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consecutio temporum

“NeoRealismi” a confronto. Rigurgiti postmoderni e rivalse scientiste?

Francesca Fistetti

L’estate 2011 ha stupito noi lettori distratti da continue iniezioni televisive di iperrealtà con l’ennesima versione, forse anch’essa postmoderna, di una delle più dibattute polemiche filosofiche dell’ultimo decennio, quella tra ‘(neo-)realismo’ e ‘postmoderno’. Procediamo però con cautela, tentando di chiarire al meglio i termini della complessa questione.

Tutto ha inizio dal provocatorio manifesto di un presunto ritorno alla realtà, lanciato dalle colonne de “La Repubblica” da Maurizio Ferraris, noto filosofo formatosi alla scuola del ‘pensiero debole’ di Gianni Vattimo, oggi, vicino al trascendentalismo scientista di derivazione searliana. Il battesimo di questo esorcismo collettivo, che dovrebbe ricondurre finalmente quel che resta di un pensiero razionale e critico a riacciuffare le redini della Storia, riabilitando tre parole-chiave “Ontologia, Critica e Illuminismo”, dopo le superbe rodomontate postmoderne che hanno invece generato solo scioperataggine speculativa, sarà officiato in un importante convegno, a Bonn, nella prossima primavera, a cui parteciperanno nomi illustri del calibro di Umberto Eco e John Searle. Inoltre, il certificato di morte del postmoderno è ormai redatto e validato da una mostra londinese – ci informa Edward Docx, sempre dalle pagine culturali de “La Repubblica”[1] – al Victoria and Albert Museum, dal titolo emblematico, Postmoderno – Stile e sovversione 1970-1990.

Dalla proposta di un NewRealism è così scaturito un confronto tra Ferraris e Gianni Vattimo, il quale ha marcato nettamente le distanze da qualunque forma di sdoganamento sociale dell’ambiguo concetto di verità, che per inverarsi avrebbe bisogno sempre e comunque, nella prospettiva dell’autore de La società trasparente (1989), di un’autorità superiore che la sanzioni dogmaticamente.

La polemica teorica tra i due studiosi ha suscitato, com’era prevedibile, un variegato dibattito cui hanno partecipato nomi illustri, tra i quali Pier Aldo Rovatti, Paolo Flores D’Arcais, Paolo Legrenzi e Petar Bojanic. Mentre Rovatti rivendicava la valenza politica del “pensiero debole”, nato «come strumento di lotta contro ogni violenza metafisica»[2] che «sospettava di ogni fissazione oggettivistica della verità»[3], Flores D’Arcais invitava invece a riconsiderare i lavori di Camus e Monod come esempi probanti di una felice sintesi di esistenzialismo e naturalismo empirico, bollando tutta l’esperienza ermeneutica come «moda irrazionalistica»”[4], fabbricata in laboratorio dalle microfisiche di Foucault e dalle «torrenziali elucubrazioni di Derrida»[5], catalogate sbrigativamente dal direttore di MicroMega sotto il nome di “barocchismi”. La stessa tesi è stata ripresa da Flores D’Arcais nel suo intervento, Per una critica esistenzial-empirista dell’ermeneutica[6], apparso sull’ultimo numero di Micro-Mega, dove ribadisce l’urgente necessità per il pensiero ermeneutico di «rinunciare definitivamente all’essere, evitando tutte le ineludibili “complicazioni”»[7], riconducendo il concetto di verità «all’uso sobrio e limitato di indicare il grado-uno di accertamento (accerto-amento) che caratterizza un’epoca (una “apertura”): dunque, le affermazioni della scienza sperimentale»[8].  L’accerto-amento riguarderebbe in tal caso «alcune costanti misurabili».

Dunque, secondo Flores D’Arcais, i criteri, le regole, le forme di rappresentazione e le asserzioni, in una parola l’assiomatica della scienza sperimentale non farebbe parte di una ontologia sociale, cioè dell’unico discorso possibile sull’essere? Tralasciando le controverse posizioni pragmatiste di Richard Rorty, il celebre filosofo analitico Hilary Putnam, conosciuto per essere riuscito a erodere dall’interno alcuni capisaldi del pensiero analitico approdando ad un “Illuminismo pragmatista”, considera approcci fuorvianti tutti quei tentativi volti a fondare ontologicamente l’oggettività non soltanto dell’etica ma perfino della matematica, in quanto forniscono «ragioni che non sono parti della matematica a favore della verità degli enunciati matematici»[9]. Nemmeno la matematica più “pura” sfuggirebbe ai famigerati giudizi di valore metodologico!

In un suo importante saggio, molto discusso negli Stati Uniti e nel nord Europa, Politiche della natura (1999), il sociologo filosofo francese Bruno Latour ripercorreva genealogicamente l’origine della scissione Natura/Società, facendo risalire al mito platonico della Caverna l’inizio di una doppia cesura che ha caratterizzato per oltre venticinque secoli il pensiero occidentale: la prima tra «una certa idea della Scienza e una certa idea del mondo sociale»[10], l’una intesa come regno della verità, certezza e oggettività, sottratto alla tirannia del sociale, della politica e della vita pubblica, l’altra come il menzognero mondo della doxa; la seconda riguarda la figura dello Scienziato «quando sia provvisto di leggi non costruite da mano umana – che egli ha appena contemplato poiché ha saputo sottrarsi all’inferno del mondo sociale – può ritornare nella Caverna per imporvi un certo ordine grazie a risultati indiscutibili che metteranno a tacere la chiacchiera infinita degli ignoranti»[11]. Sebbene il mondo della verità sia totalmente separato da quello sociale, lo Scienziato è l’unico a poter «passare all’andata come al ritorno dall’uno all’altro dei due mondi: il passaggio, chiuso a tutti gli altri, è aperto a lui soltanto»[12].

