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Democrazia e conoscenza

di Paolo Di Remigio

I discorsi abituali sulla politica e sull’uomo riservano valore ai desideri e disprezzo alla realtà fattuale. I desideri danno origine a giudizi di valore; sembra così che i giudizi di valore, dopo essere stati distinti dai giudizi di fatto, abbiano la furbizia di predicarsi di se stessi, sembra che di essi si possa dire che valgono proprio perché sono giudizi intorno al valore. Ma una breve riflessione è sufficiente a vedere l’errore e a capire che le cose stanno al rovescio. I desideri sono la sfera irriflessa dell’io, la libertà allo stadio primitivo, potenziale. La realtà fattuale è l’altro dell’io, il giudizio che la concerne presuppone un io ben più forte, capace di accettarla e di affrontarla, una libertà dal significato ben più profondo. Così l’io che sopravvaluta i propri desideri fino a farne il proprio oggetto privilegiato, e in base ad essi disprezza la realtà fattuale, qualunque essa sia, confessa soltanto la propria mancanza di libertà.

Nella filosofia hegeliana la libertà è la sostanza dell’io, come la gravità lo è della materia: questa è il proprio tendere ad annullarsi in un centro ad essa estraneo, quella è essa stessa il centro verso cui si dirige. Questo essere centro di se stessa implica che la libertà – al contrario di quanto è presupposto da un pregiudizio comune – non è compatibile con le barriere. Non a caso il carcere è la rappresentazione della sua mancanza. Poiché però l’uomo è un essere finito, la libertà sembrerebbe essergli estranea ed attribuibile soltanto a Dio.

Sembra che la natura dell’uomo, come di ogni cosa finita, sia il anche suo carcere. Ma non è così. Infatti l’uomo può innanzitutto vivere infrangendo le barriere e realizzare una libertà in forma negativa; e in quanto la propria corporeità può rappresentare una barriera alla libertà, l’uomo può addirittura rinunciare alla vita. In questo primo senso la libertà consiste nell’impulso di morte che anima ogni audacia e che quando diventa dominante si traduce in fanatismo. Essa ha però anche un secondo significato, positivo, già contenuto in ogni atto conoscitivo. Infatti la libertà solo negativa, che sente se stessa soltanto come infrazione del limite, è vuota, soltanto formale: non avere nessun oggetto non significa essere liberi, perché il nulla dell’oggetto è, in un senso estremo, esso stesso oggetto e dunque limite. Che la libertà abbia necessità di un oggetto è una conseguenza del limitare opposto dal nulla. Il riempirsi con l’oggetto è dunque esplicitare la limitatezza già posta nello svuotarsi della volontà per la morte, è il manifestare che nello svuotarsi la libertà si riempie di nulla che le è estraneo. Così sembra però che si sia ritornati all’inizio, alla constatazione che la libertà sia estranea all’uomo. Non è così. L’aver iniziato dal nulla ha mostrato che la libertà deve essere considerata una forma di negatività. Come il soggetto perde la libertà volgendosi all‘oggetto, così la recupera se l‘oggetto si volge in soggetto. Ma la conoscenza è proprio questo: scoprire la soggettività nelle cose. In questa scoperta, che è insieme un riconoscere, la libertà acquisisce il suo significato più profondo, positivo tramite una doppia negatività. Giudizio di valore e giudizio di fatto, anziché essere in opposizione irriducibile, sono nel rapporto di domanda e risposta.

La positività della libertà non è originaria – anzi, essa nella sua originarietà è distruttiva; il suo è un essere risultante dalla mediazione del negativo. Questa difficoltà che le è insita, il fatto che la natura della libertà risulti dalla conoscenza anziché esserle presupposta, investe l’intero ambito in cui si realizza. Il rifugiarsi nel desiderio di tutti i discorsi politici nasce dal tremare di fronte alla mediazione, di fronte alla natura conoscitiva della libertà. Ogni discorso sulla libertà, dunque anche ogni discorso politico, che evita la mediazione e vuole restare nondimeno positivo, inizia del desiderio, ma invece di calarsi nelle cose per ritrovarvisi, fa del desiderio la cosa stessa e, di necessità, fa della cosa una parvenza che merita solo disprezzo; ma il pensiero è oggettivo solo come ritorno in sé dalla sua estraniazione nell’oggetto, come conoscenza, mai come nudo desiderio.

