umanità verso una nuova prospettiva di felicità interna a quello che è evidentemente l’attuale «deserto del reale»? In altre parole, se la felicità è una possibilità immanente alla vita stessa, che cosa è in grado di renderla significativa su un piano collettivo per Badiou evidentemente reificato come l’attuale? Cosa è capace cioè di liberarla dal recinto psicologico delle emozioni individuali, dalla dimensione privata del singolo, che per sua stessa natura impedisce qualsiasi intervento sul reale stesso? Cosa può rendere in definitiva felice un’umanità pensata come unico soggetto?

Se in Metafisica della felicità reale Badiou a un certo punto si chiede se, per essere felici, si debba voler «cambiare il mondo» (e la risposta è per lui ovviamente affermativa), Alla ricerca del reale perduto si chiude, con una ripresa della riflessione di Pasolini su Gramsci, decretando la possibilità di questo cambiamento anche all’interno di un presente incapace di pensare un futuro storico: in tutta evidenza, scrive Badiou, «ciò richiede una dissociazione molto difficile tra la speranza storica e l’ostinazione politica. L’ostinazione politica deve potersi sostenere con l’assenza della speranza storica». Se riusciamo ad arrivare a questo, conclude, «avremo reso giustizia alle ceneri di Gramsci».

Questa tesi di Badiou mi pare rappresenti un effettivo punto di svolta nel suo pensiero: solo riattivando un’ostinazione politica (o una passione amorosa, o l’entusiasmo per una scoperta, o la messa in forma di un sentire in un’opera d’arte: tutti agenti, a differenti livelli, del cambiamento) è possibile intervenire sul reale, anche quando questo sembra aver perso la capacità di immaginare il proprio futuro, sostituendolo con un eterno presente. In altre parole, non si tratta più di «risvegliare la Storia», come sosteneva egli stesso qualche anno fa – bensì di liberarsene.

È paradossale quindi come l’utilizzo dell’addio simbolico di Pasolini a Gramsci davanti alle sue ceneri – un momento significativo di allontanamento di una parte della sinistra europea dalle sue premesse storicistiche e idealistiche – serva proprio a Badiou per affermare una nuova forma di idealismo, una nuova teoria della prassi di stampo chiaramente fichtiano: in cui pensare la realtà significa costantemente superarla. Se il mondo è in primo luogo lo spazio dell’agire umano, non è cioè semplicemente un orizzonte normativo dato, allora è possibile costantemente conquistarlo «facendone anche a meno», e facendo soprattutto a meno di quell’orizzonte storico al quale le tradizioni liberali e marxiste novecentesche, deterministe o messianiche che fossero, avevano affidato ogni speranza.

Nonostante il titolo proustiano di uno dei due volumi (Alla ricerca del reale perduto), non c’è nessuna nostalgia per il presente tra le righe di questi testi, ma un vitalismo che onestamente colpisce su un piano umano oltre che intellettuale. È come se in Badiou, camminando tra le lapidi del cimitero acattolico di Testaccio, la «passione di essere nel mondo» abbia finalmente smesso di essere «disperata». Non certo attraverso un esilio o un rifiuto della realtà, ma un lavoro di ricerca di qualcosa di apparentemente perduto: un costante movimento di apertura malgrado tutto, malgrado la Storia, la politica, la vita e il mondo stesso.

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Alain Badiou: Metafisica della felicità reale, traduzione di Ilaria Bussoni, Derive Approdi, 2015, 94 pp., € 12

Alain Badiou: Alla ricerca del reale perduto, a cura di Giovanni Tusa, Mimesis, 2016, 66 pp., € 8

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