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Intervista a Slavoj Zizek

di Benedetto Vecchi

La crisi del capitalismo alimenta la crescita in Europa di un inquietante e autoritario populismo che ha in Silvio Berlusconi il maggiore interprete. Ma apre anche inediti spazi per una politica che tenda al suo superamento. Un'intervista con il filosofo sloveno in occasione dell'uscita del libro «Dalla tragedia alla farsa»

Slavoj Zizek è un torrente in piena difficile da incanalare quando parla. Inizia con estemporanee impressioni sulla vita in una città un po' metropoli un po' paesotto di provincia come è Roma e ci si ritrova, non si sa come, a Copenaghen e commentare i risultati del summit lì tenuto sul cambiamento climatico. L'intervista nasce dopo la lettura del suo nuovo libro - Dalla tragedia alla farsa, Ponte delle Grazie (pp. 205, euro 15) -, che poco o nulla concede però alla sua eclettica ricerca della provocazione sulle aporie del capitalismo contemporaneo. Scritto con stile sobrio, analizza il mondo dopo la crisi economica e la tendenza di molti governi a intervenire, attraverso il finanziamento dei debiti delle banche e delle grandi imprese finanziarie, per evitare ciò che solo fino a pochi anni fa sembrava il plot di un inimmagginabile film di fantascienza sul il crollo del capitalismo.

Con il suo nuovo libro vuole tuttavia prendere le distanze dalle posizioni teoriche di molti studiosi marxisti che hanno sempre visto il neoliberismo come una parentesi che prima o poi sarebbe stata sostituita da una realtà sociale e politica più consona alle leggi economiche, concedendo così pochi spazi ai rentiers che si sono arricchiti con le follie speculative degli ultimi decenni. Per Zizek, il neoliberismo è stata invece una vera e propria controrivoluzione che ha cancellato la costituzione materiale e formale uscita dalla seconda guerra mondiale dove il capitalismo era sinonimo di democrazia rappresentativa. Agli inizi del terzo millennio, la controrivoluzione ha però finito il suo mandato, aprendo spazi a una politica radicale - Zizek, in sintonia con il filosofo francese Alain Badiou la chiama enfaticamente «ipotesi comunista» - che deve però avere il coraggio di sperimentare ordini del discorso comprensibili.
Il filosofo sloveno non chiude però gli occhi sul fatto che i segnali proveniente da tutta Europa danno in ascesa proprio a una destra populista che conquista consensi laddove i partiti socialdemocratici erano tradizionalmente forti, come in Olanda, Norvegia, Svezia. E ironico è anche con i democratici e radical statunitensi, che «negli Stati Uniti, dopo aver salutato l'elezione di Obama alla Casa Bianca come un evento divino, ora si dilettano a discutere se sia politicamente più incisivo Avatar di James Cameron o The Hurt Locker di Kathryn Bigelow».

 

In un suo articolo lei ha lanciato strali contro «Avatar», definendolo un film impolitico. Eppure nel film di Cameron ci sono forti richiami tanto alla guerra in Iraq o alla distruzione della foresta amazzonica: in entrambi i casi i cattivi sono le multinazionali.....

Il film di James Cameron è piacevole, divertente, un'opera innovativa dal punto di vista dell'uso delle tecnologie digitali. Non sono però convinto di quanto sostengono quei critici radicali che negli Stati Uniti sono chiamati l'ala marxista di Hollywood. Hanno scritto che Avatar mette in scena la lotta di classe e la lotta dei poveri contro i ricchi per autodeterminare la loro vita. C'è un pianeta, Pandora, che viene invaso da truppe mercenarie al soldo delle multinazionali per essere depredato delle sue risorse naturali, mettendo così in pericolo il millenario equilibrio che i viventi hanno stabilito con il lussureggiante ecosistema. Possiamo certo stabilire analogie con quanto le multinazionali e i paesi imperialisti fanno con la foresta amazzonica o con l'Iraq o con tutte quelle realtà dove sono ci sono fonti energetiche e materie prime fondamentali per la produzione della ricchezza. Nel film, gli aborigeni di Pandora, in nome di una visione olistica del rapporto con la natura, si oppongono al capitalismo, vincendo alla fine la loro battaglia. Ma la natura è un prodotto culturale che cambia con il mutare dei rapporti sociali.
Gli esseri umani hanno sempre attinto dalla natura i mezzi per vivere e riprodursi come specie. Ma così facendo, hanno trasformato la natura. Non è quindi tornando a un'idealizzata età dell'oro, come invece propone James Cameron, che si può sconfiggere il capitalismo. Avatar è pura fantasy, affascinante certo, ma sempre di fantasy si tratta.

