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carmilla

L’era del manicomio chimico diffuso

Il cavallo di Troia sotto forma di pillola

di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano, 2015, 256 pagine, € 15,00

«Il problema in questo nuovo secolo moderno non è più il manicomio tout-court, il manicomio come lo conoscevamo, il manicomio concreto fatto di lacci, fasce, muri, sbarre, chiavistelli, porte, ma il vero manicomio si è fatto astratto, invisibile, inafferrabile, il vero manicomio, ora, si è trasferito direttamente nella testa, si è trasferito nei pensieri e in quelle vie neurotrasmettitoriali che li regolano, il vero manicomio, in questo nuovo secolo appena iniziato, sono i farmaci, il vero, pericoloso, subdolo manicomio è quello chimico (e ciò che lo precede, e lo giustifica, ovvero la diagnosi» Piero Cipriano (p. 35)

Il saggio Il manicomio chimico di Piero Cipriano, per certi versi la continuazione del precedente La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), rappresenta un grido d’allarme contro la diffusione sconsiderata di psicofarmaci. Il paziente, anziché essere internato tra mura e sbarre, si trova ad assumere il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco. Il manicomio si è trasferito nella testa del paziente attraverso un moderno Cavallo di Troia che ha la forma simpatica e colorata di una pillola che, spesso, sin dal nome, promette un immediato e duraturo sollievo.

In questo libro Cipriano pubblica frammenti di “cronaca in diretta” desunti delle sue esperienze di “psichiatra riluttante” in quelle che definisce le “fabbriche della cura mentale” (SPDC – Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura). A tali esperienze, l’autore aggiunge riflessioni derivate dalla partecipazioni a convegni, suggestioni dettate dalla lettura di saggi e romanzi o dalla visione di film. Capitolo dopo capitolo il testo alterna dati scientifici, episodi di vita tra i pazienti e storie d’invenzione, in tutti i casi utili esempi volti a far comprendere al lettore la deriva farmacologica in atto e la funzione, a monte, esercitata dalla diagnosi. Un ruolo importante nella ricostruzione dell’invasione psicofarmacologica in atto spetta sicuramente al libro di Robert Whitaker, Indagine su un’epidemia. Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci (Fioriti Editore, 2013), testo a cui lo stesso Cipriano ricorre continuamente.

Il manicomio chimico ricostruisce i passaggi principali che hanno portato all’era della psichiatria chimica. Tutto può essere fatto risalire, secondo l’autore, al senso di frustrazione provato, sul finire degli anni Cinquanta, dagli psichiatri che si sentono gli unici medici incapaci di ottenere terapie efficaci. Entro la prima metà del Novecento la comunità medica ha a disposizione antibiotici, anestetici, antistaminici, antidiabetici, antiepilettici, sedativi ecc. Tali farmaci erano stati individuati identificando l’agente eziologico del disturbo e, successivamente, era stata sviluppata la terapia specifica. Nel caso degli psicofarmaci, continua l’autore, «è successo il contrario: prima, accidentalmente, è stata trovata una molecola, e dopo sono state formulate delle ipotesi, più o meno verosimili, sulla causa del disturbo mentale. Ipotesi che poi, surrettiziamente, sono diventate prove (e dunque teorie), grazie a una straordinaria campagna informativa delle aziende farmaceutiche» (p. 52).

Quando, nel 1949, Hanri Laborit, dopo aver somministrato ai sui pazienti la prometazina (un antistaminico), osserva che questa alleviava il dolori nei pazienti precedentemente sottoposti ad intervento chirurgico, può dirsi iniziata “la rimonta della psichiatria”. Sulla base delle osservazioni di Laborir si giunse ben presto alla sintetizzazione della clorpromazina, capace di rendere i pazienti sottoposti a precedente intervento chirurgico in una sorta di stato crepuscolare. Dal 1952 la clorpromazina venne somministrata ai pazienti psicotici di Parigi e, pochi anni dopo, nei manicomi di tutta Europa. «Siccome i pazienti, trattati con la clorpromazina, apparivano atarassici, come degli zombie […] chiamarono questa molecola, giustamente, neurolettico, perché induceva una neurolessia, nel senso che rallentava il sistema nervoso centrale, determinando sintomi simili a quelli prodotti dall’encefalite letargica» (p. 53).

