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asimmetrie

Inaudito! C’è un dibattito sull’euro anche a sinistra

di Alberto Bagnai

La settimana scorsa è accaduto l’inaspettato: nello schieramento progressista si è finalmente aperto un dibattito sull’euro. Lo ha promosso involontariamente Giorgio Lunghini, scrivendo per Il Manifesto un pezzo nel più puro stile catastrofista, quello a cui ci hanno abituato, negli ultimi anni, gli economisti Giannino e Barisoni, prima di avere un problema più urgente di cui occuparsi: il dissesto del gruppo editoriale per il quale lavorano. Sospetta è questa corrispondenza di amorosi sensi fra intellettuali di sinistra e opinionisti organici al capitale, che pure si era manifestata in passato, passando per lo più sotto silenzio. Ma a settembre 2016, è ormai chiaro quanto preconizzavo su queste colonne il 25 giugno scorso parlando di Brexit: certi scenari apocalittici sono destinati a rivelarsi infondati, screditando la scienza economica. Forse per questo sei economisti (Cesaratto, D’Antoni, Giacché, Nuti, Pini e Stirati), con una scelta coraggiosa, hanno replicato dati alla mano per chiarire la totale infondatezza dello scenario di Lunghini, secondo cui l’uscita dell’Italia dall’euro causerebbe un crollo del Pil superiore a quello determinato dal Secondo conflitto mondiale. Si è aggiunto al dibattito Carlo Clericetti, chiedendosi nel suo blog Soldi e potere perché un economista autorevole sia intervenuto “sparando cifre a casaccio”.

In realtà le cose stanno un po’ peggio di così. Il 6 settembre 2011, l’Unione Banche Svizzere (Ubs) emise un documento su “Le conseguenze della rottura dell’euro”.

Privi di comprovata esperienza di ricerca, i tre autori asserivano che l’uscita dall’euro sarebbe costata agli abitanti di un Paese in crisi fra i 9.500 e gli 11.500 euro a testa nel primo anno. Dato che nel 2010 il Pil pro capite degli italiani era di 27.583 euro (nel 2015 è sceso a 26.915), gli 11.500 euro di perdita millantati corrispondevano al 40% di recessione “nel primo anno” di cui parla Lunghini. Lo scopo di questo affresco a tinte fosche si palesava nell’ultima frase: “L’unico modo per garantirsi dal rischio di rottura dell’euro è non investire i propri risparmi in euro”. Tradotto: sarà un disastro, quindi portate i soldi in Svizzera, magari all’Ubs. I tre, insomma, erano in plateale conflitto di interessi e il loro sedicente studio era semplicemente pubblicità, peraltro inefficace: poco dopo infatti l’Ubs dovette licenziare 10 mila dipendenti…

Nel frattempo, però, questo documento era diventato la bibbia di Squinzi. Il presidente di Confindustria lo citava a spron battuto, direttamente, o per interposto opinionista, mostrando un certo sprezzo del pericolo: i licenziamenti Ubs avevano già dimostrato come in economia improvvisare porti sfortuna, e la vicenda del Sole 24 Ore oggi lo conferma. Da anni cerco di far riflettere (anche) la sinistra su un dato incontrovertibile, quello che Stiglitz buon ultimo illustra nel suo libro, e che Peter Gomez ha espresso lunedì scorso a Coffee Break in termini lapidari: “Non potendo più svalutare la moneta, si svaluta il lavoro”.Come ammette la stessa Commissione europea (nel rapporto “Occupazione e sviluppo sociale in Europa” del 2013), la svalutazione interna, cioè il taglio dei salari, scelta che la rigidità del cambio rende obbligata, è causa prossima dell’aumento di disoccupazione e disuguaglianza: due cose non proprio “di sinistra”. Ora che l’esile fiammella di un dibattito si è accesa, non è certo mio interesse estinguerla con un
secchio d’acqua gelata. Tuttavia, registro con sconforto come i progressisti abbiano smarrito la nozione di materialismo storico.