 

Lei ha spesso sottolineato che il populismo sia una malattia del Politico. Non le sembra invece che il populismo, più che una malattia, sia la forma politica che meglio di altre si addice al capitalismo contemporaneo?

Fino a una manciata di anni fa veniva affermato che il capitalismo era sinonimo di democrazia nella sua forma liberale, fondata sulla tolleranza, il multiculturalismo e il politically correct. Ora, invece, assistiamo a forze o leaders politici che invocano la mobilitazione del popolo per combattere i nemici dello stile di vita moderno. Il filosofo argentino Ernesto Laclau ha analizzato a fondo la logica del populismo, sostenendo che ne esiste una variante di sinistra e una variante di destra. Compito del pensiero critico consisterebbe nell'evitarne la deriva a destra. Non sono d'accordo con questa posizione. In primo luogo, il populismo è sempre di destra. Inoltre il popolo è, come la natura, un'invenzione. Laclau ritiene che per farlo diventare realtà occorre immaginare un universale che racchiuda e superi le differenze al suo interno. Da qui la necessità di individuare un nemico che impedisce la costituzione del popolo. Non è un caso quindi che la forma compiuta del populismo sia l'antisemitismo, perché indica un nemico che vive tra noi. Lo stesso fanno i populisti contemporanei quando indicano nei migranti la quinta colonna tra noi.

 

D'accordo con lei che il populismo indirizza il conflitto verso nemici di comodo per occultare il regime di sfruttamento del capitalismo. Questo vuol dire che occupa uno spazio politico abbandonato, ad esempio, dalla sinistra. Come rioccupare dunque quello spazio?

Walter Benjamin ha scritto che il fascismo emerge laddove una rivoluzione è stata sconfitta. Un concetto che applicato alla realtà contemporanea spiega il fatto che il populismo emerge quando l'ipotesi comunista, che non coincide con il socialismo reale, è stata cancellata dalla discussione pubblica. Nel frattempo, nel tollerante capitalismo contemporaneo assistiamo a campagne mediatiche contro i migranti, perché attentano alla nostra sicurezza. Oppure siamo stati storditi da intellettuali che, come Bernard Henri-Levy, discettano a lungo sulla superiorità della civiltà occidentale e sul pericolo del rappresentato dal fondamentalismo islamico, qualificato come islamo-fascismo. Credo tuttavia che ci siano forti punti di contatto tra l'ideologia liberale e il populismo: entrambi sono pensieri politici che ritengono lo stile di vita capitalistico occidentale come l'unico mondo possibile. I liberali, in nome della superiorità della democrazia, i populisti in nome dell'unico stile di vita che il popolo si dà. Ci sono anche differenze. I liberali sono per imporre, anche con le armi, la democrazia e la tolleranza a chi democratico e tollerante non è; i populisti vogliono invece annichilire con forme soft di pulizia etnica le diversità culturali, sociali, di stile di vita. Può prevalere la democrazia liberale o il populismo a seconda delle specificità locale del capitalismo. Il populismo è quindi una delle forme politiche del capitalismo globale, ma non è l'unica. Anche se devo dire che il vostro Silvio Berlusconi, spesso giudicato come un guitto o un personaggio da operetta, è invece un leader politico da studiare con attenzione, perché cerca di coniugare democrazia liberale e populismo.

Silvio Berlusconi sta tuttavia accelerando una tendenza presente in tutto i sistemi politici democratici. Il suo operato punta infatti a modificare l'equilibrio dei poteri - legislativo, esecutivo, giudiziario - a vantaggio dell'esecutivo, in maniera tale che l'esecutivo sussuma sia il potere legislativo che quello giudiziario, ma senza cancellare i diritti civili e politici. Le elezioni sono considerate solo un sondaggio sull'operato dell'esecutivo. Se Berlusconi le perde, invoca allora la sovranità popolare da lui rappresentata. La forma politica che propone è sì una miscela tra democrazia e populismo, sebbene la sua idea di democrazia sia una democrazia postcostituzionale che fa dell'invenzione del popolo il suo tratto distintivo. Tutto ciò rende l'Italia, più che un paese anomalo, un inquietante laboratorio politico dove viene sviluppata una democrazia postcostituzionale. Da questo punto di vista, in Italia si sta costruendo il futuro dei sistemi politici occidentali...

 

Cosa intende per postcostituzionale?

Una democrazia che fa carta straccia della antica divisione e equilibrio tra potere esecutivo, legislativo e giuridico. Equilibrio dei poteri definito da tutte le costituzioni europee e dal «Bill of Rights» statunitense.....

