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Trump affonda il TPP

di Michele Paris

La decisione presa da Donald Trump di fare uscire gli Stati Uniti dalla cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP) appena tre giorni dopo il suo insediamento ufficiale alla Casa Bianca è il primo previsto atto volto a implementare un’agenda all’insegna del nazionalismo economico che dovrebbe teoricamente rilanciare il sistema America nei prossimi quattro anni.

Come la sua stessa elezione, la firma di Trump sul decreto che ha cancellato la presenza di Washington nell’accordo di libero scambio tra 12 paesi del continente asiatico e di quello americano ha gettato nel panico i governi che avrebbero dovuto farne parte, tutti costretti con ogni probabilità a fare i conti con l’aggravarsi delle tendenze protezioniste che la nuova amministrazione Repubblicana sembra prospettare per l’immediato futuro.

L’abbandono del TPP da parte di Washington era stato promesso da Trump già durante la campagna elettorale e, dopo l’inaugurazione di venerdì scorso, il neo-presidente ha messo in moto le procedure anche per rinegoziare il Trattato di Libero Scambio Nordamericano (NAFTA), ovvero lo strumento che da oltre due decenni regola i traffici commerciali tra USA, Canada e Messico.

Queste iniziative di Trump confermano l’intenzione del nuovo presidente, e di quella parte della classe dirigente americana che lo appoggia, di stravolgere le regole e i meccanismi che hanno disciplinato l’ordine capitalista internazionale dopo il secondo conflitto mondiale con il preciso scopo di evitare i conflitti, anche e soprattutto relativi all’ambito commerciale, esplosi negli anni Trenta.

Più che un trattato di libero scambio vero e proprio, il TPP avrebbe dovuto essere un mezzo per regolamentare i rapporti economici e commerciali tra un blocco di paesi che produce oltre il 40% del PIL globale secondo gli interessi del business americano. Esso avrebbe anche rappresentato un esempio per altri accordi con al centro gli Stati Uniti, primo fra tutti il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP) con l’Unione Europea.

La priorità degli interessi delle corporation americane, il prevalere di queste ultime sulla stessa sovranità dei singoli paesi, le trattative condotte in segreto, l’allentamento delle regolamentazioni imposte al capitale privato e l’erosione dei diritti dei cittadini sono tutti elementi che non possono che fare accogliere positivamente la probabile morte del TTP e, forse, anche del TTIP.

Tuttavia, le motivazioni della decisione di Trump non hanno nulla di progressista e il rimescolamento degli equilibri economici e commerciali che lascia intravedere la sua amministrazione, nel tentativo di rinvigorire il capitalismo americano, ha implicazioni preoccupanti. Da un lato, ciò rischia di peggiorare ulteriormente le differenze sociali in patria, visto che i presunti benefici per i lavoratori americani sono fumo negli occhi, mentre dall’altro conduce allo scontro diretto non solo con potenze rivali, come la Cina, ma virtualmente anche con alleati i cui interessi potrebbero finire per divergere in maniera drammatica da quelli degli USA, come ad esempio il Giappone.

D’altra parte, gli obiettivi principali dell’amministrazione Obama nella promozione del TPP non erano tanto di natura economica, bensì strategica, visto che esso serviva principalmente a consolidare la presenza americana in un’area esposta all’influenza di Pechino e a cercare quanto meno di limitare l’integrazione degli altri 11 paesi membri nel progetto di espansione cinese.

Il TPP doveva essere insomma lo strumento economico e commerciale della più ampia strategia di contenimento della Cina messa in atto dagli USA e che ha preso il nome corrente di “svolta” asiatica. A esso si sono accompagnate iniziative di natura diplomatica e militare rivolte ai tradizionali alleati americani in Estremo Oriente e agli altri paesi disposti ad approfondire i legami con Washington.

Questi obiettivi e, soprattutto, il confronto con la Cina, rimangono in cima all’agenda di Trump e verranno perciò perseguiti con metodi diversi, basati non tanto sul multilateralismo o sulle alleanze collettive per fare pressioni su Pechino, quanto piuttosto sull’unilateralismo e il nazionalismo spinto, tradotti negli slogan “America First” e “Make America Great Again” dello stesso neo-presidente.

