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Tronti tra il 1917 e il 1968

Finalmente il libro più importante del nuovo marxismo italiano che passa sotto il nome di operaismo - Operai e capitale pubblicato da Einaudi esattamente cinquanta anni fa - viene tradotto e pubblicato in francese e in spagnolo, mentre manca ancora una traduzione inglese di questa opera fondamentale. E’ l’occasione per valutare l’importanza dell’innovazione metodologica implicita in quel libro e poi dispiegata nella pratica teorica dell’operaismo italiano. Ma è anche il momento di misurare la distanza di quel testo e da quel movimento teorico rispetto all’attuale realtà della lotta di classe.

L’operaismo italiano ha offerto un metodo utile per interpretare i processi di ricomposizione sociale nell’epoca operaia, ma per comprendere il tempo presente occorrono strumenti analitici più raffinati e complessi, che sfuggono all’operaismo italiano come sfuggono al post-strutturalismo francese.

Mentre a mio parere il metodo analitico trontiano, basato su un rovesciamento del rapporto tra composizione della soggettività sociale e sviluppo del capitale, continua a essere indispensabile per una comprensione dei processi profondi della trasformazione produttiva e politica, sul piano dei contenuti l’operaismo non ha più molto da dire già dal 1968, anno di cui Tronti mostra ancor oggi di non aver capito la sostanza. In un libro pubblicato recentemente da Derive approdi col titolo Noi operaisti, Tronti scrive infatti che:

“(nel ’68) si trattava di conti interni al campo avverso: a chi la direzione della modernizzazione. Le vecchie classi dirigenti dell’epoca delle guerre civili mondiali erano esaurite, premevano per salire alla ribalta le nuove classi dirigenti per la futura mondializzazione capitalistica.” ( Noi operaisti, pag. 59).

Ridurre il movimento degli studenti a lotta interna alla borghesia per il governo della modernizzazione, come fa Tronti, significa non aver capito il fenomeno più importante degli ultimi decenni, cioè l’emergere del lavoro cognitivo come nuova forza produttiva generale. Identificare gli studenti come “nuove classi dirigenti” significa impedirsi la comprensione della produzione reticolare contemporanea e quindi non vedere le possibili linee di trasformazione futura.

Il primo principio metodologico del neo-marxismo operaista è l’affermazione materialista di una radicale immanenza del divenire possibile della società. Tutto ciò che può svolgersi nel futuro (il possibile) è scritto in forma di tendenza nell’attuale composizione della società. Questo principio va sottratto a ogni interpretazione deterministica. La composizione sociale presente contiene tutti gli elementi – flussi, solventi, coagulanti – dalla cui decomposizione e ricomposizione emergeranno le forme dei mondi a venire, ma questo non implica che le linee di evoluzione siano prestabilite. Il presente contiene la tendenza, e la tendenza è il possibile - ma nella forma del presente vi è anche il viluppo degli ostacoli delle resistenze e delle trappole che possono impedire al possibile di dispiegarsi, o distorcerne il dispiegamento fino a trasformarlo nel contrario di quel che era legittimo aspettarsi.

Il secondo principio metodologico è quello della priorità logica e cronologica del movimento rispetto alla struttura (precessione del soggettivo). La struttura, ad esempio la forma tecnica del processo lavorativo, non è la causa del processo, bensì la provvisoria fissazione della dinamica processuale: la forma tecnica ed economica che il capitale assume va considerata come una risposta, provvisoria e dinamica, ai sommovimenti che avvengono nella composizione del sociale, una risposta alle lotte e ai sabotaggi dei lavoratori contro lo sfruttamento.

Quando poi si giunge alla questione del comunismo, l’operaismo italiano si rivela un ferro vecchio e un ostacolo alla immaginazione del possibile.

Guardando al passato novecentesco Tronti afferma che “La sconfitta operaia è stata una tragedia per la civiltà umana” (85). Solo partendo dalla profondità di quella sconfitta che trascina con sé non solo la prospettiva socialista ma il destino stesso dell’Umanesimo moderno è possibile guardare con realismo al tempo che ci aspetta.

