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USA-Pakistan, droni sui Talebani

di Mario Lombardo

L’assassinio mirato del leader Talebano Akhtar Muhammad Mansour da parte di un drone delle forze armate degli Stati Uniti, avvenuto la settimana scorsa in territorio pakistano, ha riproposto in maniera clamorosa tutte le divisioni che stanno segnando i rapporti tra i due paesi teoricamente alleati. L’incursione americana non rappresenta infatti un caso isolato, ma si collega a una serie di altre questioni che negli ultimi mesi hanno agitato gli equilibri diplomatici in Asia centrale, nonché ai riflessi strategici degli sforzi di Washington nel districarsi dall’ultradecennale conflitto sul doppio fronte di Pakistan e Afghanistan.

Le versioni proposte dalla stampa USA del raid che ha liquidato il successore del Mullah Omar hanno lasciato poco spazio ai dubbi sullo stato delle relazioni bilaterali. Il Wall Street Journal, citando fonti interne all’amministrazione Obama, ha scritto che il governo e i militari americani non avevano notificato anticipatamente al Pakistan l’attacco contro Mansour di sabato scorso. Non solo, l’operazione è avvenuta nella provincia sudoccidentale del Belucistan, considerata dagli Stati Uniti off-limits per i propri droni.

La reazione ufficiale di Islamabad confermerebbe questa versione, visto che il ministro degli Esteri pakistano ha fatto sapere lunedì di avere convocato l’ambasciatore americano per presentare una protesta formale in seguito alla violazione della sovranità territoriale del suo paese da parte degli USA.

Com’è noto, Mansour aveva contatti molto stretti con l’intelligence e i militari pakistani, i quali tengono tradizionalmente un atteggiamento a dir poco ambiguo nei confronti di determinate fazioni Talebane, ritenute uno strumento fondamentale per consentire a Islamabad di esercitare una certa influenza sulle vicende del vicino Afghanistan.

Parallelamente, però, il New York Times ha rivelato come gli USA avessero fatto sapere al governo pakistano che Mansour era finito sulla lista nera di Obama e quindi esposto al rischio uccisione tramite droni. Anzi, gli stessi pakistani avrebbero fornito agli americani informazioni sulle attività e le località frequentate dall’ormai ex leader Talebano.

In questo caso, l’ambiguità pakistana si moltiplicherebbe, spiegandosi forse, come ha ipotizzato ancora il Times, nel desiderio dei servizi segreti di questo paese di favorire l’ascesa alla guida dei Talebani di un altro loro protetto, Sirajuddin Haqqani.

Proprio contro i militanti fondamentalisti alleati dei Talebani e che fanno capo alla famiglia Haqqani gli Stati Uniti avrebbero da tempo chiesto al Pakistan di agire, senza però ottenere alcun riscontro. Di fronte all’inerzia di Islamabad, allora, Washington avrebbe adottato alcune misure punitive, come il congelamento di circa 300 milioni di dollari in aiuti militari e, più recentemente, lo stop a sussidi per oltre 400 milioni destinati all’acquisto di otto aerei da guerra F-16. Il blitz con i droni di sabato rientrerebbe dunque in questa logica.

Un’altra motivazione per la morte di Mansour, offerta tra gli altri dallo stesso presidente Obama questa settimana dal Vietnam, sarebbe da collegare ai tentativi degli Stati Uniti di promuovere il processo di “riconciliazione” tra il governo afgano e i Talebani, a cui l’ex leader di questi ultimi si opponeva.

Ferma restando la discutibilità di una strategia di “pace” perseguita attraverso l’assassinio deliberato del leader di una delle due parti che dovrebbero sedersi al tavolo dei negoziati, la più recente missione dei droni americani va letta principalmente come un messaggio diretto a Islamabad.

L’ex ambasciatore pakistano negli Stati Uniti, Husain Haqqani, ha definito l’eliminazione di Mansour come il segnale del “venir meno da parte dell’amministrazione Obama della già calante fiducia nei confronti del Pakistan”. Per l’ex diplomatico USA, Barnett Rubin, la morte di Mansour non avrà inoltre un impatto rilevante sull’atteggiamento dei Talebani, anche perché sarà rimpiazzato da un nuovo leader senza troppe difficoltà. Molto più significativi saranno piuttosto gli effetti sul governo pakistano, il quale dovrà “fare i conti con una serie di circostanze imbarazzanti”.

Singolare sarebbe oltretutto ricondurre l’operazione di sabato scorso in Belucistan agli sforzi americani per la pace in Afghanistan proprio mentre è in corso un’accelerazione dell’impegno militare degli Stati Uniti sul fronte centro-asiatico.