In Europa tutto ciò è chiamato postdemocrazia. Certo, Silvio Berlusconi vuole superare la democrazia rappresentativa che abbiamo conosciuto nel capitalismo. Per questo è un leader politico che più di altri, penso al presidente francese Nicolas Sarkozy, ha una vision molto più chiara della posta in gioco nel capitalismo. Questo vuol dire che è più pericoloso di altri esponenti della destra europea o statunitense. Non ci troviamo quindi di fronte a un personaggio da operetta, che va a donne e promulga leggi ad personam. C'è anche questo. La tragedia presenta sempre momenti da operetta. C'è però tragedia quando si manifestano conflitti radicali, dove non c'è possibilità né di mediazione né di salvezza. Sarà quindi interessante vedere come evolverà la situazione italiana, che non rappresenta, e su questo sono d'accordo con lei, un'anomalia, ma un laboratorio politico il cui esisto condizionerà tantissimo il futuro politico dell'Europa. In Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca, Francia, Inghilterra ci sono infatti forze politiche populiste che raccolgono sempre più consensi elettorali grazie alle campagne antimigranti che conducono, ma non hanno quella radicalità che presenta la situazione italiana.
Detto questo non bisogna però sviluppare una visione apocalittica della realtà, Certo, c'è una guerra civile strisciante nelle società capitaliste; l'inquinamento ambientale ha raggiunto i livelli di guardia, la democrazia è ridotta a un simulacro, eppure non tutto è perso. Anzi come dimostra la recente crisi economica, quando tutto sembra perso si aprono spazi per un'azione politica radicale, che io chiamo comunista. Prendiamo il recente summit sull'ambiente tenuto nei mesi scorsi a Copenaghen. L'esito finale più che avere un esisto deludente è stato un disastro politico. Ci sono proposte, sconfitte nei lavori del summit, che indicano nella salvaguardia dell'ambiente una delle priorità per salvare il capitalismo. Potremmo pensare a un'alleanza tattica con chi le porta avanti. La crisi economica ha inoltre richiesto un'intervento dello stato per salvare dalla bancarotta imprese, banche e società finanziarie. Ma questo ha significato che il tabù sulla pericolosità dell'intervento regolativo dello stato è stato infranto. Questo potrebbe rafforzare i socialisti, cioè coloro che puntano a una redistribuzione del reddito e del potere. Non è la politica che io amo, ma apre spazi a proposte più radicali. In altri termini, ritorna forte l'idea comunista di trasformare la realtà. Ciò che propongo non è un mero esercizio di ottimismo della ragione, bensì la consapevolezza che ci sono forze e rapporti sociali che possono essere liberati dalla camicia di forza del capitalismo.
Toni Negri e Michael Hardt pensano che accentuando le caratteristiche del capitalismo postmoderno si creino le condizioni per il governo del comune, cioè del comunismo grazie a quelle che definisco le virtù prometeiche della moltitudine. Più realisticamente penso che occorre organizzare le forze sociali oppresse per un'azione praticabile nel presente e nell'immediato futuro.

 

Lei scrive, in sintonia con Alain Badiou, che il comunismo è un'idea eterna. Una politica «comunista» deve tuttavia ancorarsi a un'analisi dei rapporti sociali di produzione e delle forme che essi assumono in una contingenza storica. Si può essere d'accordo o in dissenso con le tesi di Negri e Hardt sul capitalismo cognitivo, ma i loro scritti segnalano proprio questa necessità. Altrimenti, il comunismo diventa una teologia politica, non crede?

Non credo che, come fanno Hardt e Negri, con lo sviluppo capitalista le forze produttive entrino, prima o poi, in rotta di collisione con i rapporti sociali di produzione. Occorre infatti agire politicamente affinché ciò accada. È questa l'eredità di Lenin che non potrà mai essere cancellata. Usciamo però fuori dai sacri testi e guardiamo al capitalismo reale. Esiste certo uno strato di forza-lavoro cognitiva, ma anche . chi continua a lavorare in fabbrica e chi, come i migranti, sono ridotti in una condizione di sottomissione servile nel processo lavorativo. Per non gettare nella discarica della storia questi «esclusi» o «marginali», serve cioè una forte immaginazione politica per ricomporre e unire i diversi strati della forza-lavoro. La teologia è sempre affascinante, ma quando dico che l'idea comunista è eterna mi riferisco al fatto che è una costante della storia umana la tensione a superare le condizioni di illibertà e sfruttamento. Per questo, il comunismo torna sempre, anche quando tutto faceva prevedere che fosse rimasto definitivamente sepolto sotto le macerie del socialismo reale.

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