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Lezioni da riscrivere per la teoria economica

di Armanda Cetrulo

La crisi non ha prodotto un cambiamento della didattica nelle università. Noi studenti sentiamo ripetere le stesse lezioni come se nulla fosse accaduto. È l’ora di cambiare registro. O cambiare i maestri?

Il 2 novembre, alcuni studenti di Harvard hanno deciso di non seguire la lezione del corso di Introduzione all’Economia del professor Mankiw, ex consigliere economico di Bush, oggi consulente di Mitt Romney. La protesta, che alcuni hanno etichettato come ideologica, pone in realtà una serie di interrogativi essenziali su cui studenti e docenti dovrebbero interrogarsi. Nella lettera aperta rivolta al professor Mankiw, gli studenti “criticano fortemente il metodo di studio del corso, basato su un punto di vista sull’economia che favorisce il perpetuarsi delle disuguaglianze economiche nella nostra società” e lamentano la totale assenza di confronto tra le diverse teorie economiche. Essi identificano due problematiche tra loro connesse: da una parte l’influenza e la responsabilità che un certo approccio all’economia ha rivestito nella costruzione delle nostre società, nella scelta delle politiche economiche adottate dalle grandi istituzioni internazionali (composte spesso da ex studenti della prestigiosa università) e nel dibattito attuale sulle misure necessarie per uscire dalla crisi; dall’altra, una questione più scientifica e didattica, che interroga il modo in cui l’economia viene insegnata nelle università ai giovani studenti.

Già con lo scoppio della crisi americana si era sviluppato un movimento che aveva l’obiettivo di individuare i testi economici “tossici”, poiché basati su false convinzioni e su una visione limitata dell’economia. Oggi sono diversi i siti che riprendono questi temi, come il Kickitover.org o il sito Econ4 (1) e molti economisti hanno letto, nella crisi economica, anche una deriva della teoria che ha dominato gli ultimi 30 anni. (2) Se è vero allora che le ipotesi e i presupposti logici su cui la teoria economica dominante si basa sono oggi messi in discussione dalla realtà dei fatti, non possiamo certo dire che stia avvenendo altrettanto all’interno delle università, in particolare nelle facoltà di economia.

 

Se osserviamo i piani di studio dei corsi triennali di scienze economiche, ci appaiono immediatamente alcune criticità. In molti percorsi formativi, per esempio, il corso di storia economica è spesso facoltativo. Ciò significa che uno studente potrebbe facilmente laurearsi in economia pur ignorando completamente gli eventi che hanno portato alla crisi del 1929 e le sue conseguenze; potrebbe aver studiato i vari regimi di cambio, tra cui il regime di “gold exchange standard” nel corso di economia internazionale, senza sapere cosa abbia rappresentato storicamente Bretton Woods. Sul fronte della storia del pensiero economico, la situazione è di gran lunga peggiore.

Manca quasi ovunque un corso obbligatorio e, laddove previsto, esso difficilmente fornisce una visione di ampio respiro: nella maggior parte dei casi, Marx è vittima di un’azione di rimozione collettiva, simile ad un trauma o ad un tabù di cui è meglio non parlare; i pochi professori che si richiamano a teorie marxiste difficilmente rendono pubbliche le loro posizioni e se lo fanno diventano dei veri e propri outsider, fantasmi accademici. Di Keynes si studia per lo più il modello IS-LM di Hicks e la successiva sintesi-neoclassica, quel “keynesismo bastardo“ che secondo la definizione di Joan Robinson tradiva le idee originarie del maestro. Delle teorie sull’instabilità del capitalismo di Minsky, che pure potrebbero essere di grande interesse oggi, non c’è traccia. In generale, gli studenti di economia restano spesso all’oscuro dell’esistenza di teorie economiche eterodosse e non studiano i loro maggiori esponenti, come Sraffa.