Questa cesura radicale, nella prospettiva di Latour, ha generato una precisa forma di “epistemologia politica”, tuttora vincente e imperante, che si propone di «tagliar corto con ogni interrogazione sulla natura dei complessi legami tra le scienze e le società invocando la Scienza quale unica salvezza contro l’inferno del sociale»[13]. Nel quadro di una tale “Costituzione epistemica”, quei pochi ‘eletti’ «potrebbero vedersi dotati della più favolosa capacità politica mai inventata: far parlare il mondo muto, dire il vero senza essere contestati, porre fine agli interminabili dibattiti grazie a una forma indiscutibile di autorità che atterrebbe alle cose stesse»[14]. Per quali oscure ragioni, si chiede Latour, sono proprio gli scienziati ad accedere alla inaccessibili cose stesse? E in virtù di quale bacchetta magica “le cose mute” diventerebbero improvvisamente capaci di parlare? Inutile aggiungere che il sociologo bolla come “stravaganze” tali prospettive teoricamente insostenibili.

Va sottolineata la veemenza con cui Flores D’Arcais squalifica la tradizione della ‘metafisica’, ritenendo superfluo nominare l’Essere, quasi fosse un equivoco terminologico o un nevrotico lapsus linguistico, dimenticando che si tratta dell’intera storia della razionalità occidentale. Riprenderemo tra poco la disinvolta scioltezza delle sue argomentazioni a sostegno di un salutare «esistenzialismo naturalista-scientista», speculari per rigidità e dogmatismo a tutti gli integralismi religiosi odierni, come mostra il recente saggio di Gianfranco Marrone, Addio alla natura[15], in cui lo studioso obiettando in dettaglio la ‘scientificità’ delle metodologie d’indagine utilizzate nelle neuroscienze e non solo, ne confuta apertamente i risultati, concludendo che spesso la «Natura […] è l’esito costruito di un cattivo comportamento epistemologico. Quel che più inquieta è la spocchia con cui tutto ciò viene rivendicato come buono e giusto, come “pura” scienza, come elegante operazione di messa in mostra di dati empirici che esisterebbero di per sé»[16]. Potremmo poi semplicemente rammentare attraverso la riproposizione dei fondamenti di filosofia aristotelica fatta da Umberto Eco in Kant e l’ornitorinco[17] – reclutato peraltro ingiustificatamente da Ferraris nella coorte dei trascendentalisti scientisti-neorealisti – che l’essere è un’evidenza luminosa e ineliminabile, è l’orizzonte necessario e precedente qualunque domanda o pensiero o definizione sulle cose esistenti o sostanze (Aristotele): «[…] il problema dell’essere non può essere ridotto a quello della realtà del mondo. Che quello che chiamiamo il Mondo esterno, o l’Universo, ci sia o non ci sia, o che sia effetto di un genio maligno, questa possibilità non tocca affatto l’evidenza primaria che sia “qualcosa” da qualche parte»[18].

Questo “qualcosa” non può che definirsi nel linguaggio come effetto di linguaggio: «[…]ogni definizione è effetto di organizzazione logica e quindi semiosica del mondo»[19]. A proposito di Eco, il semiologo avvertiva i suoi futuri esegeti, già nella Introduzione a I limiti dell’interpretazione, che quello studio non valeva una sorta di tardiva palinodia ‘conservatrice’ rispetto alle posizioni sostenute nei lavori precedenti, una svolta verso le scienze “vere”, e corroborava invece la convinzione che «ci sia semiosi e dunque interpretazione nei processi percettivi»[20]. Si trattava piuttosto di ristabilire all’interno di una qualsiasi teoria dell’interpretazione l’ineliminabilità dell’oscillazione tra «iniziativa dell’interprete e fedeltà all’opera»[21], evitando di far pendere la bilancia nella direzione di forme di ricezione incaute e arbitrarie, e di considerare che «i limiti dell’interpretazione coincidono con i diritti del testo», col suo immanentismo assoluto[22], con la sua imprescindibile storicità dinamica. Anche Legrenzi, da un’autoreferenziale postazione di quietismo scientista pago di sé, rifiuta l’idea che l’uomo si costruisca «le categorie di osservazione e di interpretazione»[23] . Sarebbe a questo punto lecito immaginare, con stupore mistico-orfico, che l’armamentario della scienza sperimentale venga calato direttamente dall’alto da qualche benevola divinità, e che gli scienziati-argonauti afferrino le costanti dell’universo tout court, grazie all’intuizione intelligibile, laddove il logos svolgerebbe essenzialmente una funzione neutra di tessere trame tra i noèta e il mondo fenomenico. In altre parole, una versione postmoderna della teoria delle forme di Platone, passata al vaglio delle dottrine del neopositivismo logico, che rimuove nevroticamente la cosiddetta crisi dei fondamenti, vale a dire rimuove l’inconsistenza di una corrispondenza d’amorosi sensi tra linguaggio e fatti, rimuove l’indimostrabilità di una sensualissima fornicazione tra invarianti noetiche universali e struttura ontologica del mondo reale. Come asserisce un giovane epistemologo, Simone Zacchini, a proposito di quei pensatori come Thomas Kuhn e Paul Feyerabend che portarono alle estreme conseguenze le assunzioni neopositivistiche:

La perdita della metafisica, però, non è senza conseguenze. Ne va dell’impianto generale della conoscenza umana, che non può essere ridotta ai soli dati oggettivi. La metafisica, infatti, come ha insegnato Kant, non è una disciplina, ma una tensione umana che deve trovare la sua propria forma di oggettivazione. La sua esclusione comporta infatti un’amputazione del cosmo conoscitivo, ben più grave della limitazione della conoscenza kantiana ai limiti dell’esperienza; l’espulsione della metafisica dall’ambito della conoscenza porta, da un lato, al tentativo di naturalizzare tutta la sfera conoscitiva, ivi compresa l’esperienza umana e soggettiva, dall’altro all’impossibilità di pervenire ad una immagine definitiva dell’armonia, proprio per la perdita di un telos sovraempirico e trascendente che solo la metafisica era in grado di individuare[24].

