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kasparhauser

L’ingegneria delle passioni

di Sandro Vero

1. Uno degli strumenti fondamentali della narrazione ideologica del capitalismo è la nozione dell’autonomia delle passioni, ovvero il concetto della loro natura di processi sostanzialmente non pianificabili, non controllabili. Dunque, estranei al suo sistema di organizzazione del mondo.

Necessario corollario di questo “luogo” incontrovertibile della ragione del capitale è il seguente: se le passioni sono autonome rispetto all’ingegneria sociale dell’economia e perfino della politica, se il momento “passionale” è irriducibile alla costruzione quotidiana di una soggettività votata al rispecchiamento dei meccanismi oggettivi della produzione e del consumo, se cioè le passioni introducono nel “discorso” del capitale un elemento perturbante, spurio, caotico, allora — indubbiamente — la loro materia è costituzionalmente refrattaria rispetto alla forma che prendono, nel mondo del profitto, i rapporti sociali, i rapporti gerarchicamente disposti a comporre la macchina sociale.

Come a dire che esperienza, vissuto, matericità delle passioni e ingegneria sociale non possono comporre un linguaggio, nella misura in cui le prime non sono disponibili a fornire la loro materia alla forma del tracciato progettuale del capitale, venendo così a mancare quella solidarietà fra la forma e la sostanza che tiene insieme, ognuno per proprio conto e nell’incontro strutturale del sistema semiotico, i piani dell’espressione e del contenuto.

 

2. Ora, l’apparenza apodittica di tale narrazione consente operazioni di occultamento particolarmente efficaci. Il pensiero critico stenta ad esercitare sulla questione la sua presa, si sfrangia nei tanti gridati esempi della sua evidenza fattuale: non è forse vero che la passione, nella sua particolare declinazione politica, è l’alimento primario di cui si nutre la democrazia? Non è altrettanto vero che il fuoco, il calor bianco della passione — delle passioni — non si può imbrigliare dentro la rete del calcolo economico, della geometria degli schemi sociali, e ciò nella misura in cui quel fuoco e quel calor bianco si addensano, si preparano, si compongono, dentro quell’emergenza ontologica, mai e poi mai riducibile a un’ontologia del sociale, che è l’individuo? Non è, con assoluta evidenza, vero che il capitalismo ha costruito la sua fortuna nell’esercizio di quell’unica “passione”, che contraddice tutte le altre e tutte le abiura, che è la passione — disciplinata, metodica, ascetica, religiosa — per l’intrapresa economica, di cui il profitto è solo uno strumento retro-attivo con funzione propulsiva?

 

3. È indispensabile un paziente lavoro di decostruzione del marchingegno narrativo. Un marchingegno ove si narra della potenza caotica delle passioni, della loro intrattabilità, della loro ingovernabilità, consegna al mondo una delle più ficcanti e velenose “verità” che il potere dissemina nel terreno del suo microfisico controllo, portato nel cuore stesso di quella che una volta si sarebbe detta “anima”.

In realtà, è abbastanza semplice notare un dato: il capitale non ha bisogno di istituire un suo linguaggio delle passioni. Non ha bisogno di possedere una struttura in cui corrispondano — punto a punto, in quell’isomorfismo eletto dai linguisti del novecento a elemento primario del linguaggio — una materia passionale e una forma passionale, quest’ultima sovrimposta a partire da un luogo altro rispetto alle passioni medesime. Non ne ha bisogno né sul piano dell’espressione, i veicoli sintattici, né su quello del contenuto, lo spessore semantico. Gli basta e gli avanza un’altra operazione, al capitale piuttosto congeniale: si impossessa non delle passioni, considerate nella loro datità fenomenica, nella loro indicibile “noumenicità”; espugna semplicemente il fortilizio dei discorsi passionali, dentro cui le passioni stesse sono archiviate, catalogate, rappresentate, e ne fa materia per l’ennesimo meta-discorso mitico, struttura fungibile nelle più diverse occasioni in cui il tornaconto è a portata di mano.

 

4. Insomma, non serve istituire un linguaggio asservito al capitale che governi la materia incandescente delle passioni: ciò che sembra funzionare alla perfezione è una sorta di relazione anaclitica in cui il discorso capitalistico si appoggia al discorso passionale, vale a dire alla sua consistenza narrativa, per farne carne vendibile al mercato del desiderio, una carne imbottita di solfiti, di un rosso fiammante. Ma piuttosto tossica.

 

5. Una semiotica delle passioni, a questo punto, smette di essere la disciplina apparentemente anodina, accademica, cervellotica che la vulgata ci consegna, e diventa un potente grimaldello con cui penetrare la black box in cui sono depositati i codici criptati del potere in assetto passionale.

Pratiche minime e pratiche massime: la passione per il calcio e la passione per l’umanità, quella per il vino e quella per la filosofia. Tutte, insieme o a sottoinsiemi cangianti, diventano “luoghi” di un’immutata affabulazione in cui la forma che serve viene impressa, secondo i casi e i momenti, dal vertiginoso sviluppo mitopoietico del discorso capitalistico.

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INDICAZIONI BILIBOGRAFICHE
G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002.
H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, tr. it. di D. Benati, M. Bertani, I. Levrini, Ponte alle Grazie, Firenze 1989.
L. Ferry e A. Renaut, Il 68 pensiero, tr. it. di E. Rensi, Rizzoli, Milano 1987.
F. Lordon, Capitalismo, desiderio e servitù: antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo , tr. it. di I. Bussoni, Derive Approdi, Roma 2015.
E. Manera, Furio Jesi: Mito, violenza, memoria, Carocci, Roma 2012.
I. Pezzini (a cura di), Semiotica delle passioni, Esculapio, Bologna 1991.
S. Vegetti Finzi (a cura di), Storia delle passioni, Laterza, Bari 1995.
S. Vero, Le strutture profonde della comunicazione, Bonanno, Acireale/Roma 2006. 

Comments

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Fabrizio Marchi
Monday, 30 May 2016 21:37
Se cambiassimo anche il nostro linguaggio e il nostro modo di esprimerci non faremmo un soldo di danno alla speranza-possibilità di aprire un buco nel Matrix, e di ricostruire una nuova soggettività critica e anticapitalista. Mi scuso per la franchezza, ma trovo il linguaggio di questo articolo decisamente irritante, inutile, ridondante, di certo incomprensibile ai più. Degno della migliore scuola negriana, deleuziana o faucultiana, a una delle quali molto probabilmente se non certamente l'autore appartiene.
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