Si potrebbe obiettare che queste teorie presentano una difficoltà di comprensione maggiore e che risulta quindi necessaria una formazione preliminare adeguata per poter affrontare alcuni aspetti critici; oppure si potrebbe replicare che nei corsi introduttivi non è didatticamente sostenibile offrire una visione globale e contrastante dell’economia. Di fatto, come studentessa, mi sembra decisamente più pericoloso offrire allo studente una visione “edulcorata” e “pacificata” dell’economia. Lo studente del primo anno, infatti, vive una vera e propria “illuminazione”: egli si avvicina all’economia con una certa preoccupazione, consapevole della complessità della materia, dati i suoi profondi legami con l’analisi storica, sociale e politica. Invece, al corso introduttivo di economia, la scoperta! Tutto è molto più semplice di quanto egli credesse: nei primi modelli che studia si parla di concorrenza perfetta, non ci sono lavoratori o imprese ma semplici operatori economici, razionali e dotati di perfetta informazione, capaci di scambiare beni facendo esclusivamente riferimento al prezzo che convergerà naturalmente all’equilibrio, nel punto esatto in cui domanda e offerta si “incontrano”. In questa interpretazione dei mercati, lo studente, affascinato e confortato dalla razionalità dell’“homo oeconomicus”, si convince che l’unico reale ostacolo che si pone innanzi a lui sia rappresentato dalla risoluzione di qualche equazione differenziale e di qualche integrale, dal calcolo di una varianza, ma di certo non dalle particolarità del mercato del lavoro, dai processi di distribuzione del reddito o da mitologici conflitti (di classe?) tra anonimi operatori economici. Ovviamente, man mano che lo studio avanza, lo studente si accorge che la realtà è molto diversa da quanto inizialmente aveva creduto e imparato, anche se nel lungo periodo è certo che la domanda e l’offerta finiranno per incontrarsi di nuovo nel punto di equilibrio. Ma non è detto che egli davvero voglia o sia messo in condizione di approfondire le problematicità della materia economica. Il punto è proprio questo! All’inizio viene richiesto allo studente uno sforzo estremo di semplificazione dell’analisi economica al fine, si sostiene, di fornire gli strumenti analitici necessari per comprendere la realtà; ma non è assolutamente detto che a fronte di questa semplificazione segua poi un’effettiva analisi problematica dei fenomeni economici, aggravata dalla scarsa attenzione rivolta alle differenti teorie e agli approcci critici e dalla assenza di una formazione storico-economica. In ogni caso, proprio nel momento in cui lo studente è maggiormente ricettivo e curioso, cioè all’inizio della sua carriera universitaria, questi viene spinto a leggere la realtà economica in maniera limitata, auto-referenziale, sulla base di quella che Bourdieu definì “un’astrazione originaria, che consiste nel dissociare una particolare categoria di pratiche, o una particolare dimensione di ogni pratica, dall’ordine sociale, nel quale ogni pratica sociale è immersa” (3). Sarebbe invece molto più stimolante offrire una visione quanto più ampia possibile dell’economia, persino conflittuale, che tenga anche conto della discussione tra le diverse teorie e che sia basata su una certa interdisciplinarietà. È come se dopo essersi premurati di spegnere un fuoco (la curiosità dello studente e il suo spirito critico), bagnando tutta la legna si pretendesse di accendere un falò con un fiammifero. In alcuni casi riesce, in altri no. Una grossa responsabilità ricade sui docenti economisti e sulle loro modalità di insegnamento e ricerca. Sylos Labini aveva evidenziato questo aspetto affermando che: “una frazione crescente di coloro che si presentano come economisti tende a trascurare l’oggetto sociale della disciplina per concentrare tutto il proprio interesse nello studio di strumenti analitici più raffinati.” (4) Nel contesto attuale, è allora necessario ripensare il ruolo sociale che l’economista svolge all’interno di una società e le modalità di insegnamento dell’economia che oggi appaiono molto più ideologiche di quanto si voglia ammettere, proprio perché tendono ad escludere visioni critiche ed alternative. Come ricordava Federico Caffè: “il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la progressiva estensione delle idee”. (5)

Su questi temi, si è comunque avviato un dibattito. Alcuni esempi sono il convegno nel 2010 “The global crisis” in cui si è discusso di interpretazioni alternative della crisi (6) o il “Manifesto per la libertà del pensiero economico” (7) che sottolinea “l’urgenza di aprire un ampio,libero e paritetico confronto tra le diverse scuole di pensiero economico”. Tutto ciò però non è sufficiente: è necessario uno sforzo d’analisi maggiore ed una condivisione capillare di tali temi, poiché il futuro che ci attende alla fine di questa crisi dipende dalla capacitàdi noi tutti, studenti, cittadini, lavoratori e movimenti sociali, di ripensare un nuovo modello di sviluppo basato su diversi rapporti di forza e di elaborare una discussione concreta su cosa, come e quanto produrre, imponendo questi temi all’agenda politica. Per fare ciò è necessario un nuovo linguaggio che sia “capace di esprimere quella che oggi è la nostra effettiva mancanza di libertà” offuscata dalle infinite e vacue libertà di consumo che ci vengono continuamente offerte e dall’“illusione della democrazia” occidentale in cui viviamo. Così, un nuovo punto di vista potrebbe nascere a partire da una rivoluzione della didattica all’interno delle nostre università, attraverso un insegnamento che provi ad indagare la realtà economica nella sua complessità e nelle sue differenti implicazioni sociali, che sappia alimentare con ardore lo spirito critico degli studenti per riscrivere con quell’inchiostro rosso, di cui Zizek parlava agli occupanti di Wall Street, lo stato presente delle cose. (8)

 

(1) I due siti promuovono entrambi un cambiamento radicale nell’insegnamento delle materie economiche.
(2) L’economista Joseph Stiglitz, per esempio, ha parlato di una crisi ideologica (www.project-syndicate.org)
(3) Pierre Bourdieu, Le strutture sociali dell’economia, Asterios 2004
(4) Repubblica, 30 settembre 1988
(5) Federico Caffè (1982) La solitudine del riformista, Il manifesto
(6) E. Brancaccio and G. Fontana (2011).The Global Economic Crisis. Routledge, London
(7) www.syloslabini.info
(8) www.carta.org

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