Queste riflessioni paiono giustificare il sospetto che in Italia il postmoderno sia vivo e vegeto, e goda pure di ottima salute, anzi, prendendo a prestito le parole che Fredric Jameson[25] applicava al tardo capitalismo, stia vivendo il suo momento di sviluppo più puro e prodigioso, visto il clamore suscitato dalle ultime mode epistemologiche che guardano, con sempre maggior interesse, alla anacronistica riesumazione di una concezione scolastica della Scienza. Non viviamo, infatti, in tempi in cui l’evoluzionismo e lo studio del cervello espugneranno le roccaforti degli altri “saperi”, come inferisce Legrenzi, ma viviamo in un’epoca di epistemologia post-epistemica, dove parlare di verità è diventata una pratica discorsiva molto imbarazzante. Qui vale la pena fare un solo esempio. L’orizzonte delle scienze cognitive e della filosofia della mente è alquanto disomogeneo e variegato al suo interno, come mostra un recente studio di Enrico Bellone, famoso storico della scienza, che proponeva una prospettiva in contrasto con quanto detto finora e, per certi aspetti, perfino inquietante.

Lo studioso, infatti, spiegava che nel momento in cui riceviamo una sollecitazione da una realtà esterna, i nostri organi di senso, che dovremmo secondo Bellone, chiamare filtri «dato che lavorano in compagnia del cervello»[26], quindi, di reti di neuroni, sono specializzati «nella traduzione infedele degli stimoli provenienti di quel qualcosa che sta là, fuori»[27]. Ciò che noi comunemente siamo soliti definire realtà esterna non è altro che uno spettacolare palcoscenico allestito dall’unico grande regista dell’universo, il cervello, e le percezioni non coincidono con le mere descrizioni in quanto esse sono «costruzioni conformi ai criteri innati che abbiamo al nostro interno»[28], con buona pace di tutti i focosi apostoli di un descrittivismo empirico vero e completo. Tutto questo non può più considerarsi un problema squisitamente filosofico o letterario. In sintesi, la struttura del mondo esterno così come viene da noi elaborata è costruita interamente dai nostri neuroni, con tutti gli annessi e connessi. D’altronde, anche lo studio della mente pone questioni serissime. Eccone una: come facciamo a fidarci fino in fondo delle asserzioni sul cervello, se è il cervello ad essere soggetto e oggetto di tali raffinatissime elucubrazioni, ovvero se è il cervello che studia se stesso? Come possiamo essere controintuitivi jusqu’au bout? Ai posteri l’ardua sentenza. Inoltre, e qui chiudo un discorso che risulterebbe necessariamente troppo vasto e articolato nell’ambito di queste riflessioni, sembra che nessuno osi più negare che alla base della nostra stessa capacità di pensare la realtà vi sia un medium o una struttura trascendentale che la rende conoscibile, ovvero le forme della rappresentazione[29].

Una volta di più è il caso di richiamare l’Eco di Kant e l’ornitorinco, il quale metteva in guardia alcuni odierni seguaci delle discipline cognitiviste di fare del neo-kantismo senza saperlo, per sollecitarli a rileggere il filosofo tedesco, e a porre molta attenzione al suo schematismo che anticipa di qualche secolo le loro ‘scoperte’: «Ma si deve partire dal princìpio che, se ci sono atti di riferimento felice è perché, sia nel riconoscere la seconda volta qualcosa percepito in precedenza, sia nel decidere che sia l’oggetto A che l’oggetto B possono soddisfare al requisito di essere un bicchiere, un cavallo, […] si paragonano occorrenze a un tipo (che esso sia un fenomeno psichico, un prototipo fisicamente esistente, o una di quelle entità del Terzo Mondo di cui la filosofia cerca sempre di rendere ragione, da Platone a Frege, da Peirce a Popper)»[30].

Che in Italia il postmoderno fosse poi tragicamente scomparso è notizia tutt’altro che nuova almeno da un lungo decennio, come sanno tutti gli studiosi di discipline letterarie, da quando Romano Luperini l’aveva preconizzata, con pronta sollecitudine, un po’ di tempo dopo l’11 settembre 2001, ammonendo scrittori e critici a restituire senso e funzione alla ricerca letteraria e alla militanza critica, rinnovando l’ethos civile della tradizione modernista, andata ingloriosamente perduta con l’orgiastica ubriacatura postmoderna. A onor del vero, l’autore de La fine del postmoderno (2005), già all’altezza del 1989 presagiva, tra spasmi sordi e incerti segnali di uno sfaldamento del ‘pensiero debole’, l’avvio di una “nuova razionalità” che restituisse valore «alla ricerca di verità consapevolmente relative, pragmaticamente contingenti epperò ancora capaci di un impatto sul mondo e di un’incidenza nella società»[31]. Inoltre, da qualche decennio Luperini, coniugando Marx con Benjamin e Auerbach, Gramsci e Foucault, Jauss e Debenedetti, auspica lo sviluppo di un’ermeneutica materialistica[32], volta a rintracciare un punto di equilibrio, sempre instabile e precario tra ‘dialogo’ e conflitto’, tra oggettività dei testi e fruizione responsabile, critica delle ideologie e parzialità storica dei significati, nel quadro di uno studio analiticamente rigoroso delle complesse dinamiche materiali che storicamente producono gerarchie di valori ed egemonie culturali.

Certamente, va aggiunto che anche nella polemica letteraria, peraltro molto ricca, riguardante il presunto antagonismo tra realismo e postmoderno, che presuppone alla base una serie di categorie tagliate con l’accetta, si fatica a tenere distinti il piano della realtà da quello della responsabilità etica dello scrittore, oscillando continuamente dalle troppo entusiastiche rivendicazioni di una non ben precisata etica del narrare, proveniente dall’area dei Wu Ming[33], al trionfo di un fenomeno letterario opposto, che Daniele Giglioli ha battezzato come “scrittura dell’estremo”[34].