Ci si rappresenta la conoscenza come un inaridimento dell’esperienza e la si taccia di inutilità o di colpevole vanità. Questo disprezzo non è mai giustificato; anche nella sua concezione più empirica, che non si preoccupa della libertà come essenza dell’uomo, la conoscenza è riconosciuta come potere, ossia è la produzione dello strumento con cui il soggetto si sottrae al contatto logorante con l’oggetto e afferma la sua libertà rispetto al mondo delle cose. Il disprezzo della conoscenza nasce dal desiderio di attenersi alla propria immediatezza, dal desiderio di evitare il tormento di un’esperienza estraniante, quella dell’imparare; imparare, infatti, costringe l’io, che vorrebbe muoversi tra le sue immagini predilette come se fossero cose, ad assumere determinazioni dapprima aride, a ritornarvi di continuo fino a farle proprie, in altri termini a portarle con sé come cibi indigesti prima di poterle assimilare. Contro la disciplina dell’imparare con cui potrebbe accedere alla conoscenza e diventare oggettivo l’io regredisce alla magia. Magia è il presumere l’onnipotenza dell’io ineducato, professare l’onnipotenza del desiderio. Mai come in quest’epoca tecnologica è allettante la sua tentazione: la sproporzione tra la facilità della formula dello stregone e l’imponenza dell’evocato si riproduce intatta nella sproporzione tra il ‘clic’ del pulsante e l’effetto ottenuto.

I discorsi politici hanno da sempre caratteristiche magiche: sono il trionfo del desiderio incolto, incapace di intendere la natura conoscitiva della libertà, che dall’interesse più o meno consapevole salta direttamente alla sua realizzazione in prospettive epocali, perso nel gioco della casualità come lo è il successo di un filtro d’amore. Ciò che i demagoghi chiamano «generosità della gioventù» è in fondo questo muoversi in base a desideri, nel disprezzo della conoscenza. La sua immaturità è commossa in particolare dall’idea di democratica, perché profondamente magica è la funzione che le si attribuisce. Da una parte una democrazia deve conoscere e assicurare il bene comune, dall’altra deve determinarlo a partire dai desideri strettamente individuali; che i desideri di una maggioranza di individui abbiano accesso alla conoscenza del bene comune e delle scelte opportune per attuarlo è veramente pensiero magico.

Contro questa consapevolezza spesso ci si difende citando una frase di Churchill, che però finisce nella parte opposta alla soluzione del problema: se il problema di ogni aggregazione umana è come gli individui di cui è composta possano piegare i loro desideri alla conoscenza del bene comune, cioè adeguare la loro singolarità all’universalità così da realizzarla, quella frase presuppone che ogni governo sia cattivo, evidentemente rispetto ai governati, rispetto al loro desiderio individuale adulato come legittimo a priori. È proprio di tutto il liberalismo il feticismo del desiderio individuale e disconoscere che esso deve tramontare come tale e farsi conoscenza, che deve conciliarsi con l’universale. Solo in quanto è diventato conoscenza esso è libero ed elemento di un nesso di libertà, cioè della vita politica. La libertà stessa implica la conoscenza, ossia la liberazione dall’onnipotenza del desiderio, il rispetto dei diritti dell’oggetto. Già Montesquieu ha visto che la repubblica presuppone individui virtuosi, ossia individui non in preda ai propri desideri, ma abituati a riconoscere il proprio sé nella libertà universale, per i quali l’osservanza della legge non è un peso ma un vanto. La polis greca ha offerto un modello del genere. Essa fu spazzata via dal sorgere dell’autonomia individuale al tempo dei sofisti: Socrate fu l’esempio più nobile di questo individualismo; la grande filosofia greca è la comprensione di un mondo etico che si è già consegnato al passato; ormai, nessuna società più della nostra è lontana dall’eticità elementare della Grecia democratica.