Ed è così che, scoperta dopo scoperta, nell’arco di nemmeno un decennio, la psichiatria si trova ad aver individuato «tre farmaci capaci di aggredire tre importanti dimensioni psicopatologiche: la clorpromazina per i malati agitati, aggressivi, maniacali, psicotici; il clordiazepossido per gli ansiosi e l’iproniazide per i depressi. Tre farmaci scoperti casualmente e prescritti secondo il criterio che ancor oggi regola la prescrizione degli psicofarmaci: ex adiuvantibus. Secondo giovamento» (p. 54). Grazie al successo commerciale ottenuto dalla clorpromazina in poco tempo si arriva a sintetizzare le principali classi di neurolettici di prima generazione, dal butirrofenone ad attività neurolettica, l’aloperidolo, il neurolettico più prescritto al mondo fino agli anni Novanta, quando fanno la comparsa neurolettici di seconda generazione, gli antipsicotici atipici. Tale seconda generazione pare determinare con minor frequenza effetti collaterali (come il parkinsonismo) e risultare più efficace nel trattamento delle psicosi gravi. I dati riassunti dall’indagine di Whitaker a cui fa riferimento Cipriano, sono impressionanti: «Nel 1955, all’anno zero della rivoluzione psicofarmacologica, nei manicomi americani erano ricoverati 267.000 pazienti con diagnosi di schizofrenia, che significa 1 americano ogni 617 abitanti. Nel 2010, invece, esistevano quasi 2.500.000 persone con questa diagnosi. 1 americano ogni 125 abitanti. Qualcosa non funziona in questa rivoluzione farmacologica» (p. 62).

Secondo la ricostruzione proposta da Cipriano, le responsabilità della deriva farmacologica della psichiatria ricadono principalmente su quattro istituzioni americane: l’American Psychiatric Association (APA), le case farmaceutiche, il National Institute of Mental Health (NIMH) e la National Alliance for the Mentally Ill (NAMI). Nel corso degli anni Ottanta l’APA si legò fortemente alle industrie farmaceutiche ed il NIMH, che è l’organo governativo di ricerca, da parte sua, «esordì con l’eliminare dalla scena della nuova psichiatria basata sui farmaci Loren Mosher, lo psichiatra sociale che con il suo Soteria Project aveva procurato molto fastidio al pensiero unico dell’approccio psicofarmacologico. In seguito, nel corso degli anni Ottanta, il NIMH promosse una campagna detta Depression Awareness Recognition and Treatment (DART), un programma di consapevolizzazione, di riconoscimento e trattamento della depressione, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di riconoscere e curare i disturbi depressivi […] per favorire un sempre maggiore utilizzo della terapia psicofarmacologica» (p. 112). A tutto ciò si aggiunse la NAMI, un’associazione di familiari di pazienti psichiatrici «fondata da due madri e nata come protesta contro le teorie freudiane incolpanti la madre, per cui l’associazione intendeva sostenere il contrario, e cioè che la malattia mentale ha basi biologiche e non c’entra niente con lo stile di accudimento materno» (p. 112). Tale gruppo venne sostenuto finanziariamente dalle aziende farmaceutiche dal momento che il suo punto di vista finiva col coincidere con quanto portato avanti dalle altre istituzioni e, in quanto associazione di parenti dei pazienti, facilmente otteneva una certa visibilità mediatica. Quella che Cipriano definisce la “santa alleanza in nome del farmaco”, poteva dunque contare su un ente che garantiva autorevolezza scientifica (APA), sui finanziamenti economici dalle aziende farmaceutiche, sul sostegno governativo garantito da NIMH e dalla “garanzia etica” dell’associazione NAMI; «perché i familiari non sarebbero mai andati contro gli interessi dei loro cari, no?» (p. 113).