Secondo il critico, si tratterebbe di una situazione paradossale in cui è ingolfata la narrativa di questi anni, che per poter rappresentare l’esperienza attingerebbe alle categorie e al linguaggio del trauma, pur muovendo da una condizione esistenziale priva di un trauma effettivo. In altre parole, portando alle estreme conseguenze la riflessione di Benjamin, gli scrittori depauperati della possibilità di fare esperienza, perché requisita dai mass media[35], sarebbero costretti a ricorrere ad un bombardamento pianificato di eventi violenti, catastrofici e brutalmente crudi, per simulare le prerogative del vero, di un’esperienza reale mai vissuta veramente. Il quoziente di realismo risulterebbe così direttamente proporzionale al livello di efferatezza nei contenuti. Mentre la modernità poteva vantare traumi seri e ‘veri’, quali inurbamento, industrializzazione, guerre mondiali, ecc., la postmodernità deve fingerli: «[…] l’identità contemporanea riesce a pensarsi solo tramite il dispositivo dell’identificazione vittimaria»[36], assumendo perciò un trauma fantasmatico a fondamento dell’esser-ci. Il fatto è che stiamo vivendo un momento delicatissimo e di profonda crisi dell’intero assetto del capitalismo mondiale, che va modificando radicalmente tutti i paradigmi esperienziali del passato, gettandoci nel più cupo disorientamento, come possiamo postulare e sostenere teoricamente l’assenza di traumi?

Su tutt’altro fronte si situa, infatti, il lavoro di Arturo Mazzarella, Politiche dell’irrealtà[37]. Lo studioso prende le mosse dalla tesi secondo cui alla costruzione dei ‘fatti’ contribuiscono in modo determinante i “fantasmi dei fatti”, citando Sciascia, ovvero, congetture, ipotesi, domande, insieme agli artifici narrativi della loro messa in racconto, che potenzierebbero invece di impoverire, la nostra comprensione degli eventi. Ma torniamo alla polemica di queste ultime settimane. Ferraris sostiene alacremente che l’abbandono di una gnoseologia certa e obiettiva, in favore di una visione multiprospettica del reale, in una parola l’abbandono del mito dell’oggettività abbia generato, sul piano sociale, mostri ingovernabili e inidentificabili, nient’altro che «una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (credevamo allora) dei canali televisivi»[38]. Senza voler entrare preliminarmente in una diatriba speculativa che ci spingerebbe molto lontano (poiché una tale asserzione sarà pure logica sul piano sintattico-grammaticale, ma resta tutta da dimostrare su quello dei mirabolanti ‘fatti’ sociali), visto che la storia delle concessioni radio-televisive in Italia è maledettamente losca e perversa, tanto da avere ben poco da spartire con le dinamiche del pensiero debole, una simile parziale imputazione risulta comunque insufficiente e inadeguata a spiegare la complessità dei fenomeni cui si fa riferimento.

Mettiamo bene in chiaro i termini del discorso di Ferraris. L’autore di Documentalità[39], rispolverando il tradizionale formulario dell’ontologismo, va spergiurando che esiste un mondo reale fuori dai nostri schemi cognitivi, dunque, «non emendabile», cioè duro e puro, «un non-io cocciuto e indifferente»[40], indipendente da concetti e linguaggio come da ogni nostra operazione intellettiva. Fin qui niente di nuovo sotto il sole, almeno a partire dal razionalismo greco classico, per arrivare fino al Fanciullino di Pascoli quando andava rivendicando che “il mondo non s’inventa ma si scopre”. E chi lo scopriva? Ieri il poeta, oggi lo scienziato-filosofo, naturalmente! Ieri con le prodigiose alchimie del simbolismo linguistico (metafore, metonimie, sinestesie, similitudini, ecc.), oggi con le vertiginose astrazioni della logica.

Portiamo qualche esempio che possa ricondurci giusto in faccia all’ontologia, cioè all’Essere, nella variante minimalista proposta da Ferraris: se fuori sta piovendo, l’acqua m’inzuppa; se tocco una padella bollente, mi scotto le dita; se resto troppo tempo esposta al solleone, mi ustiono la faccia. Bene. Ecco, dunque, alcune prove empiriche dell’incorreggibilità dell’Essere, perciò della sua innegabile esistenza con cui dobbiamo fare i conti, volenti o nolenti, e che si sottrae inesorabilmente a ogni previa interpretazione. Allora, come raggiungere ed esperire questo Essere nella sua molteplicità? Ferraris garantisce che l’unica via d’accesso al mondo reale, sgombra da ingannevoli elucubrazioni intellettualoidi e trasparente nella sua primitiva purezza, sarebbe la percezione o, se si vuole, il mondo dell’aisthesis: vedere, udire, sentire, annusare, toccare, ecc.: – e per continuare con Pascoli, “altro non deve il poeta”. Liberando così l’estetica dalla terribile stretta dell’ermeneutica nichilista, che l’avrebbe ridotta a poco più d’un gioco di prestigio dissolvendo l’Essere nell’infinita rete delle famigerate interpretazioni, è giunto il momento di restituirle l’autonomia che le spetta e lo statuto che le è proprio, trasformandola in una teoria della sensibilità o percettologia, sulla scorta della lezione baumgarteniana.

Un Baumgarten, però, amputato dell’aspetto razionale e critico, come spiegava in un bel libro Lubomìr Doležel, Poetica occidentale[41], precisando che l’estetologo tedesco mirasse ad una estetica in grado di spiegare la “logica della sensazione”[42], modellata perciò sui formalismi del ragionamento tipici delle scienze naturali. Di qui la necessità per Baumgarten, che attingeva a quel filone del razionalismo secentesco di matrice leibniziana, di sviluppare una ricerca di logiche, modelli e teorie della creatività artistica umana. La riflessione del fondatore dell’estetica moderna condurrà un altro studioso di poetica, Breitinger[43] a formulare l’ipotesi di una “logica dell’immaginazione poetica”.

