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GB: Corbyn si riprende il Labour

di Michele Paris

Alla guida del “Labour” britannico è stato confermato come previsto l’attuale leader, Jeremy Corbyn, grazie al vasto consenso ottenuto tra iscritti e “simpatizzanti” del partito che hanno avuto la possibilità di partecipare al voto nelle scorse settimane. L’esito della consultazione rappresenta una nuova umiliazione per la maggioranza dei parlamentari Laburisti e dei vertici del partito stesso, i cui sforzi in atto da dodici mesi per rovesciare la leadership di Corbyn sono stati correttamente percepiti dalla base come un vero e proprio golpe pianificato da una destra “blairita” con ben poco seguito nel paese.

Mesi di cospirazioni, propaganda, accuse al limite del ridicolo alla leadership del partito hanno anzi probabilmente contribuito ad ampliare il consenso per Corbyn e la sua agenda progressista tra coloro che hanno votato. Il membro della Camera dei Comuni per la circoscrizione londinese di Islington North ha vinto con una percentuale addirittura superiore (61,8%) rispetto a quella del voto tenuto nel settembre del 2015 (59,5%).

In questi mesi, Corbyn e i suoi fedelissimi sono stati al centro di una campagna di discredito senza precedenti. A guidarla, come già anticipato, è una destra del partito che vede con orrore anche una minima deviazione dalle posizioni virtualmente indistinguibili da quelle dei Conservatori, sia sul fronte domestico che internazionale, promosse dall’ex primo ministro Tony Blair negli anni Novanta e proseguite dai suoi successori alla guida del Labour.

Che la linea politica di quello che era stato ribattezzato informalmente come il “New Labour” fosse diventata rapidamente impopolare era apparso evidente non solo dalle sconfitte nelle elezioni generali del 2010 e del 2015, ma anche dalla netta vittoria di Corbyn nella sfida interna per la leadership del partito dello scorso anno.

Malgrado ciò, i tentativi di dare la spallata a Corbyn si sono intensificati e il referendum dello scorso mese di giugno per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (“Brexit”) ha fornito l’occasione per il lancio di una campagna ufficiale per il cambio al vertice del partito. La giustificazione per la necessità di liquidare Corbyn era il suo presunto scarso impegno nel convincere gli elettori a scegliere la permanenza di Londra nell’UE.

Poco dopo il voto era così iniziata un’autentica rivolta nel partito, con le dimissioni di massa di numerosi “ministri-ombra” ostili a Corbyn, mentre un voto di sfiducia interno al Labour aveva ottenuto l’appoggio della larga maggioranza dei parlamentari del partito. L’auspicio di questi ultimi era quello di costringere il segretario alle dimissioni, in modo da evitare una nuova consultazione tra elettori e sostenitori Laburisti che, com’è apparso chiaro lo scorso fine settimana, non avrebbe che confermato la popolarità di Corbyn.

Quando il numero uno del partito ha mostrato di volere rimanere al suo posto, forte del sostegno tra gli elettori del partito e i principali sindacati, l’ala “blairita” del Labour ha provato da un lato a cambiare le regole del voto per la leadership e dall’altro a escludere il maggior numero possibile di nuovi iscritti dall’elenco degli aventi diritto, lanciando una caccia alle streghe dai contorni spesso grotteschi.

Ad esempio, il diritto di scegliere il leader del partito era stato negato arbitrariamente a quanti avevano aderito al Labour solo negli ultimi mesi. Inoltre, per i simpatizzanti non iscritti la quota richiesta per partecipare al voto era stata alzata dalle 3 sterline dello scorso anno a 25, da versare oltretutto in una finestra di tempo molto ristretta.

Parallelamente a ciò, un’unità del partito addetta alla verifica del rispetto dei principi del Labour da parte dei suoi sostenitori e iscritti, aveva iniziato una verifica da regime stalinista delle opinioni espresse e dell’eventuale precedente appartenenza ad altri partiti o movimenti di coloro che avrebbero votato per la leadership. Tutte queste manovre sono culminate in una purga che ha alla fine escluso dal voto centinaia di migliaia di potenziali elettori Laburisti, in grandissima parte avvicinatisi al partito proprio per sostenere Jeremy Corbyn.

Un ultimo disperato tentativo per impedire a quest’ultimo di confermare il successo dello scorso anno era stato fatto dagli appartenenti alla destra del partito dirottando il loro sostegno verso un candidato alla leadership non troppo compromesso con Tony Blair. La sfidante annunciata di Corbyn, la fedelissima dell’ex primo ministro Angela Eagle, si era così fatta da parte per lasciare strada a Owen Smith, presentato come una versione più “soft” dell’attuale numero uno del partito. Anche questa strategia non ha però funzionato e Smith ha raccolto appena il 38,2% dei consensi.

