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Bauman, addio all’osservatore critico del post-moderno

di Angelo d’Orsi

Era nato a Poznan, in Polonia, Zigmunt Bauman, nel 1925, e aveva attraversato il tempo di ferro e di fuoco dell’Europa fra le due guerre, tra nazismo, stalinismo, cattolicesimo oltranzista, antisemitismo: di origine ebraica, si era allontanato dalla sua terra, per sottrarsi proprio a una delle tante ondate di furore antiebraico, che da sempre la animano. Era stato comunista militante, poi allontanatosi dal marxismo canonico, influenzato da correnti eterodosse, senza mai però diventare anticomunista, e conservando un importante fondo storico-materialistico nel suo lavoro. Fondamentale in tal senso la sua “scoperta” di Gramsci, che lo aveva aiutato a leggere il mondo con occhi nuovi, rispetto alla vulgata marxista-leninista, ma anche, naturalmente, dalle scienze sociali accademiche angloamericane.

Aveva studiato Sociologia a Varsavia, con maestri come Ossowski, e, lasciata la Polonia, si era diretto prima in Israele, all’Università di Tel Aviv, per poi trasferirsi a Leeds, in Inghilterra dove insegnò fino al pensionamento Sociologia.

Sarebbe però riduttivo definirlo sociologo, sia per il tipo di sociologia da lui professata e praticata, poco accademica e nient’affatto canonica, sia per la vastità dello sguardo, la larghezza degli interessi, la molteplicità degli approcci. Filosofo, politologo, storico del tempo presente, questo studioso oltremodo prolifico (autore di una cinquantina di opere, nella sua lunga ed operosissima esistenza), fu influenzato anche da un certo cattolicesimo e così come dal comunismo, ne trasse spunti importanti per l’osservazione critica della contemporaneità.

Si era occupato in modo nient’affatto banale dell’Olocausto, messo in relazione alla modernità, in qualche modo riprendendo spunti di Horkheimer e Adorno, puntando il dito contro l’ingegneria sociale e il predominio della tecnica (in questo vicino a Jürgen Habermas),che uccide la morale, contro l’elefantiasi burocratica che schiaccia gli individui senza aumentare l’efficienza del sistema sociale. Aveva studiato la trasformazione degli intellettuali, passati da figure elevate, capaci di dettare l’agenda politica ai governanti, a meri tecnici amministratori del presente, al servizio del sistema. Fra i tanti meriti di questo pensatore scomparso ieri, nella città che aveva eletto a sua dimora, Leeds, voglio segnalare la sua capacità di descrivere gli esiti della forsennata corsa senza meta della società post-moderna, attraverso un’acutissima analisi del nostro mondo,un mondo in cui la globalizzazione delle ricchezze ha oscurato quella ben più mastodontica, gravissima, delle povertà.

Studiando "le conseguenze sulle persone" (come si legge nel sottotitolo di uno degli ultimi suoi libri, Dentro la globalizzazione), ridotte a “scarti”, residui superflui che vanno conservati soltanto fin tanto che possono esser consumatori, Bauman ha svelato il volto cupo e tragico dell’ultra-capitalismo, feroce espressione di creazione e gestione della disuguaglianza tra gli individui, dove all’arricchimento smodato dei pochi ha corrisposto il rapido, crescente impoverimento dei molti. Ci ha aiutato a guardare dietro lo specchio ammiccante del post-moderno, sotto la vernice lucente dell’asserito arricchimento generalizzato e universale, dietro lo slogan della “fine della storia”, ossia della proclamata nuova generale armonia tra Stati e gruppi sociali, era apparso l’altro volto della globalizzazione, ossia una terribile guerra dei ricchi ai poveri, ennesima manifestazione della lotta di classe dall’alto. Ha guardato, Bauman, alle Vite di scarto (altra sua opera), generate incessantemente dall’infernale “megamacchina” del “finanzcapitalismo” (richiamo con queste espressioni un altro grande scomparso, Luciano Gallino), o dalle assurdità crudeli del “capitalismo parassitario”, come Bauman lo ha chiamato. Quella che chiamava “omogeneizzazione” forzosa delle persone (un concetto che richiama la pasoliniana “omologazione”), era l’altro volto della società anomica, che distrugge legami, elimina connessioni, scioglie il senso stesso della convivenza.

Con una immensa produzione – volumi, saggi, articoli, conferenze, proseguita fino all’ultimo – è come se quest’uomo mite e affabile, avesse voluto tendere una mano a tutti coloro che dal processo di mostruosa produzione di denaro attraverso denaro, erano esclusi; quasi a voler “salvare”, con le sue parole, gli schiacciati dai potentati economici, a voler dar voce a quanti, in una Società sotto assedio (ancora un suo titolo), dominata dalla paura, dal rancore, dall’ostilità, vedevano e vedono le proprie vite disintegrate. I Danni collaterali (uno degli ultimi suoi libri), sono in realtà l’essenza di questa società, che egli ha definito, felicemente, “liquida”, con una trovata che è poi divenuta formula, ripetuta, un po’ stucchevolmente, negli ultimi anni, applicata a tutti gli ambiti del vivere in comune. Liquida è questa nostra società, che ha perso il senso della comunità, priva di collanti al di là del profitto e del consumo, una società il cui imperativo, posto in essere dai ricchi contro i poveri, dai potenti contro gli umili, è ridotto alla triade: “Produci/Consuma/Crepa”. Liquidi i rapporti umani, liquida la cultura, liquido tutto il nostro mondo, che sta crollando mentre noi fingiamo di non accorgercene.

Le opere di Bauman, che, per quanto fortunate editorialmente, sono state cibo per pochi, purtroppo, sono un tesoro cui attingere per comprendere le ingiustizie del tempo presente, denunciarle, e se possibile, combatterle. La sua scomparsa è una perdita grave per chi non si accontenta dell’esistente, per chi si rifiuta di credere alla favola bella del “progresso”. E il messaggio che ci affida è appunto di non smettere di scavare sotto la superficie luccicante del “mondo globale”, come ce lo raccontano media e intellettuali mainstream, che non solo hanno rinunciato al ruolo di “legislatori”, trasformandosi compiutamente in meri “interpreti”, ossia tecnici, ma sono diventati laudatores dei potenti.

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