Print Friendly, PDF & Email

il rasoio di occam

Banalità di Heidegger

di Jean-Luc Nancy

Come è ampiamente noto, negli ultimi anni si è riaccesa, in concomitanza con la pubblicazione dei suoi "Quaderni neri", la discussione sulla valenza politica della filosofia di Heidegger. Sulla questione è da poco intervenuto anche Jean-Luc Nancy in "Banalità di Heidegger", recentemente tradotto in italiano per Cronopio. Ringraziamo la casa editrice per averci concesso di pubblicarne un estratto

Heidegger avrebbe potuto interrogarsi sulle ragioni e sulla provenienza dell’antisemitismo. Non lo fa. Accoglie come un dato del destino occidentale la banalità che ormai è diventata il discorso carico d’odio e pesantemente grottesco dei Protocolli. Lui che è così bravo a rintracciare le provenienze, che si tratti di quelle della lingua greca o della devastazione moderna (tecnica, democratica, calcolatrice), non si chiede mai da dove provenga l’antisemitismo. È un dato, come abbiamo visto, è una “delle figure più antiche”… (e sebbene tale “figura” non sia biologica, essa ha tuttavia, in assenza di ogni altra analisi, una sorta di andatura “naturale”…).

Era però – ed è ancora – il caso di domandarsi come mai l’ampio consenso moderno – americano-bolscevico, tecno-democratico e soprattutto anglo-franco-europeo – comporti come figura significativa e come protagonista quell’elemento ebraico che tutti gli altri si adoperano già da tempo a coprire di ignominia. Già soltanto questa circostanza meriterebbe un momento di sosta da parte di chi dipinge con tali tratti l’immagine della devastazione. Non soltanto tale devastazione è un’autodistruzione, ma questa autodistruzione corrisponde alle tendenze e ai disegni di un’entità/identità che appartiene a tutta la storia dell’Occidente e che, nello stesso tempo, costituisce un’eccezione detestabile al suo interno. Questa eccezione ha due aspetti: lo Judentum è un’eccezione perché porta la distruzione dell’Occidente – in questo senso esso è l’eccezione dell’odio di sé – ma nell’odio di sé esso è anche l’eccezione di un’intrusione estranea. Forse l’odio di sé comporta necessariamente un’intrusione e una lacerazione della e/o nella propria interiorità. E comunque occorre poter presupporre tale interiorità, per esempio in quanto “greca” (così come occorre presupporre un “soggetto” per pensare un qualunque rapporto con “sé”). Anche qui si apre un’interrogazione di cui non posso che indicare il principio.

Perché Heidegger non s’impegna in alcun modo nell’analisi dell’odio di sé e dell’odio nei confronti degli ebrei? Conosceva il libro di Theodor Lessing apparso nel 1930 – Der jüdische Selbsthaß (L’odio di sé ebraico)1 – la cui ricezione movimentata fece tuttavia un certo scalpore? Non vi si poteva leggere che l’odio di sé ebraico (l’antisemitismo incarnato da alcuni ebrei, come Husserl2) esprime la profondità che quell’odio può raggiungere: la profondità dell’identità o dell’essere-sé, perché è proprio fino a questo punto che conduce la repulsione antisemita. L’insieme dell’Europa (dell’Occidente), posto nella sua auto-affermazione (Selbstbehauptung, un termine che in Heidegger serve a denunciare la presunzione occidentale o a celebrare l’affermazione che si è decisa in vista del nuovo), ripudia al suo interno un corpo estraneo che lo minaccia proprio per il fatto che disperde, dissolve o dissimula il suo “sé”. Dispersione, dissoluzione e dissimulazione di sé: è in questo che consiste in definitiva la specificità ebraica.

Con o senza Theodor Lessing, Heidegger avrebbe potuto benissimo andare più avanti in una riflessione di quest’ordine. Non scrive forse: “L’automeditazione (Selbstbesinnung – si potrebbe anche tradurre il raccoglimento di sé, su di sé, in sé) propria dell’incipiente epoca del passaggio dal primo inizio all’altro inizio è unica nel suo genere – perché la conquista di sé (Selbst-gewinnung) che qui va preparata deve divenire forte abbastanza per rinunciare a ciò che è solito e a ciò che è invalso finora”3. Dopotutto una tale formula è solo banale, in un contesto – anch’esso banale, tanto banale quanto l’antisemitismo – di rinnovamento spirituale. Ma essa acquista un particolare rilievo se ci si domanda quale sia, o meglio chi sia, chi possa essere questo “sé”, di cui si deve coraggiosamente saper abbandonare tutto ciò che è corrente e abituale. Giacché o il nuovo “sé” deve essere completamente originale o deve essere il frutto della propria metamorfosi con rinuncia, sacrificio e riforma.

