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linterferenza

Il Brexit della discordia

Fabrizio Marchi

L’esito del Brexit, come era prevedibile, ha portato ad una ulteriore radicalizzazione delle posizioni, anche e soprattutto nella Sinistra cosiddetta radicale e/o antagonista. Da una parte c’è chi lo interpreta come un rigurgito nazionalista, xenofobo e razzista, di fatto aderendo completamente alla lettura che ne dà il sistema politico mediatico dominante, ivi compresa, ovviamente la “sinistra” liberal (e anche “radical”) di governo. Dall’altra chi lo saluta invece entusiasticamente come un atto di rifiuto e di ribellione consapevole da parte di ampi settori popolari nei confronti dell’UE e delle sue politiche neoliberiste che potrebbe contribuire a riaprire una fase di conflittualità sociale.

La mia personale opinione è che la situazione sia ancora più complessa rispetto a queste due interpretazioni che peraltro contengono entrambe del vero.

Non c’è infatti alcun dubbio che il “Brexit” abbia raccolto il consenso di ampi strati sociali popolari e di lavoratori impoveriti dalle politiche neoliberiste e castiganti dell’Unione Europea a trazione tedesca. Non c’è però altrettanto dubbio sul fatto che questo legittimo risentimento, in assenza di forze di Sinistra autorevoli e rappresentative, sia stato e sia però prevalentemente egemonizzato da forze nazionaliste, “isolazioniste” (ma solo ideologicamente…), populiste e tendenzialmente xenofobe.

A fronte di ciò, un’analisi lucida dei fatti non può non tenere nel dovuto conto di entrambi questi aspetti. Sbaglia quindi, a mio parere, sia chi demonizza l’esito del referendum e sia chi lo celebra. Anche perché, nel resto dell’Europa, la situazione è sostanzialmente simile a quella d’oltre Manica. Esiste cioè un malessere crescente e diffuso da parte forse della maggioranza della popolazione nei confronti dell’UE e delle sue politiche liberiste, che verrebbe e viene comunque intercettato da forze nazionaliste e di destra, per le stesse ragioni per cui ciò avviene in Inghilterra, cioè per  l’assenza di una Sinistra credibile. Mi pare di poter dire con la sola eccezione della Grecia, laddove la volontà popolare di non cedere al ricatto della UE aveva trovato rappresentanza politica in Syriza, cioè una forza che potremmo definire  socialdemocratica, dopo di che sappiamo come sono andate a finire le cose, forse non casualmente, data appunto la natura reale di quel partito che lo lega indissolubilmente alle oligarchie economiche e politiche europee.

Ci sono però altre considerazioni da fare. La Gran Bretagna è sempre stata con il piede in due staffe, anzi, in più staffe. Una di queste, tutto sommato forse la meno importante, è proprio l’UE, ed è bene ricordare che la GB, da sempre gelosa della propria moneta, si rifiutò di aderire all’Euro nel 2002 e negoziò con l’UE il suo diritto al cosiddetto “opting-out”, cioè la possibilità di non adottare una determinata regola comunitaria laddove questa fosse ritenuta non utile agli interessi inglesi. In parole molto chiare, come spiega Marco D’Eramo su MicroMega,

quello tra Regno Unito e Comunità (poi Unione) europea è stato un sodalizio d’interesse, mai una storia d’amore. Un menage in cui uno dei due partner accetta di continuare a convivere solo a patto di deroghe sempre più ampie, esigendo che gli venga riconosciuto il diritto di tirarsi fuori da qualunque attività comune, il diritto di «ritagliarsi i propri spazi», come dicono i consulenti matrimoniali. Londra, insomma, ha adottato una concezione di «Europa alla carta», in cui scegliere il piatto che piace e rifiutare le voci sgradite del menu. E francamente, oltre a essere umilianti, queste relazioni asimmetriche finiscono sempre in un divorzio, più spesso acrimonioso1.