E tanti saluti anche allo schematismo di Kant, al percetto di Husserl e all’“essere-nel-mondo-nel-mondo” del giovane Heidegger. La riaffermazione dell’estetica come aisthesis sarebbe, per giunta, valorizzata e perfino corroborata dai recenti successi della filosofia analitica, che, a quanto pare, è riuscita a far piazza pulita di ogni scempiaggine ermeneutica o soperchieria teorica provenienti dai malsani ambienti dei ‘continentali’. L’assunzione metafisica di aver ‘documentato’ l’esistenza del mondo esterno, ha incoraggiato l’autore di Goodbye Kant![44] a invadere i paludosi territori della Verità, rilegittimandone la centralità non solo nel discorso filosofico ed epistemologico, ma anche in quello quotidiano poiché «se uno va dal medico […] ha bisogno sono risposte vere sul suo stato di salute. E quelle risposte non possono limitarsi a interpretazioni più o meno creative: devono essere corrispondenti a una qualche realtà che si trova nel mondo esterno»[45].

A questo punto, però, occorre fare alcuni doverosi distinguo. Bisogna, infatti, sottolineare che Ferraris trascende la teoria del suo ultimo maestro, cioè John Searle, il quale nell’ormai celebre La creazione della realtà sociale (1995), mentre si preoccupava di persuaderci che esiste una realtà indipendentemente dal nostro sistema di concetti, altrimenti «senza una realtà del genere, non c’è niente a cui applicare il concetto»[46], separando arbitrariamente le due dimensioni in due momenti distinti, ci tranquillizzava subito che, posto in questi termini, «il realismo […] non è una teoria della verità, non è una teoria della conoscenza e non è una teoria del linguaggio»[47], ma solo una teoria ontologica. In altre parole, anche considerando assiomaticamente che «il mondo esiste indipendentemente dalle nostre rappresentazioni», ciò non implica necessariamente che «ci sia un vocabolario privilegiato per descriverlo»[48], in quanto «il realismo non dice come sono le cose, ma solo che c’è un modo in cui esse sono»[49].

Ma come? E che ne sarebbe dei cognitivisti, neuroscienziati, comportamentisti, biologisti organicisti, logicisti e fisicalisti dell’ultim’ora, ineffabili mistici adoratori del “linguaggio del paradiso”, per dirla con Benjamin, cioè quello delle scienze esatte? E per i ‘Neorealisti’ esiste un linguaggio privilegiato? Se la risposta è affermativa, quale? Ora, proviamo a ragionare per un momento, mandando Kant e Husserl in soffitta. Il problema non è quello di ammettere l’esistenza di un mondo esterno, nemmeno Aristotele lo aveva mai negato e neppure i sostenitori dell’ermeneutica, ma, ancora peggio, che cosa sia e come sia questo benedetto mondo. E chi ce lo può far conoscere? Se, come asserisce Searle, «il presupposto della realtà esterna è necessario per gran parte del pensiero e del linguaggio»[50], d’altro canto il filosofo americano si guarda bene dal fornirci strumenti e coordinate per incontrare questa realtà esterna, sicché «il realismo esterno è in questo modo non una tesi o un’ipotesi, ma una condizione per avere certi tipi di tesi o di ipotesi»[51].

I Neorealisti vanno asserendo che la percezione del ‘tavolo’ che ho di fronte è immediata e reale, priva di interferenze intenzionali. Questa percezione, scomposta nei suoi elementi costitutivi, si rivelerebbe essere un impulso nervoso sollecitato da un oggetto esterno, che certifica di per sé l’esistenza di una cosa a quattro gambe chiamata tavolo. L’atto verbale/culturale di definirlo tale verrebbe in un secondo momento. Ciò significa che per sopprimere con un colpo di spugna ogni impuro turbamento intenzionale, la coscienza dovrebbe risultare spenta, trasformata in una muta lavagna su cui s’imprimono indecifrabili sollecitazioni esterne, nel momento in cui percepisce il tavolo. Questo sì che sembra, però, del tutto irrazionale.

Al contrario, se essa è viva e attiva a tutto campo, chiama in causa una tale inestricabile interazione tra le due dimensioni (interno/esterno), perciò una complicatissima elaborazione multisensoriale dei molteplici dati, da escludere a priori il solo coinvolgimento della vista, unita almeno a un secondo processo di filtraggio da parte dell’attività mentale. La bollente fusione di sensazioni fisiche e psichiche verrebbe a sua volta frullata ed emulsionata in uno ‘gnommero’ dal sapore vagamente gaddiano, sensorial-materico e cenestesico, successivamente codificato per noi, in una manciata di nanosecondi, nel suddetto stimolo nervoso, affiorante alla coscienza già lustrato e impacchettato. Dunque, senza schema o atto di rappresentazione, che dir si voglia, torniamo brutalmente all’unica realtà, cioè “le intuizioni senza concetto sono cieche, i concetti senza intuizioni sono vuoti”. Come direbbe Eco, prima ancora dei ‘concetti’, si ritorna a cozzare il muso contro lo schema, appunto, o Tipo Cognitivo. Nondimeno, si potrebbe semplicemente ricordare come Wittgenstein avesse sbaragliato il campo da simili ingenuità nel famoso aforisma sul ‘mal di denti’, dimostrando al suo ostinato allievo che non si trattava di un fatto.

Per comprendere fino in fondo la portata del problema, si potrebbe anche richiamare la specificità della ricerca poetica di Andrea Zanzotto, finissimo scrutatore delle trappole nascoste nel fantasma/nodo gordiano corpo-psiche-scrittura, rigoroso anatomista delle tracce storiche e biologiche di ogni “atto di lingua”, accurato antropologo forense di esami autoptici sulle fibre viventi della parola, pignolo genetista nel decifrare i codici geologici comuni all’io e al paesaggio, che ha mandato in frantumi ogni smagato sogno di una totalità del sentire, meditando a lungo intorno all’idea di esistenza di un testo: «A sua volta il corpo-psiche è qualche cosa di spaventosamente scritto, inscritto, riscritto, scolpito, sbalzato, modellato, colorato da un infinito insieme di elementi, in quel brodo generale, in quel plasma totale di cui esso non è che un grumo o un ganglio»[52].