Un economista che, come Lunghini, si richiama al pensiero classico e marxista, nel momento in cui usa gli argomenti di uno Squinzi, prima ancora di chiedersi se sono corretti, dovrebbe chiedersi quali interessi stia difendendo. Come fa Lunghini a non vedere il conflitto d’interessi del dépliant a cui si ispira? E come fa a credere che gli interessi di Confindustria, della quale ricalca gli “argomenti”, coincidano con quelli dei lavoratori? Chi, come Squinzi o Lunghini, paventa inflazioni a due cifre, se vuole apparire credibile deve spiegarci perché, a fronte di una svalutazione dell’euro pari al 20% fra 2014 e 2015, oggi siamo in deflazione. Nei miei testi questo paradosso è spiegato. Agitare lo spauracchio dell’inflazione ha effetti politici devastanti: suggerisce l’idea che la migliore tutela del potere d’acquisto dei lavoratori non venga da un sindacato che difenda questi ultimi, ma da una Banca centrale indipendente (da chi?) che controlli i prezzi. Eppure, oggi dovrebbe essere facile rendersi conto del fatto che la fittizia indipendenza della banca centrale sancisce la definitiva chiusura di qualsiasi spazio di democrazia: non basta l’esempio della Grecia?

Ed è ormai chiaro che l’inflazione non si controlla lesinando la moneta, ma lasciando la gente a casa. Si chiama esercito industriale di riserva, e Lunghini lo ha sicuramente incontrato, sui libri. Dubito però che lo abbia incontrato di persona: la sua richiesta di chiarirgli i vantaggi di un’uscita dall’euro dimostra infatti che lui, come del resto chi scrive, rientra fra chi non è stato ancora lambito dagli svantaggi dell’entrata. Tanto meglio, ma ora, forse, ci conviene cominciare a ragionare serenamente sugli scenari che ci attendono. Teoria e fatti dimostrano che nessuno è al riparo. Dopo, sarà tardi.

Comments

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Claudio
Monday, 17 October 2016 16:36
Non sono un economista e nemmeno una persona così ben infornata come lei. su quanto hanno sostenuto i vari Squinzi, Giannino e Barisoni, ma da semplice autodidatta semianalfabeta quale sono mi risulta che i salari si siano storicamente contratti non soltanto in Italia e negli altri paesi mediterranei, che non hanno una vera banca centrale nazionale che può svalutare a piacimento la propria moneta, ma in tutto il mondo occidentale, Usa compresi. Quindi ciò non può essere imputato al fatto che “non potendo più svalutare la moneta, si svaluta il lavoro”, ma a ben altro, che provo sommessamente ad illustrarglielo. A mio modestissimo parere, infatti, ciò è dovuto al fatto che la grande finanza globale, che nell'attuale sistema neoliberista detiene il potere reale, a causa sia della insuperabile crisi economico/finanziaria nonché del fatto che non essendo più in grado di aggirare "la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto", come ha fatto in questi ultimi decenni, attraverso varie altre "cause antagonistiche", cioè attraverso l'innalzamento del grado di sfruttamento della forza-lavoro, la diminuzione del prezzo degli elementi del capitale costante, lo spostamento delle produzioni nei paesi in cui non ci sono da rispettare norme antinquinamento ed antinfortunistiche, non vigono sistemi assistenziali e previdenziali, dove cioè i lavoratori e l'intera società nazionale sono assai meno organizzati e, quindi, i capitalisti delle multinazionali hanno potuto beneficiare di spese per il capitale variabile molto più basse, ecc., il suo amato sistema non ha trovato di meglio che lanciare la guerra al salario a scala mondiale. E' tutto qui, poi ogni connivente con l'attuale sistema può trovare le scuse che vuole..
Per finire penso di poter concordare con lei quando afferma che il prof. Lunghini come lei e per fortuna nemmeno io, hanno provato di persona cosa significa appartenere all'esercito industriale di riserva, ma mi tolga una curiosità, non è che anela così tanto di poter uscire dal tanto vituperato euro per poter avvantaggiarsi nuovamente di un possibile doppio regime di cambio euro/liretta?
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