Trump e i membri della sua amministrazione hanno dichiarato che i trattati come il TPP lasceranno spazio ad accordi da negoziare in sede bilaterale e che il principio che guiderà il nuovo governo sarà quello dell’equità degli scambi commerciali. In realtà, la natura della visione di Trump comporta l’imposizione di condizioni favorevoli soprattutto, se non esclusivamente, agli interessi degli Stati Uniti, sotto la minaccia nemmeno troppo velata di misure ritorsive, come l’imposizione di pesanti dazi doganali.

roprio questa prospettiva ha determinato la risposta piuttosto cauta delle autorità cinese e dei media ufficiali della Repubblica Popolare al boicottaggio del TPP da parte di Trump. Se è vero che Pechino vede chiaramente la possibilità di penetrare nello spazio lasciato dagli USA, rilanciando i negoziati per accordi alternativi come l’RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) o l’FTAAP (Free Trade Area of the Asia Pacific), le incognite sulla gestione dell’agenda commerciale americana sono parecchie, così come i timori per l’imposizione di misure protezionistiche.

Le preoccupazioni cinesi erano state espresse settimana scorsa dal presidente, Xi Jinping, nel suo intervento al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, dove aveva celebrato la globalizzazione e, riferendosi indirettamente all’amministrazione entrante a Washington, messo in guardia da possibili involuzioni di stampo protezionista, da cui nessun paese uscirebbe vincitore.

Le reazioni più allarmate sono giunte invece dalla fazione anti-Trump del Partito Repubblicano negli Stati Uniti e dai governi dei paesi che hanno negoziato il TPP. A Washington, il senatore dell’Arizona, John McCain, ha definito un “grave errore” la decisione di Trump di uscire dall’accordo, poiché “permette alla Cina di riscrivere le regole economiche” a spese degli USA e “manda un segnale preoccupante del disimpegno americano nell’area Asia-Pacifico”.

Martedì, poi, i primi ministri di Australia e Nuova Zelanda hanno manifestato l’intenzione di adoperarsi per salvare il TPP, non solo cercando di convincere l’amministrazione Trump a tornare sui suoi passi ma, addirittura, coinvolgendo nel trattato altri paesi, come la Cina o l’Indonesia.

L’allargamento ad altre potenze economiche o la sostituzione di Washington con Pechino rappresenterebbe un’evoluzione clamorosa del TPP, vista la natura sostanzialmente anti-cinese dell’intesa promossa dall’amministrazione Obama. Le dichiarazioni dei capi dei governi australiano e neozelandese - Malcolm Turnbull e Bill English - dimostrano perciò il potenziale destabilizzante dell’azione di Donald Trump nei rapporti consolidati tra alleati.

Ancor più, ciò è osservabile nel caso del Giappone, il cui primo ministro, Shinzo Abe, non a caso subito dopo l’elezione di Trump lo scorso novembre aveva fatto di tutto per fissare un faccia a faccia a New York col presidente eletto allo scopo di essere rassicurato sui rapporti bilaterali.

Infatti, quello giapponese è forse il governo che più ha investito politicamente sul TPP, faticando oltretutto a farlo digerire a buona parte della base elettorale del partito di maggioranza con la promessa di un rilancio dell’economia da troppo tempo in fase di stagnazione.

Il colpo assestato ora da Trump all’accordo è stato accolto con costernazione e un certo risentimento a Tokyo, aggravato dai commenti critici del neo-presidente americano sulle presunte disparità nell’accesso ai rispettivi mercati delle merci prodotte dai due paesi.

Sempre martedì, il ministro dell’Economia nipponico, Nobuteru Ishihara, ha anch’egli ipotizzato il perseguimento di soluzioni alternative da parte di Tokyo per fare in modo che “il libero scambio rimanga il perno della crescita economica del paese”. Allo stesso tempo, ai giornalisti che gli hanno chiesto della possibilità di discutere un tratto di libero scambio bilaterale con Washington, il ministro del gabinetto Abe ha risposto dicendosi “tutt’altro che certo” della disponibilità americana ad avviare negoziati in questo senso.

L’indisponibilità, peraltro, potrebbe essere anche di Tokyo, visto che, come fanno notare molti osservatori, le condizioni che Trump potrebbe chiedere al Giappone rischiano di essere difficilmente accettabili e ancora più svantaggiose di quelle previste dal TPP.

La situazione, ad ogni modo, a una manciata di giorni dall’insediamento di Trump rimane molto fluida, nonostante i messaggi molto chiari provenienti da Washington. Sul fronte cruciale del commercio internazionale, oltre alle prossime mosse della nuova amministrazione americana, sarà da guardare con attenzione il vertice organizzato in fretta e furia per la metà di marzo in Cile tra i paesi inclusi nel TPP e rimasti orfani degli Stati Uniti.

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