Basta far riferimento a quella sorta di sciarada mental-poetica che è Il Galateo in bosco (1978), per farsi una vaga idea dell’acribia chirurgica con cui Zanzotto ci trascina nel cuore del processo creativo del linguaggio poetico, inteso come «terreno ipersedimentato», solidificazione organico-semiologica e mineral-fibrosa di «un coro di citazioni»[53], dove però «nella citazione mai ritorna il “com’era”: il “ripetuto”, proprio perché tale, è l’antitesi dell’originario»[54], con una inflessione decisamente derridiana. La citazione in Zanzotto, come mostra Niva Lorenzini, non è un semplice prelievo testuale per “commemorare la genesi dei versi”, ma «segue percorsi sotterranei, si infolta in un groviglio di itinerari»[55]. Nel pantheon poetico novecentesco della decostruzione in atto di tutto il magistero della tradizione sublime, cioè l’Ipersonetto, l’autore di Dietro il paesaggio (1951), mimando, con ossequiosa deferenza, il rispetto che si deve alla Norma non solo la decompone ma la identifica «tout court con il fuori-norma, l’irregolarità, l’eccedenza»[56]. Il viaggio nell’abisso del bosco-hyle, immagine dell’informe originario, del vivente caos materico, impastato di significanti verbali e non verbali, di elementi grafici e schegge foniche, di determinazioni morfematiche e fonologiche si organizza in un discorso “disgregato”, immerso e affiorante negli/dagli sbuffi lavici delle realtà contemporanee. Con quali pretenziose argomentazioni si potrebbe sostenere che la ricerca letteraria non produce conoscenza ma solo balbettamenti da stravagante ‘patafisica’?

Un altro poeta in odore di oltranzistico sabotaggio sperimentale delle fallaci opposizioni binarie soggetto/oggetto spazio/tempo mente/corpo ideale/reale è Antonio Porta, il quale ne I Rapporti (1966) ha prospettato la trasformazione incessante dell’oggetto, il suo sfilacciamento materico in un inesauribile fascio di pulsioni visceral-antropologiche, molecolar-sociali, colte fenomenologicamente secondo un ventaglio maculato di punti di vista, che scardinano la beata certezza in una linearità causale e temporale, e sovvertono in tal misura i consueti rapporti di causa ed effetto. Anche qui, dunque, l’appropriazione linguistica dell’ingorgo materico coincide de facto con la dissoluzione di un suo presunto statuto ontologico, col liquescente sfibrarsi della sua inconsistente datità: «Gli oggetti, gli eventi, gli uomini sembrano sfuggire ad ogni condizione di struttura, liberati in una sorta di vuoto pneumatico, senza pesi e senza misure, essi cercano di far funzionare la ragione e quindi di strutturarsi o, in parole povere, di dare un senso alla vita. Sembra che questo tentativo continui a fallire, nonostante il perfetto funzionamento di tutti gli strumenti»[57].

Gran parte della letteratura novecentesca ha indagato, “per vie trasverse” e disparate, il tradizionale rapporto tra linguaggio e realtà, complicandolo con le categorie prelevate dal magmatico universo della corporeità, ed escogitando  interessanti strumenti percettivi e tecniche espressive – come ha mostrato nel suo denso saggio sulla poesia novecentesca Niva Lorenzini[58], che non possono mai prescindere da un io che pone se stesso in situazione «per analizzare il proprio oggetto in situazione»[59]. Non è possibile convocare in questa sede le molteplici voci poetiche che hanno contribuito a ridisegnare i tradizionali confini cartografici, trasformando la poesia in una straordinaria esperienza plurisensoriale e polisensa, come mostrano recenti lavori di ricognizione critica e di mappatura storiografica, quali il ponderoso La fisica del senso[60] di Andrea Cortellessa. Molte di quelle esperienze poetiche hanno rivalutato ed esplorato prepotentemente il tema della corporeità, risalente peraltro a Spinoza e a Nietzsche, sia nella direzione della destituzione di centralità dell’io lirico, «da soggetto poetico d’elezione […] a oggetto regolato e dominato in partenza dalla sua natura corporea e dalla sua essenza fisiologica»[61], se pensiamo al Sanguineti di Laborintus[62](1956), sia nella prospettiva di un suo diverso radicamento esistenziale e storico, sotto la spinta del pensiero fenomenologico.

Sarà pur vero che l’io è “il più lurido di tutti i pronomi”, come angosciosamente inveiva Gadda, ma non possiamo nemmeno liberarcene completamente, neanche quando marginalità e oggettivizzazione, divisione e de-centramento, diventano condizioni essenziali e inseparabili da un possibile accesso all’esperienza concreta, dal momento che la soggettività lirica rimane comunque centrale nella scrittura poetica contemporanea – secondo la prospettiva di Guido Mazzoni[63] -,  e invischiata in un fitto reticolo percettivo-neurale-materico di passioni private e tracce sociali. Le uniche barriere ‘vere’ a dover cadere, in favore di una bachtiana interdialogicità tra le diverse forme di sapere, sarebbero quelle di uno specialismo autotelico arroccato sulle proprie indiscutibili posizioni, che separa troppo rigidamente e allontana infruttuosamente i differenti campi disciplinari, creando gerarchie virtuali inutili e classificazioni sterili.