Un’altra considerazione, ancora più importante, è rappresentata dal rapporto privilegiato sia di natura economica e politica che militare, che da sempre ha caratterizzato la relazione fra l’Inghilterra e gli USA. Questi ultimi, dopo il crollo dell’URSS e del blocco socialista, non hanno interesse ad una Europa troppo robusta, coesa e soprattutto autonoma, sia economicamente che militarmente. Viceversa, hanno interesse ad una Europa divisa ma non troppo (l’Europa comunque non è l’Asia centrale e tanto meno il Medio Oriente che invece, secondo la strategia americana debbono essere frammentati in tanti stati e staterelli su base etnica e confessionale) docile e prona ai diktat di Washington e che non si faccia venire in mente strane idee relativamente a possibili accordi economici e commerciali, in specie sulle questioni energetiche, con la Russia o il blocco euroasiatico (a meno che non siano sotto l’egida di Washington). Per questa ragione, al di là delle esternazioni di Obama e soci prima della consultazione referendaria, una Gran Bretagna che esce formalmente dall’UE, mantenendo però la sua funzione di partner economico, commerciale e finanziario (nonchè militare, per il ruolo centrale che questa occupa all’interno della NATO) strategico, sia per l’UE che per gli USA, potrebbe non rappresentare un dramma, per usare un eufemismo, se non addirittura un’opportunità, anche per giocare su più fronti e su più tavoli.

Un’altra riflessione da fare, strettamente collegata a quest’ultima, è data dal rapporto con quella che gli analisti chiamano “Anglosfera”, cioè tutti quei paesi ex Commonwealth (Canada, Australia, Nuova Zelanda, più “protettorati” vari) che continuano a costituire un punto di riferimento fondamentale per la vecchia “madrepatria” (e viceversa), che da sempre si è sentita stretta, per tante ragioni di ordine economico, commerciale e geopolitico (e anche storico, culturale e geografico), all’interno dei confini europei, specie quando questi ultimi sono presidiati dagli eredi dei re di Prussia. Non che questi ultimi non abbiano bisogno della GB e soprattutto della potenza finanziaria della sua City, sia chiaro, però le oscillazioni e l’ambiguità della posizione inglese rischiano sul lungo periodo di essere destabilizzanti per la tenuta stessa dell’UE. Ecco, forse, spiegata l’insistenza con cui i superburocrati di Bruxelles spingono per una risoluzione rapida del rapporto con lo UK. L’esatto contrario di quanto avvenuto con la povera Grecia che doveva e deve continuare ad essere spremuta come un limone.

Certo, quest’area è oggi egemonizzata dagli USA ma, e proprio questa costituisce l’ultima (ma niente affatto per ultima…) stampella, è noto come il lupo perda il pelo ma mai il vizio. E non penso di fare chissà quale scoperta se affermo che la Gran Bretagna non ha mai rinunciato all’idea di tornare ad essere una grande potenza su scala mondiale in grado di agire autonomamente sia dal punto di vista politico-economico che da quello militare su tutti i diversi quadranti. Certo, questa ambizione rende sicuramente più problematico il rapporto con il suo grande alleato di sempre, cioè gli USA, ma in fondo anche questa alleanza in competizione fa inevitabilmente parte delle regole del gioco, potremmo dire, che da sempre contraddistinguono la “dialettica” fra le grandi potenze imperialiste, anche fra quelle amiche, e indubbiamente USA e UK lo sono. Del resto ci sono legami, come quello fra USA e GB, che per una serie di ragioni non solo economiche, politiche e militari, ma anche storiche e culturali, non potranno mai venir meno e che tutto sommato nessuno dei due ha interesse a sciogliere, anche e forse soprattutto in vista di un possibile mondo multipolare.

La Gran Bretagna, come dicevamo, oltre ad essere un mattone fondamentale della NATO, è anche legata da una serie di accordi militari con i paesi della suddetta “Anglosfera” che prevedono la cooperazione in ambito aereo, navale, di intelligence, di comunicazioni, tecnologico ecc. E non c’è alcun dubbio che da un punto di vista militare i cinque paesi di questa alleanza agiscano di comune accordo, come un’unica grande potenza militare unificata. E’ evidente come anche questo gioco di alleanze contribuisca in modo determinante a rafforzare la tendenza di Londra ad una maggiore autonomia e libertà di manovra rispetto a Bruxelles, a Berlino e a Parigi.

Per tutte queste ragioni che ho molto sinteticamente riportato, credo che il “leave” deciso dagli inglesi debba essere letto con le cautele del caso. Questo non toglie, sia chiaro, che la classifica, come uso dire, si sia mossa, e anche di diversi punti. Un colpo inferto a questa UE è un evento da salutare comunque positivamente. Le perplessità e soprattutto le maggiori preoccupazioni, per ciò che mi riguarda, sono sulla inesistenza di una forza politica autenticamente di classe, di Sinistra e socialista capace di raccogliere il dissenso dei ceti sociali popolari e subalterni e di organizzarli.


Note
Un Brexit per il bene dell’Europa.

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