Ora tutto quello a cui bisognerà rinunciare (come mostra il seguito del testo) non è altro, ovviamente, che quello di cui gli ebrei sono gli agenti e l’incarnazione. Fin dove bisognerà allora respingere, ripudiare o sacrificare gli ebrei? Se non altro, bisognerà inevitabilmente respingerli in quanto “ebrei”, cioè prendersela con l’Ebreo “in sé” (il calcolatore per eccellenza). L’Ebreo in sé nei due sensi dell’espressione: quello che si riconosce nello Judentum e quello che qualunque occidentale non ancora capace di aprirsi al nuovo inizio porta necessariamente in sé. In ogni caso occorrerà sacrificarlo4, oppure occorrerà che “si escluda da sé”, come abbiamo visto, cosa che vuol forse dire che ogni forma di soppressione degli ebrei o di auto-soppressione dell’Occidente (della devastazione) equivale a rinunciare “a ciò che è solito e a ciò che è invalso finora” nel lungo errore e/o erranza dell’Occidente5. Ma non è forse la conversione degli ebrei ciò che l’antisemitismo più civile – quello di Kant per esempio – ha sempre richiesto, e una conversione non è forse la rinuncia all’“uomo vecchio”6? Il tema dell’“uomo nuovo” è d’altronde strettamente legato a quello del (ri)cominciamento.

La sorte che occorre cercare o sperare per l’Ebreo privo di suolo, di storia, di popolo e di ogni altra identità che non sia quella del calcolo distruttore, non può comunque che essere una forma di esclusione, di espulsione. L’invio di Seyn verso un nuovo inizio del suo Geschehen – l’invio al suo invio rinnovato, ripreso, che supera se stesso distruggendo la distruzione che il suo oblio ha intrapreso (il proprio oblio, l’oblio di sé che ha aperto con sé) – questo invio esige di farla finita con tutto ciò che fomenta la macchinazione della fine: l’Occidente, la metafisica dell’ente, il senza-storia, il senza-suolo e il senza-popolo. Di farla finita quindi innanzitutto con quel popolo del senza-popolo, con quell’entità/identità che gioca contro e con i nazisti il gioco fallace della razza, cioè di una natura7, proprio dove non deve trattarsi che di Seyn.

La mobilitazione dell’antisemitismo acquista tutto il suo senso e tutta la sua portata – autenticamente “storico-universale” – dal momento in cui diventa chiaro che l’Ebreo è la figura più antica di un’autodistruzione dell’Occidente che ne costituisce la verità, in quanto avvento e destino dell’oblio del Seyn. Questo oblio appartiene anch’esso all’“autoposizione” dell’uomo8 che si pone e riposa su se stesso, facendosi così esecutore della macchinazione che procede anch’essa dall’intrico della metafisica dell’ente nel primo inizio. Questo intrico è anche quello della figura singolare dell’Ebreo nel mezzo di un Occidente interamente consegnato alle manipolazioni di quella figura che allo stesso tempo rifiuta (senza tuttavia conoscere veramente le ragioni di quel rifiuto che solo qui acquista la sua portata storica).


NOTE
1. Th. Lessing, L’odio di sé ebraico [1930], Mimesis, Milano 1995.
2. Secondo la testimonianza di Otto Weininger, in un documento presente negli archivi Theodor Lessing. Cfr. M.-S. Benoit, Theodor Lessing et le concept de “haine de soi juive”, in E. Benbassa e J.-C. Attias (a cura di), La haine de soi: difficiles identités, Complexe, Bruxelles 2000.
3. Heidegger, Überlegungen VI, in Gesamtausgabe, 94, cit., pp. 465-466; trad. it. p. 608.
4. Sul carattere sacrificale dello sterminio degli ebrei d’Europa, come pure sul ruolo del sacrificio in Heidegger e/o nella tradizione filosofica, si è molto scritto e dibattuto – soprattutto tra Lyotard, Derrida e Lacoue-Labarthe, ma anche fra vari altri autori di diversi paesi. Potrebbe essere l’oggetto di uno studio specifico.
5. Sul tema dell’errore e/o erranza – della Irre in quanto “lungo errore” di cui bisogna assumersi il rischio (si veda, per esempio, Überlegungen VI, in Gesamtausgabe, 94, cit., p. 508; trad. it. p. 664) o in quanto “errare in un paese di sogno” (ivi, p. 152; trad. it. p. 201) (tra i tanti esempi possibili del duplice significato di questo termine), bisognerebbe ritornare altrove intraprendendo una discussione con il libro di Peter Trawny su questa questione [P. Trawny, Irrnisfuge: Heideggers Anarchie, Matthes & Seitz, Berlin 2014].
6. Cfr. San Paolo, Lettera agli Efesini, IV, 20-24.
7. Nel senso che essa è diventata completamente “allevamento”, secondo un’espressione di Nietzsche citata nelle Überlegungen XIV, in Gesamtausgabe, 96, cit., p. 189.
8. Cfr. Überlegungen XIII, in Gesamtausgabe, 96, cit., p. 111

Add comment

Submit