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paroleecose

«Ce pigliamm’ tutt’ cose». Sulla seconda stagione di Gomorra

di Francesco Pecoraro

Ho visto sei puntate della seconda stagione di Gomorra. Non so se la seguirò fino in fondo, ma suppongo di sì.

Non tanto per sapere come va a finire – la vicenda, anzi le numerose vicende intrecciate tra loro, non possono che seguire un andamento fissato dall’etologia degli animali superiori dotati di vita sociale: a uno stato di equilibrio segue uno stato di conflitto cui segue una negoziazione e un nuovo stato di equilibrio, e così via – quanto per verificare le direzioni che imboccherà nelle continue biforcazioni narrative: ne resterà solo uno? si autodistruggeranno? Non credo, la serie deve andare avanti, si vende in tutto il mondo.

Gomorra descrive un’ipotetica (quali, al di là della verosimiglianza antropologica, gli elementi di verità?) società criminale, che per definizione è una cosa pura e barbarica, cioè priva di diritto e retta da una legislazione naturale, dove sono fondamentali l’espressione del coraggio («tene ‘e pall’»), la regola della lealtà («simm’ frate»), l’etica dell’omertà («è uno a post’»). Mentre il non mostrarsi coraggiosi comporta un’inevitabile sottomissione, la slealtà e la delazione, se scoperte, sono punite con la morte.

L’unica morale riconosciuta da questa messa in scena di una comunità criminale, per così dire «storica», si basa sulla famiglia intesa sia in senso proprio, cioè biologico, sia in senso esteso come gruppo coalizzato sotto un capo assoluto che protegge, dà e toglie in piena onnipotenza.

Il tramare contro il capo dall’interno della sua stessa famiglia, allo scopo di abbatterlo e prenderne il posto, è un procedimento fondante della narrazione criminale, che è sempre, o quasi sempre, storia di una presa di potere, cioè descrizione di una parabola di ascesa e caduta. Memorabile l’indebolimento e la successiva eliminazione del capo nello Scarface prima di Howard Hawks poi di De Palma. Qui il boss Frank Lopez, ormai finito e in preda al terrore, finisce per strisciare ai piedi di Al Pacino-Tony Montana. La sua detronizzazione è totale, Scarface si prende anche Michelle Pfeiffer, la sua donna. È lui il nuovo maschio alfa. Lopez lo scongiura: «Tony non mi ammazzare!». «Io non ti ammazzo. Manny, spara tu a quel figlio di puttana».

Altro elemento drammaturgico fisso è l’eliminazione dell’avversario esterno, che può avvenire su ordine, cioè ad opera di uno scagnozzo (molto curati nel fisico e nel look, talvolta estremo, gli scagnozzi di Gomorra), oppure su commissione, cioè ad opera di un professionista. «Niente di personale», dice il killer dei film americani quando ti spara alla testa.

Ma il tema realmente dominante della serie e in generale nella narrazione criminale è il tradimento: tradire il capo, tradire il sodale, tradire il gruppo di appartenenza, tradire la società criminale. La costruzione drammaturgica si basa quasi interamente sul sospetto di tradimento, sulla progettazione dell’azione traditrice, sulla scoperta e la punizione del traditore/delatore. Il tradimento è sempre relativo a un patto, a un’amicizia, a un’appartenenza, può essere multiplo e può avere un carattere ambiguo, tale da mettere lo spettatore in una posizione eticamente scomoda: l’informatore della polizia che tradisce il clan è un infame, oppure è un benemerito della legalità?

Siamo abituati alla rappresentazione di queste dinamiche – dove tutto si risolve nella dialettica tra valori biologici basali, rapporti di forza e convenienze reciproche –, eppure non possiamo farne a meno. È come se la civitas legale, cui pensiamo di appartenere, non possa prescindere da dosi giornaliere e massicce di narrazione criminale, cioè apparentemente del suo opposto.

Quanto a Gomorra non mi aspettavo niente di diverso da ciò che ho visto, ma prendo atto del raggiungimento di uno status professionale del tutto all’altezza delle serie americane: le immagini sono migliorate (con il digitale le scene notturne diventano non solo plausibili, ma anche molto espressive) e la lingua napoletana viene parlata più stretta, con ottima resa estetica, ma con decisiva diminuzione di comprensibilità: mi piace, ma mi occorrono i sottotitoli.

Leggo di polemiche attorno a una ipotetica esegesi del Male (rigorosamente scritto con M maiuscola) che sarebbe presente nella serie, dove effettivamente mancano figure positive antagoniste del crimine o anche soltanto non interne alla logica camorrista, come giudici, poliziotti, investigatori. Insomma manca il Bene, incarnato dai rappresentanti dello Stato. E ciò, si dice, non sarebbe educativo.