Nel mondo moderno il desiderio individuale è preso come fonte della legittimità del potere; dunque solo la democrazia ha il crisma della legittimità. Poiché però il desiderio individuale non è mediato con l’universalità, la sua libertà è solo formale e consiste in una elezione di contenuti esterni o addirittura di individui; così, passate l’elezione durante la quale il formalismo della libera scelta è stato adulato fino al ridicolo, per ogni potere è facile mostrare che il desiderio non ha diritti rispetto all’oggettivo e può essere deluso – anzi, secondo l’art. 67 della Costituzione italiana, deve essere deluso, in quanto i rappresentanti degli elettori non rappresentano gli elettori nella loro individualità, ma come Nazione. Si tratta ora di stabilire se la Nazione, l’oggettivo sulla cui base deve essere deluso il desiderio e che riduce la rappresentanza democratica da fonte unica di legittimità a un elemento tra gli altri della legittimità costituzionale, sia determinabile in modo conoscitivo, dunque libero, oggettivo, oppure se i poteri statali spaccino per tale di nuovo dei desideri. In generale, quanto più i poteri traggono la loro legittimità dal rappresentare i desideri, cioè il non libero degli individui, tanto più determinano l’oggettivo in modo altrettanto non libero; poteri che hanno fatto appello all’individuale resteranno legati all’individualità nella loro azione, ossia, la loro universalità si manifesterà non nel potere di conoscere, ma nella disposizione a tener conto solo dei desideri più vicini all’universalità, cioè di quelli più influenti, sperando che in questi siano contenuti anche gli altri così da non incontrare ostacoli insormontabili alla loro azione, ma senza la forza di preoccuparsi se l’attuazione di questi desideri non porti con sé conseguenze severe o addirittura catastrofiche. L’incapacità di conoscere e attuare il bene comune ha peraltro una sua precisa manifestazione nella personalizzazione della politica, massima sotto i governi totalitari, nei quali la ferrea volontà, cioè il desiderio irrazionale, di Uno si arroga la magia della conoscenza e dell’azione efficace.

Viceversa, la capacità di determinare il bene comune, cioè di negare il desiderio perché dalle sue ceneri nasca la conoscenza, ha una precisa condizione – la sovranità dello Stato. Essa è negatività esterna, cioè individualità statale indipendente dalle altre individualità statali, e negatività interna, Costituzione, ossia l’architettonica del potere per cui esso acquisisce una propria individualità in cui le individualità immediate, desideranti, sono abbassate a membri ed elevate a cittadini. La sovranità statale è condizione necessaria del bene comune e della democrazia: soltanto se lo Stato assume individualità è spezzata la pretesa di onnipotenza dei desideri individuali che così possono aprirsi alla conoscenza; soltanto la sovranità trasforma dunque il desiderio in conoscenza; senza sovranità statale non c’è libertà pubblica, ma dispotismo del desiderio più forte e non per questo meno cieco, appena mascherato a scadenza periodica da una democrazia solo formale.

Tutto questo ci dà la misura della profonda abiezione in cui versa lo Stato italiano. Stordito da un cosmopolitismo posticcio, esso rinuncia alla propria sovranità esterna prestandosi ad ogni sorta di vassallaggio verso gli altri Stati; vanifica la propria architettura costituzionale permettendo il costituirsi dell’indipendenza del potere finanziario, la sfigura accettandone i suggerimenti. Non è un caso che i suoi governanti parlino soltanto di desideri e si aspettino che una magia rovesci le conseguenze catastrofiche delle loro scelte; non è un caso che il linguaggio dei suoi intellettuali si allontani sempre più da una realtà su cui nessun altro ormai si fa più illusioni.

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