Per quanto concerne poi il tormentone filosofico di fine estate, che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, secondo la profusa vulgata nietzscheana, ciò non vuol dire che non esistono i fatti tout court, bensì che essi non possano sottrarsi all’enunciazione per via linguistica. E’ solo nel/attraverso il linguaggio che noi possiamo affermare ‘fuori sta piovendo’, mediante un criterio di rilevanza appreso insieme ad altre coordinate e parametri durante l’infanzia, al di fuori dei quali il mondo nella sua esistenza ontologica non dice niente, non parla da sé, è dannatamente muto. Non sembra, purtroppo, eliminabile un orizzonte di interazione tra coscienza e mondo, laddove la prima deve fare appello sempre e comunque ad un medium che esprima quanto sta sentendo, percependo, vivendo, ecc. La tesi iper-riduzionista secondo cui “quello che c’è”[64] non dipende da noi, trascina un problema fondamentale, cioè “quello che c’è” necessita di essere detto, e inoltre, sarebbe da dimostrare che il mondo è una totalità fissa e precostituita di oggetti e categorialmente definito. Il “valore di verità” – per dirla col titolo dell’ultimo libro di un epistemologo del calibro di Paolo Parrini[65] – di tali enunciati è pari a quello relativo a qualunque altra assunzione metafisica: «La rappresentazione rende presente qualcosa che non è presente, ossia rende presente qualcosa che non esiste nel mondo nella forma che assume nell’essere rappresentato. E se le cose e gli eventi della realtà non sono rappresentati, essi sono assolutamente privi di significato per la mente umana»[66]. In secondo luogo, il concetto di esistenza, come è stato ampiamente discusso da Putnam[67]- ma se vogliamo lo aveva già chiarito Aristotele («l’essere si dice in molti modi e secondo significati molteplici») – si presta epistemologicamente a differenti significati: i numeri esistono realmente? A quanto pare, nemmeno Willard van Orman Quine[68] è riuscito a rispondere in modo soddisfacente a tale vexata quaestio. Se dobbiamo applicare i criteri da «neorealismo vintage»[69] di Ferraris, – secondo la pregnante definizione data da Simone Ragazzoni – dovremmo rispondere convintamente di no, e buttarli nel cestino insieme a tante altre sciocchezze immaginarie.

Un’ultima questione. Quando si va intimando di abbandonare il decostruzionismo, per la salvezza dell’umanità, a che cosa si fa esattamente riferimento? Valga un solo esempio: la critica del linguaggio di Gramsci non rientra forse nel grande alveo del pensiero critico-negativo e decostruttivo? Se è vero che il linguaggio nasconde concetti determinati, nozioni e contenuti, costituenti primari di quel fertile terreno ideologico su cui fioriscono le nostre intenzioni e progetti, giudizi di valore e pregiudizi, gerarchie e classi, ecc., tutto ciò non è già de-costruzione della metafisica, di cui parla Derrida? E i vari sperimentalismi e neoavanguardismi degli anni Cinquanta-Sessanta, che a Gramsci si richiamavano e non solo, animati da una pervicace smania cosmica di smantellamento dei tradizionali istituti stilistici, formali, linguistici, semantici, retorici, strumento privilegiato per scardinare la struttura e la sovrastruttura dello stato borghese, non appartengono anch’essi alla pratica decostruttiva? E che dire del pensiero scientifico e filosofico novecentesco? Ciò potrebbe forse bastare, sembra inutile continuare un elenco che si allargherebbe a dismisura, fino a coinvolgere e ingoiare l’intero Novecento.

Quanto poi all’altrettanto ridicola opposizione Illuminismo vs decostruzionismo, c’è semplicemente da ricordare che il complesso movimento che va sotto il nome di Illuminismo ha de-strutturato interi paradigmi epistemologici ed etici dell’ancien régime, cioè ha de-costruito l’Idea di Uomo, di Natura, di Civiltà, di Storia, di Stato, ecc. Ancora il linguaggio della metafisica! In una parola, la configurazione storica che la razionalità occidentale assume nella modernità è propriamente quella di un pensiero critico-decostruttivo, a meno che non intendiamo mandare in soffitta tutto ciò che succede a partire da Newton e Kant, e ingranare frettolosamente la retromarcia recuperando, faute de mieux di una più esaustiva e puntuale elaborazione dell’attuale momento di crisi, un’idea di logos ontologico e deduttivo.

Provate a immaginare il più grande realista di sempre tra gli scrittori, Franz Kafka, che butta giù un pezzo e lo invia dall’aldilà a “La Repubblica”, intitolandolo “In difesa dei fatti”. Be’, anche un lettore distratto e poco avvertito si accorgerebbe della tremenda stonatura, sentendo immediatamente salire al cervello un certo imbarazzo, un senso di incomprensibile straniamento, o forse, ridendo, sospetterebbe una smorfia ironica da parte dell’autore de La metamorfosi (1915). Proprio lui, che nei suoi racconti ha allegorizzato il mistero e l’indecifrabilità dell’esistenza, risulterebbe credibile? Pensate, il più terrificante paradosso in cui un realista ‘vero’ può mai cacciarsi, per morirne: assumere realisticamente la difesa dei fatti.

 


[1] E. DOCX, Addio postmoderno, «La Repubblica», 3 settembre 2011.

[2] P. A. ROVATTI, L’idolatria dei fatti, «La Repubblica», 26 agosto 2011, p. 49.

[3] Ibidem.

[4] P. FLORES D’ARCAIS, La terza via di Camus, «La Repubblica», 26 agosto 2011, p. 49.

[5] Ibidem.

[6] P. FLORES D’ARCAIS, Per una critica esistenzial-empirista dell’ermeneutica, «MicroMega», 5, 2011, pp. 41-60.

[7] Ivi, p. 57.

[8] Ivi, pp. 57-58.

[9] H. PUNTNAM, Introduzione a Etica senza ontologia, trad. it. E. Carli, Prefaz. di L. Perissinotto, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 10 (corsivo dell’autore). Questa tesi Putnam l’aveva già analiticamente discussa in Fatto/ valore. La fine di una dicotomia (2002), Fazi, Roma 2004.

[10] B. LATOUR, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, trad. it. M. Gregorio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 3.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem (corsivo dell’autore).