La mia impressione è che in Gomorra si sia voluto accentuare la presenza del Male proprio per de-normalizzare vicende e rapporti e figure della serie, dipingendone quasi esclusivamente la ferocia ultimativa. In questo modo l’associazione a delinquere diventa un inferno invivibile di violenza e paura, priva di qualsiasi principio di lealtà, amicizia e correttezza interne. Mentre sappiamo che nelle società criminali non è così, anzi, non è solo così, altrimenti imploderebbero per auto-disgregazione strutturale. Al di là del familismo e della pura convenienza economica, anche nella camorra deve esistere quel collante di etica criminale di cui parla Giovanni Falcone a proposito della mafia: dignità, rispetto, onore, solidarietà.

Queste serie ci piacciono proprio in quanto dis-educative, cioè proprio per la ferocia ultimativa che le nutre, per la presenza pervasiva del Male che quasi si sostituisce al continuum spazio temporale: tutto lì dentro è il Male, anche la forma del comodino del letto a baldacchino del boss, anche il caffè che beve al mattino guardando la parete di fronte con sguardo truce e vuoto. Un saggio a parte meriterebbe la costanza-dello-sguardo-truce nella recitazione di attori che fanno di tutto per apparire cattivi. Questo sforzo si vede proprio nella mancanza di sfumature interpretative: mai un sorriso, solo ghigni, mai un gesto di simpatia che non sia affettato o palesemente sporcato dalla falsità, in una continua stucchevole esibizione di cattiveria dentro uno spazio fisico e sociale chiuso, da incubo. Dov’è la sua pervasività socio-economica se la camorra vive e si risolve a Secondigliano/Scampia – un salire e scendere da grosse automobili in un turbinio di motorini, un aprire e chiudere porte di ferro, un entrare e uscire da interni che dire tamarri è poco – con qualche puntata a Ostia o all’Eur?

In questa continua esibizione del Male, nella messa in scena di un branco di disperati attanagliati dalla paura della loro stessa ferocia, che vivono in posti di merda prima di morire ammazzati da giovani, si cela la volontà di anticipare l’accusa, del tutto prevedibile, di fare apologia di camorra. E tuttavia tutto questo, a noi ceto medio pervasivo e semi-criminale, piace: ci procura il godimento della paura delegata alla fiction, assieme a un’invidia non confessabile per la delinquenza conclamata, cioè per chi ha il coraggio di vivere l’avventura di essere fuori dalla norma civile e, oltre a incassarne i proventi, è pronto a pagarne il prezzo.

Per questo noi, componenti dell’immenso grande ripieno sociale globalizzato, impoverito, infantilizzato e metro-sessualizzato, non proviamo una vera e propria ripulsa morale. Apparteniamo alla società post-borghese contemporanea, ovvero a una società criminale a bassa intensità, dove le due classi novecentesche portatrici di valori, borghesia e proletariato, sono scomparse, perché da tempo assorbite in un’immensa indistinta amorale poltiglia sociale. Dietro un’etica buonista ufficiale e di facciata, l’unico deterrente che impedisce che si vìolino tutte regole è costituito dalle conseguenze penali: la norma esterna compensa la mancanza di norma interna e ne inibisce le conseguenze.

Viviamo in un paese che è distopia di se stesso, dove l’istanza etica laica (se esiste) viene quasi esclusivamente vissuta nei termini gregari del politicamente corretto, ove è inglobata e sterilizzata. Resta a farla da padrona la morale cattolica, col suo familismo assoluto e la costituzionale doppiezza del pentimento/perdono, ma anche con un’organizzazione di carità talmente estesa ed efficiente da sostituire nei fatti (rendendola inutile) qualsiasi eventuale solidarietà di origine egualitaria e socialista: la condivisione delle risorse non è diritto dei più deboli ma concessione dei più forti.

Se questo grande ripieno sociale si intrattiene prevalentemente con la messa in scena verbo-visiva della società criminale, il paradosso è costituito dal fatto che anche la società criminale si nutre della medesima narrazione per costruire il mito di se stessa, com’è accaduto per film come Il Padrino o Scarface. Mentre la malavita si riconosce e si modella sulla fiction che la riguarda, in un loop resosi più volte evidente (vedi i recenti funerali del boss Casamonica), un ceto medio che si auto-disprezza, ignorante, impoverito, de-eticizzato e annoiato di sé, si ingozza del racconto dell’avventura criminale. Non tanto nella riconferma di valori civili che non coltiva e non possiede, quanto nella segreta e divertita invidia per chi si rifiuta di concedere interamente allo Stato il monopolio della forza. «Ce pigliamm’ tutt’ cose».

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