Da alcuni mesi, il Pentagono ha intensificato le operazioni contro gli “insorti”, nonostante a livello ufficiale le operazioni di combattimento da parte delle forze di occupazione USA siano terminate. Nei circoli militari e alla Casa Bianca si continua poi a discutere dell’opportunità di estendere l’occupazione dell’Afghanistan, mentre voci autorevoli chiedono addirittura un ampliamento del mandato in questo paese.

L’ex generale ed ex direttore della CIA, David Petraeus, ha ad esempio auspicato di recente una campagna di bombardamenti più intensa sull’Afghanistan, poiché essa risulta oggi di gran lunga inferiore a quelle condotte in Iraq e in Siria.

I legami tra l’apparato militare e dell’intelligence del Pakistan con alcuni gruppi estremisti che operano oltre il confine, in Afghanistan, sono noti da tempo. Le critiche e le iniziative adottate dagli Stati Uniti contro questo paese non trovano però giustificazioni, se non nella brutale promozione degli interessi strategici  di Washington.

Tralasciando i rapporti più o meno clandestini che anche gli USA intrattengono con svariate formazioni fondamentaliste islamiche in Asia e in Africa, le ragioni dell’ambiguità pakistana vanno ricercate nel senso di insicurezza di questo paese, dovuto pressoché del tutto proprio al fattore destabilizzante rappresentato dagli Stati Uniti.

Le ramificazioni della condotta americana in Asia centrale hanno gettato il Pakistan in una situazione di profonda crisi politica, militare e sociale. Innanzitutto, i ripetuti bombardamenti con i droni in territorio pakistano hanno alimentato violenze settarie e un fronte armato che da anni combatte il governo centrale a furia di attentati sanguinosi, spesso contro obiettivi civili.

La risposta delle autorità politiche e militari a questa offensiva si è concretizzata in ulteriori violenze, a loro volta ingigantite dalle continue pressioni americane a fare di più per combattere la minaccia fondamentalista, responsabile di attacchi contro le forze occidentali di occupazione in Afghanistan.

L’altro fattore collegato al tentativo di stabilizzare quest’ultimo paese, nonché al contenimento della Cina, è inoltre il piano statunitense di costruire una partnership strategica con l’India, ovvero l’arcinemico storico del Pakistan. Ciò si è tradotto anche con l’invito a Delhi a svolgere un ruolo più attivo nella ricostruzione dell’Afghanistan, suscitando a Islamabad i timori di un pericoloso accerchiamento, da sventare attraverso il mantenimento delle relazioni con i Talebani come strumento di pressione su Kabul.

La rivalità storica tra Pakistan e India e le manovre degli Stati Uniti si sono infine intersecate inevitabilmente con le conseguenze della crescente rivalità tra Washington e Pechino, ma anche, in misura relativamente minore, di quella tra Washington e Mosca. In una chiara convergenza di interessi, il Pakistan e la Cina, i cui rapporti risultano storicamente cordiali, hanno avviato da qualche tempo un percorso di avvicinamento, basato in larga misura sulla collaborazione economica e commerciale.

Molto più complicate sono sempre state invece le relazioni tra il Pakistan e la Russia, ma le manovre strategiche americane hanno stimolato un evidente disgelo, confermato da una serie di gesti reciproci registrati negli ultimi due anni. Come ha ricordato un’analisi del magazine on-line The Diplomat, nel 2014 Mosca ha cancellato l’embargo sulla vendita di armi a Islamabad, autorizzando l’anno successivo la fornitura di alcuni elicotteri da combattimento.

Sempre nel 2015, la Russia ha accolto con favore l’ingresso del Pakistan nell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), l’organo euroasiatico che promuove la collaborazione in ambito politico, economico e militare tra una ventina di paesi tra membri, partner e osservatori. Ancora, i due paesi hanno sottoscritto un’intesa per un progetto di trasporto di gas naturale liquefatto (LNG) in territorio pakistano, mentre entro la fine del 2016 dovrebbe tenersi la prima esercitazione militare in assoluto tra le forze armate di Mosca e di Islamabad.

Tutte queste iniziative bilaterali tra Pakistan e Cina e tra Pakistan e Russia hanno contribuito a far aumentare l’irritazione degli Stati Uniti, i quali, per tutta risposta, hanno a loro volta intrapreso nuove iniziative dirette contro il governo di Islamabad, finendo per destabilizzare ulteriormente i già precari scenari della regione centro-asiatica.

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