Whitaker ritiene che a questo fronte di sostenitori della psicofarmacologia abbia contribuito, tra gli anni Settanta ed Ottanta, anche una quinta colonna: Scientology. Quando Ron Hubbard pubblicò il testo Dianetics, ove avanzava le sue proposte per affrontare la sofferenza mentale, venne deriso dalla comunità scientifica e ciò lo portò, per reazione, a scatenare un attacco frontale nei confronti della psichiatria e tale offensiva venne portata avanti congiuntamente al precursore dell’antipsichiatria Thomas Szasz costituendo la Citizens Commission on Human Rights. Si scatenarono così campagne contro gli psicofarmaci, contro l’elettrochoc e la lobotomia ma il fatto che tali attacchi provenissero da parte di una Chiesa di scarsa credibilità come Scientology prestò il fianco agli psichiatri dell’APA. La mancanza di credibilità degli oppositori alla chimica venne colta ed abilmente sfruttata anche dalle industrie farmaceutiche che giunsero, in gran segreto, a finanziare le attività di Scientology e della Citizens Commission on Human Rights. Un nemico così, se non ci fosse stato, lo si sarebbe dovuto inventare. Occorre sottolineare come l’inaspettata alleanza tra Ron Hubbard e Thomas Szasz non abbia giovato alla causa dell’antipsichiatria perorata da quest’ultimo.

Sarebbe sbagliato pensare che l’invasione degli psicofarmaci riguardi soltanto “i malati”, visto che, sostiene Cipriano, agli psichiatri ed alle case farmaceutiche interessano anche altri soggetti. Da qualche tempo la diagnosi sembra sottostare all’urgenza burocratica di considerare “malattia” qualunque disagio psichico e, come abbiamo visto, la sua cura proposta, facilmente, prevede il ricorso ai farmaci. Oggi, mette in guardia l’autore, si può diventare pazienti psichiatrici senza saperlo; per ogni stato emotivo forte esiste “il farmaco giusto” e se, ad esempio, un lutto determina uno stato di tristezza prolungato, in un attimo questa può essere rubricata come depressione e curata attraverso psicofarmaci. Soprattutto in paesi come gli Stati Uniti, se un bambino, ad esempio, è diagnosticato iperattivo rischia di essere “curato” con farmaci che lo deprimono e questo stato depressivo, a sua volta, viene curato con farmaci eccitanti. A quel punto il bambino è arruolato all’interno del circuito farmacologico ed è condannato ad essere un giovane psicotico.

Cipriano tiene a sottolineare che non intende proporre di rifiutare totalmente i medicinali ma di ricorrere ad essi con molta parsimonia, soltanto nei casi più gravi e per brevi periodi perché l’assunzione prolungata di un farmaco comporta una modificazione dell’equilibrio chimico del cervello e ciò porta ad una dipendenza da quella sostanza. Altro spunto di riflessione interessante toccato dal testo riguarda un sempre più accentuato “uso cosmetico del farmaco” che, sempre più spesso, viene richiesto al medico non per un reale bisogno ma per migliorare ulteriormente il proprio stato, per un sentirsi “ancora più in forma” e migliorare le proprie prestazioni. Degli effetti collaterali sembra non importare a nessuno; viviamo pur sempre in un mondo competitivo che richiede performance sempre più elevate, no?

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E’ in uscita, sempre per l’editore Elèuthera, il nuovo volume di Piero Cipriano, La società dei devianti (2016), opera che chiude la “trilogia della riluttanza” iniziata con La fabbrica della cura mentale (2013) e proseguita con Il manicomio chimico (2015).
Nel nuovo volume, che ci riproniamo di affrontare, Cipriano si misura con quella stanchezza esistenziale che la nostra scoietà ha sbrigativamente definita depressione.

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