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manifesto

La «partita» doppia di Unicredit sullo stadio della Roma, tra i due litiganti la banca non gode

Antonello Sotgia

Nelle scuole di architettura, passato il biennio propedeutico si arrivava ad affrontare la progettazione di uno stadio. Preliminarmente dovevi saper progettare una gradinata e verificarne la relativa «curva di visibilità», far vedere che dalle tribune nessuno spettatore, sedendosi, coprisse la visuale degli altri. Azzeccare la curva poteva costarti giorni di prova e manciate di fogli strappati. Bisogna vedere bene.

Gli stadi sono «case» speciali abitate da famiglie allargate che lì si ritrovano per vivere un’emozione collettiva. Chi abita questi spazi tende a dilatare i 90 minuti della gara. A far continuare, dopo il triplice fischio, il senso delle cose che assegniamo a queste case collettive. Gli stadi diventano veri e propri individui edilizi solo quando riescono, con le loro forme spaziali, a entrare in rapporto con la città. A parlare.

Lo stadio Olimpico, con l’inserimento di quel catino nella geografia di passaggio tra la zona collinare e il Tevere, ha esaltato quel quadro ambientale con la capacità di accogliere (quasi) 100mila spettatori in un sistema di vuoti graffiati sapientemente nel terreno.

La localizzazione dell’Olimpico è paradossale, individuata, come è stata, da un regolare progetto urbanistico in un periodo (era il 1925) in cui Roma cresceva per parti disordinate e trasformazioni tipologiche (l’invenzione della palazzina) che avrebbero segnato il successivo piano del 1931 e compromesso la città.

Oggi per la legittimazione urbanistica del nuovo impianto di calcio a Tor di Valle, la legge sugli stadi (copyright Delrio) costringe Roma, che le regole se le era date con un Piano regolatore, a guardare alla città in modo strabico.

Per quello che c’è (l’ippodromo e la sua normativa di piano) quelle regole non valgono. Può andare tutto giù.

Per quello che si richiede di fare (il nuovo stadio) le regole nuove si riducono necessariamente a diventare una traduzione normativa posteriore al progetto edilizio.

Una vera capriola. Prima gli edifici, poi le regole per realizzarle.

Per cercare di capire come sia possibile realizzare il miracolo matematico di sommare mele (le quantità permesse di impiantistica sportiva) con le pere (l’altro che nulla ha a che fare con lo stadio) è necessario fare un passo indietro a quando le quote della società sportiva Roma, in mano a Unicredit (il 31% del pacchetto azionario) vengono cedute al presidente statunitense James Pallotta.

Avviene dopo la scelta di un terreno «eccedente» rispetto a quanto necessario per un impianto di quel tipo. Euronova, la società di Parnasi, «offre» un’area di un milione di metri quadri. A Tor di Valle.

Parnasi acquista quel terreno. Per farlo, presumibilmente, accresce la sua esposizione bancaria.

Quando inizia a mettere mano al progetto, Unicredit partecipa all’avventura stadio in doppia veste: da proponente (è ancora proprietaria di quote della società Roma che «girerà» a Pallotta nel 2014) e da creditrice della società che realizzerà l’intervento.

Cedendo le proprie quote la banca si libera di un fardello ingombrante che si trascina da anni e sceglie di finanziare non l’iniziativa edilizia-urbanistica, intesa come oggetto spaziale secondo il classico finanziamento – costruzione- rientro con interessi, ma il programma «immateriale» legato all’iniziativa attraversato dai flussi di cassa continui che quest’intervento produrrà.

E arriviamo all’oggi.

Nell’agosto 2016, Luca Parnasi sigla con Unicredit un accordo per il piano di ristrutturazione aziendale. Si decide di dare vita per Parsitalia a un diverso «business model» così come fanno i grandi «sviluppatori» internazionali. Tutti i beni societari convergono in un fondo. Fuori si tiene solo lo stadio.

Allo «sviluppatore» Parnasi il sistema bancario chiede non solo di coprire i conti che, come «costruttore», ha portato alla malora, ma di innescare un meccanismo che permetta due operazioni tra loro strettamente intrecciate.

La prima: tenere in vita il sistema bancario attraverso le plusvalenze alimentate incessantemente dagli interessi sul debito.

La seconda: sottrarre il costruire ai rischi di mercato dell’edilizia ormai in crisi irreversibile.

Per questo Pallotta ha lanciato i suoi segugi ( Goldman Sachs e Rothschild) alla caccia d’investitori che possano reggere la sforbiciata che la giunta Raggi potrebbe portare a un progetto che difficilmente Unicredit in questo momento di «ricapitalizzazione» potrebbe accettare.

Con buona pace dell’intervento a gamba tesa su Paolo Berdini di mister Spalletti.

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