[13] Ivi, p. 5 (corsivo dell’autore).

[14] Ivi, p. 7 (corsivo dell’autore).

[15] G. MARRONE, Addio alla natura, Einaudi, Torino 2011.

[16] Ivi, p. 39.

[17] U. ECO, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1997.

[18] Ivi, p. 8.

[19] Ivi, p. 14.

[20] U. ECO, Introduzione a I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990, p. 12.

[21] Ivi, p. 13.

[22] U. ECO, Livelli di lettura, in Spazi e confini tra Novecento e Duemila, Atti del Convegno di Forlì (3-6 marzo 1999), a cura di A. Casadei, Pendragon, Bologna 2002, pp. 27-41.

[23] P. LEGRENZI, La visione che ci restituisce il mondo, «La Repubblica», 26 agosto 2011, p. 48.

[24] S. ZACCHINI, La Collana di Armonia. Kant, Poincaré, Feyerabend e la crisi dell’episteme, Franco Angeli, Milano 2010, p. 156 (corsivo dell’autore).

[25] F. JAMESON, Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (1991), con pref. dell’autore, postf. di D. Giglioli, trad. it. M. Manganelli, Fazi, Roma 2007.

[26] E. BELLONE, Qualcosa là fuori. Come il cervello crea la realtà, Codice Edizioni, Torino 2011, p. 4.

[27] Ivi, p. XIII.

[28] Ivi, p. 54.

[29] Si veda il denso volume collettaneo Percezione, rappresentazione, coscienza. Questioni filosofiche e problemi epistemologici, a cura di L. Pastore e S. Dellantonio, ETS, Pisa 2009.

[30] U. ECO, Kant e l’ornitorinco, cit., p. 113 (corsivo dell’autore).

[31] R. LUPERINI, Una nuova razionalità, in Poesia italiana della contraddizione, a cura di F. Cavallo e M. Lunetta, Newton Compton 1989, pp. 300-301.

[32] R. LUPERINI, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica, Laterza, Bari-Roma 1999.

[33] WU MING, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino 2009.

[34] D. GIGLIOLI, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodlibet, Macerata 2011.

[35] Ivi, p. 18.

[36] Ivi, p. 10.

[37] A. MAZZARELLA, Politiche dell’irrealtà. Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib, Bollati Boringhieri, Torino 2011.

[38] M. FERRARIS, Postmoderni o realisti? L’addio al pensiero debole che divide i filosofi, «La Repubblica», 19 agosto 2011, p. 48.

[39] M. FERRARIS, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009.

[40] M. FERRARIS, Estetica come “aisthesis”, in Dopo l’estetica, a cura di L. Russo, Aesthetica Preprint 2010, p. 111.

[41] D. DOLEŽEL, Poetica occidentale. Tradizione e progresso, a cura di A. Conte, Einaudi, Torino 1990.

[42] Ivi, p. 50.

[43] Ibidem.

[44] M. FERRARIS, Goodbye Kant! Cosa resta oggi della «Critica della ragion pura», Bompiani, Milano 2004.

[45] M. FERRARIS, Postmoderni o realisti? L’addio al pensiero debole che divide i filosofi, cit., p. 36.

[46] J. R. SEARLE, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 2006, p. 188.

[47] Ivi, p. 175.

[48] Ibidem.

[49] Ivi, p. 176 (corsivo dell’autore).

[50] Ivi, p. 204.

[51] Ivi, p. 200.

[52] A. ZANZOTTO, Vissuto poetico e corpo, in Le poesie e le prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, con due saggi di S. Agosti e F. Bandini, Mondadori “I Meridiani”, Milano 20035, p. 1250.

[53] A. ZANZOTTO, Su «Il Galateo in bosco», in Le poesie e le prose scelte, cit., p. 1219.

[54] Ibidem.

[55] N. LORENZINI, Zanzotto: “Natura” in display. Citazione e “mise en abîme”, in La poesia: tecniche d’ascolto. Ungaretti Rosselli Sereni Porta Zanzotto Sanguineti, Manni, Lecce 2003, p. 169.

[56] A. ZANZOTTO, Ipersonetto, a cura di L. Tassoni, Carocci, Roma 2001, p. 9.

[57] A. PORTA, Il gardo zero della poesia, in «Marcatrè», 2, 1964; ora in Tutte le poesie (1956-1989), a cura di N. Lorenzini, Garzanti 2009, p. 613 (corsivo dell’autore).

[58] N. LORENZINI, Corpo e poesia nel Novecento italiano, Bruno Mondadori, Milano 2009.

[59] Ivi, p. 2.

[60] A. CORTELLESSA, La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti dal 1940 a oggi, Fazi, Roma 2006.

[61] G. POLICASTRO, Sanguineti, Palumbo, Palermo 2009, pp. 10-11 (corsivi dell’autrice).

[62] Si veda, per una ricca e puntigliosa ricostruzione inter/ipo/para/meta-testuale di Laborintus, inscindibile da un’assunzione materialistica degli elementi verbali, l’ampia indagine di Erminio Risso, in “Laborintus” di Edoardo Sanguineti. Testo e commento, Manni, Lecce 2006.

[63] G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna 2005.

[64] M. FERRARIS, Epistemologia ad personam, in «MicroMega», cit., p. 91.

[65] P. PARRINI, Il valore della verità, Guerini e Associati, Milano 2011.

[66] H. J. SANDKÜLER, Cosa vuol dire “rappresentare” la realtà nella conoscenza?, in Percezione, rappresentazione, coscienza, cit., p. 64 (corsivi dell’autore).

[67] Su questo controverso argomento, leggere H. PUTNAM, Etica senza ontologia, cit.

[68] W.v.O. QUINE, Che cosa c’è (1948), in Da un punto di vista logico, Cortina, Milano 2004.

[69] S. REGAZZONI, Il Neorealismo vintage di Maurizio Ferraris, sul sito “Affaritaliani.it”, 02-09-2011.

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