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huffington post

Una sentenza politica per disinnescare i referendum

di Alfonso Gianni

Mai come nel caso della decisione della Corte Costituzionale di bocciare il referendum sull'articolo 18, sarebbe giusto dire che bisogna aspettare di leggere con attenzione le motivazioni della sentenza, quando essa sarà stesa e resa pubblica.

Per farsene o no una ragione. Non certo per quella sciocchezza che si sente dire per cui le sentenze si applicano e non si commentano. Le sentenze, comprese quelle della magistratura ordinaria, si commentano eccome, proprio perché volenti o nolenti si devono applicare. Ma perché la curiosità di sapere a quale appiglio motivazionale la maggioranza dei giudici della Corte si sono aggrappati per esprimere un simile diniego è davvero forte.

L'impressione, per usare un eufemismo, che ora si può avere, in assenza di queste motivazioni, è che si tratti di una sentenza squisitamente politica. Di una sentenza cioè ove le motivazioni di opportunità abbiano fatto ampiamente agio su quelle squisitamente giuridico-costituzionali. I precedenti che la Corte aveva davanti parlavano e tuttora parlano chiaro.

Il più recente che riguarda la stessa materia, l'articolo 18, risale al 2003. Allora i proponenti del referendum, fra i quali chi scrive, chiedevano l'estensione della tutela reale, ovvero del reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamenti illegittimi, in tutti i luoghi di lavoro, senza soglia alcuna.

Anche in quel caso la richiesta abrogativa faceva di necessità riferimento a norme contenute in più leggi: parti dell'art.18 dello Statuto del 1970, ma anche parti delle leggi n.108 del 1990 e n. 604 del 1966. Come è noto il referendum non raggiunse il quorum previsto, ricevendo comunque il consenso di oltre l'86% di coloro che andarono a votare.

Ma ciò che qui conta è che la Corte Costituzionale lo aveva ammesso con sentenza n. 41 del 2003, riconoscendo pienamente l'omogeneità, la chiarezza e l'univocità dei quesito, il cui impatto, se fosse stato approvato, sarebbe stato ben maggiore di quello bocciato ieri. La Corte allora dichiarò che "il referendum è rivolto in primo luogo all'estensione della garanzia reale contro i licenziamenti ingiustificati ai lavoratori che attualmente, in conseguenza dei limiti numerici (dei 15 dipendenti ndr), godono esclusivamente della garanzia obbligatoria" consistente nel pagamento di una indennità in denaro.

Come si vede la natura del quesito di allora era del tutto analoga a quello di adesso, con l'unica differenza che quello ora proposto dalla Cgil poneva una soglia di applicabilità che scattava sopra i cinque dipendenti, estendendo a tutti ciò che è in vigore per le aziende agricole. La portata innovativa di questo referendum bocciato è quindi inferiore di quello ammesso del 2003. E gli esempi potrebbero continuare, ricordando anche il quesito referendario parziale sull'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, concernente la rappresentanza sindacale dei lavoratori, che diede origine al referendum vincente del 1995.

Guardando gli esiti di quel referendum si vede che la nuova norma nasce per effetto di abrogazioni di pezzi dell'articolo 19. D'altro canto l'articolo 75 della nostra Costituzione, quella salvata con il voto del 4 dicembre, prevede appunto l'istituzione del "referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge".

È ovvio che qualunque abrogazione parziale comporti un intervento modificativo di leggi, o articoli o commi preesistenti, originando così una nuova normativa la quale deve essere immediatamente applicabile, pena la non ammissione del referendum stesso.

La domanda è allora, pur restando in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, perché due decisioni così diverse su materie identiche o analoghe? Che cosa è cambiato da allora a oggi? Non certo il diritto costituzionale. Certamente la composizione della Corte Costituzionale e il quadro politico entro il quale essa si muove.

Ieri l'Huffington titolava "Il lodo Amato allunga la legislatura", alludendo esplicitamente al fatto che è nota l'avversione al referendum di Giuliano Amato, in qualità di giudice della Corte Costituzionale (circostanza quest'ultima già di per sé piuttosto stravagante per un uomo di indubbia cultura giuridica, ma che ha ricoperto funzioni come quella di presidente del Consiglio che avrebbero dovuto sconsigliare la sua nomina nella Consulta).

In altri termini non è eccesso di malizia supporre che la Corte abbia fatto prevalere un orientamento politico per garantire che la mina dei referendum fosse disinnescata, in modo da permettere al governo e all'attuale parlamento (considerato eletto in modo illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale con sentenza 1/2014) di depotenziare l'appuntamento referendario e quindi eventualmente di potere proseguire la sua strada fino alla fine naturale della legislatura.

È un disegno mediocre, quanto contrario alla volontà popolare. Ma che si iscrive in quel tentativo di restaurazione e di rivincita contro il voto del 60% degli italiani che hanno bocciato la revisione costituzionale voluta da Renzi. Al contrario quel voto del 4 dicembre ha confermato la validità dell'istituto referendario in quanto tale, quale forma di democrazia diretta, e allo stesso tempo ha sottolineato la necessità che si faccia una nuova legge elettorale che permetta nel più breve tempo possibile di eleggere un parlamento costituzionalmente legittimato.

Sull'Italicum la Corte Costituzionale è convocata per il 24 di questo mese. Non possiamo che augurarci che ciò che guiderà le sue decisioni sia solo il rispetto delle norme costituzionali e non altro.

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