Ma per prima cosa dovremmo capire quali dinamiche obiettive e quali scelte politiche hanno provocato la sconfitta operaia nel ventesimo secolo.

Tronti risponde che questa avvenne perché “gli operai non ce l’hanno fatta a farsi stato.”

Io penso che sia vero l’esatto contrario. E’ chiaro che si tratta di interrogarsi di nuovo sulla rivoluzione sovietica, un secolo dopo. La interpretazione leninista del pensiero di Marx - una vera e propria distorsione, in effetti - cambiò per sempre la prospettiva in cui la lotta di classe si svolse nei decenni successivi.

Proprio perché il leninismo ha indotto gli operai a farsi stato – immobilizzando la dinamica sociale in una struttura pachidermica e sottomettendo i movimenti degli operai di tutto il mondo al compito di difendere uno stato autoritario e una società statica, il comunismo si è trasformato in un incubo totalitario. Il Comunismo storico è stato la tomba del comunismo possibile che viveva come tendenza nella composizione sociale del lavoro operaio e soprattutto dell’intelletto generale in formazione.

Nel libro La politica al tramonto, parlando di paradosso della rivoluzione in occidente, Tronti scriveva qualche anno fa: “avevamo ragione noi giovani intellettuali comunisti a stare dalla parte degli insorti ungheresi, ma non aveva torto la ragion di stato socialista a chiudere la partita con i carri armati.”

Il leninismo inquina il pensiero di Tronti e in generale degli operaisti italiani e alla fine agisce come la pietra al collo con cui quella generazione si inabissa nel passato novecentesco e si impedisce la possibilità di pensare il secolo nuovo.

Il comunismo ha distrutto il futuro degli operai quando si è fatto partito leninista e quindi stato. La violenza del soggettivismo bolscevico ha costretto la ricchezza e le potenzialità del movimento entro un progetto sconfitto in partenza. La rivoluzione in Occidente non avrebbe mai dovuto essere sottomessa alla ragion di Stato, e d’altra parte come si poteva pensare che il comunismo potesse esprimersi come processo felice ed esemplare nel paese di Dostoevskij? Ma al di là della particolare infelicità della psico-cultura russa, qualsiasi territorializzazione del processo era destinato a uccidere il comunismo possibile, trasformandolo in quel che esso è divenuto: l’impossibilità del comunismo.

Il problema di oggi si presenta in termini del tutto nuovi, e non ci sarà un’altra prova: la sconfitta degli operai consegna la potenza dell’intelletto generale (che i movimenti operai non hanno saputo orientare in maniera autonoma) al dominio neoliberale dinamico e de territorializzato del capitalismo.

Se una possibilità rimane essa è tutta consegnata alla capacità del lavoro cognitivo di trovare le strade di una ricomposizione sociale che permette all’intelletto generale di riscrivere gli automatismi tecnici che per il momento sembrano avere incatenato la società alla frenesia distruttiva del capitalismo.

Nella bibliografia di Tronti (e in generale dell’operaismo italiano) mancano Marshall McLuhan e Philip Dick. Per questo Tronti non capisce che il ’68, lungi dall’essere una lotta interna alla borghesia per il governo della modernizzazione è la rivolta dell’intelletto generale contro il dominio capitalistico e la ricerca di un’alleanza con gli operai che non riguarda la politica, ma la composizione sociale e tecnica del lavoro mentale. Proprio nel ’68 il leninismo si presentò per quel che era: un crimine contro l’umanità, non perché i carri armati a Praga fossero più assassini dei carri armati a Budapest o a Berlino o a Kronstadt, ma perché allora i carri armati sovietici schiacciarono (in nome della difesa del comunismo reale) il comunismo possibile del general intellect che si emancipa dal dominio capitalista per trasformarsi in forza di emancipazione della scienza e della tecnologia.

Di qui dobbiamo ripartire, per inventare il comunismo a partire dalla definitiva irreversibile sconforta del leninismo. Di qui dobbiamo ripartire, rileggendo Tronti perché ci ha consegnato un metodo di lettura del processo storico, ma dimenticando Tronti perché non ha saputo uscire dai limiti entro i quali ci ha rinchiuso il leninismo.

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