Il secondo voto per la leadership del Labour chiusosi con la sonora vittoria di Jeremy Corbyn non ha comunque convinto gli appartenenti alla destra del partito a mettere da parte le trame golpiste e a rispettare il volere degli elettori a cui dovrebbero teoricamente fare riferimento. Al contrario, le reazioni al voto indicano piuttosto una volontà di intensificare gli sforzi per raggiungere lo stesso obiettivo, sia pure in maniera meno aperta.

Molti giornali “mainstream” in Gran Bretagna hanno inoltre discusso nei giorni scorsi sul futuro del Labour e delle modalità con cui gli oppositori di Corbyn dovrebbero muoversi per tornare a impadronirsi del partito. L’Economist, ad esempio, ha ipotizzato la necessità di una scissione in futuro, non prima però di un nuovo tentativo per lanciare un’altra sfida alla leadership, sfruttando magari “l’inevitabile” risultato negativo che i Laburisti dovrebbero incassare nelle elezioni amministrative del 2017 o del 2018, se non nel voto anticipato a livello nazionale che il premier Theresa May potrebbe indire.

Anche testate teoricamente di orientamento progressista, come l’Independent e il Guardian, hanno dato spazio a editoriali e commenti anti-Corbyn, coerentemente con la linea che avevano tenuto nei mesi scorsi. Il primo ha avvertito che lo spostamento a sinistra del Labour con l’attuale leader porta il principale partito di opposizione britannico “sempre più lontano dal potere”. Il secondo, nell’edizione domenicale dell’Observer, ha citato un piano d’azione redatto da Tom Baldwin, già consigliere strategico dell’ex leader Laburista, Ed Miliband.

Secondo questo documento, il nuovo “governo-ombra” Laburista dovrebbe essere composto da una maggioranza di parlamentari ostili a Corbyn, in modo da garantire che le politiche del partito non vengano troppo influenzate dagli orientamenti della leadership. Attorno a questo nucleo si dovrebbe poi formare un’agenda alternativa a quella di Corbyn e, evidentemente, a quella ufficiale del partito, improntata al perseguimento di politiche di destra su cui basare un eventuale nuovo movimento.

Intanto, poco prima della proclamazione del vincitore nella giornata di sabato a Liverpool, gli oppositori di Corbyn avevano tentato un colpo di mano, fallito di misura, all’interno del cosiddetto Comitato Esecutivo Nazionale Laburista. In una riunione di settimana scorsa, il numero due del partito, Tom Watson, aveva proposto di ristabilire le modalità di selezione della leadership in vigore fino ai cambiamenti voluti da Ed Miliband nel 2011.

La facoltà di scegliere il numero uno del partito dovrebbe essere cioè assegnata ai parlamentari Laburisti, ai sindacati e agli iscritti. Il peso del loro voto inciderebbe di un terzo ciascuno sul risultato finale. Ciò escluderebbe i simpatizzanti del partito che hanno mostrato di favorire nettamente Jeremy Corbyn. L’altra proposta-chiave di Watson era stata quella di sottrarre al leader del partito la nomina dei “ministri-ombra”, i quali dovrebbero essere invece votati dai parlamentari Laburisti. In questo modo, il prossimo “governo-ombra” avrebbe avuto una solida maggioranza anti-Corbyn.

Come già detto, queste e altre proposte sono state respinte, ma Corbyn ha acconsentito a discuterle nuovamente nel prossimo futuro, anche se per allora due membri del Comitato Esecutivo saranno sostituiti da altrettanti vicini al leader del partito.

Corbyn, da parte sua, ha risposto alla vittoria schiacciante sul rivale, Owen Smith, con lo stesso atteggiamento che lo aveva contraddistinto in campagna elettorale e nei mesi precedenti, segnati dai continui assalti interni alla sua leadership.

Il numero uno Laburista ha infatti continuato a parlare di unità all’interno del partito, manifestando l’intenzione di ristabilire la “fiducia” tra la leadership e i suoi oppositori. Questi ultimi non avranno inoltre “nulla da temere”, in quanto non verranno automaticamente esclusi dal prossimo “governo-ombra” né “deselezionati” dalla lista dei candidati al parlamento di Londra in occasione del prossimo appuntamento con le urne.

L’atteggiamento irriducibilmente conciliante di Corbyn verso la destra del suo partito stride fortemente con la risolutezza con cui i membri del Labour che ne fanno parte hanno cercato e continuano a cercare di liquidarlo. Questa strategia non può che essere perdente, dal momento che, invece di spegnere l’opposizione interna, finisce per alimentarla, come si è visto in questi mesi.

Inoltre, le continue aperture di Corbyn alla galassia “blairita” neutralizzano inevitabilmente la sua agenda, già non esattamente rivoluzionaria, e ancorano il Labour alle politiche liberiste che lo hanno caratterizzato negli ultimi decenni. Il risultato di questa scelta sarà quello di allontanare dal partito quanti si sono riavvicinati nell’ultimo anno, intravedendo in Corbyn l’illusione di un esile spiraglio di cambiamento.

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