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Bellofiore, considerazioni su crisi, Europa e… barbarie

di Alfonso Gianni

«Il primo dovere della sinistra è - puramente e semplicemente - il rigetto senza ambiguità delle politiche di austerità», afferma perentoriamente Riccardo Bellofiore in La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra (Trieste, Asterios, 2012, pp. 74, euro 7). Il libro, di poca mole ma di grande sostanza, (che reca in esergo un verso di Heinrich Heine, «Il posto è vacante! Le ferite aperte» dedicato alla memoria di Edoarda Masi e Lucio Magri) esce accompagnato dal suo gemello La crisi capitalistica, la barbarie che avanza (Trieste, Asterios, pp. 77, euro 7). L’argomento è la grande crisi economica mondiale, ma più esattamente si dovrebbe dire il marxismo e la crisi. Il nocciolo di entrambi i libri consiste, infatti, nella critica da un punto di vista marxista delle diverse letture della crisi e allo stesso tempo nella critica dei comportamenti della sinistra di fronte alla crisi.

Va da sé, infatti, che l’affermazione di cui sopra non sta avendo i successi desiderati. La sinistra moderata, quella che Bellofiore definisce social-liberista, non solo ai tempi di Toni Blair, ma nelle spire di una crisi che per l’Europa, con l’eccezione della Germania e del suo satellite, la Polonia, appare ancora più grave di quella che prese le mosse dal crollo di Wall Street nell’ottobre del 1929, ha assunto pratiche e atteggiamenti anche più liberisti del neoliberismo, mettendo in mostra il tipico entusiasmo dei parvenu. Quando questa rivista uscirà dalla tipografia, sarà già stata modificata la nostra Costituzione, con l’introduzione nell’articolo 81 dell’obbligo del pareggio di bilancio, vero mantra del credo neoliberista.

E ciò sarà probabilmente avvenuto - che bello se mi sbagliassi! - con la maggioranza abbondante dei due terzi delle Camere, il che impedisce la convocazione di un referendum popolare. Dopo di che sarà la volta della ratifica del fiscal compact, ovvero della modifica dei trattati europei che impone la drastica riduzione dello stock del debito pubblico da qui ai prossimi venti anni, in ragione di tre punti di Pil ogni anno, con buona pace di qualunque seppure timida autonomia delle politiche di bilancio dei singoli stati.

A chiedere una ratifica in tempi addirittura affrettati è un appello italo-tedesco, firmato anche da intellettuali di prestigio della sinistra solitamente inclini a un atteggiamento critico, che peraltro appare persino in controtendenza rispetto ai propositi di revisione dei recenti accordi esibiti da Hollande nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali francesi.

A quel testo se ne oppone un altro - che però, a differenza del primo non ha avuto l’onore delle prime pagine dei giornali - firmato da autorevoli esponenti del sindacato tedesco e da grandi figure del mondo della cultura europea quali Habermas e Altvater, che giustamente afferma che il fiscal compact e l’insieme della strumentazione di governance che la Ue recentemente si è data minacciano di «compromettere in modo irreparabile la democrazia politica e sociale nei paesi della Ue».

Ma per Bellofiore non è certo bastevole la testimonianza e nemmeno la resistenza. E’ necessario, invece, «senza cadere nella facile retorica contro il debito pubblico, che tanto seduce il manifesto, resistendo all’equivoco della decrescita», condurre «con forza la battaglia per la sostituzione della crescita quantitativa di matrice capitalistica, orientata al valore di scambio, di uno sviluppo qualitativo, il cui asse siano i valori d’uso di cui è fatta la ‘riproduzione’ sotto attacco a tutti i livelli». La condizione di tutto questo, come anche raccomandava Hyman Minsky, di cui Riccardo Bellofiore è il massimo studioso italiano, «è una strategia di ‘socializzazione’ del livello e della composizione della produzione, di cosa e come produrre».

Bellofiore perviene a queste radicali conclusioni, che ho voluto anticipare per sottolineare il taglio non puramente analitico, ma acutamente polemista dei due saggi, sulla base di un denso esame delle cause che hanno provocato l’attuale crisi mondiale e della critica delle varie letture che ad essa vengono date. L’Autore non è tenero nell’escludere dal proprio campo analitico tutte le tesi di coloro che si credono “marxisti ortodossi” e che leggono la «finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio di profitto». Quest’ultima è tutt’altro che estranea alle cause delle crisi ma deve essere interpretata come “meta-teoria” ossia capace di inglobare tutte le teorie della crisi che si trovano nella massima opera di Marx.

Bellofiore procede quindi a una puntuale analisi delle stesse e delle interpretazioni successive nei vari marxismi che si sono succeduti lungo il Novecento, con un’attenzione privilegiata all’amata Luxemburg, la cui celebre dicotomia “socialismo o barbarie” chiude il volume, quello più teorico dei due, di Bellofiore. La sua intenzione è giungere a «una lettura unitaria e diacronica della teoria marxiana della crisi», strumento indispensabile per un’analisi corretta della crisi attuale. Se nega ogni interpretazione meccanica della caduta del saggio di profitto, Bellofiore ritiene perfettamente possibile che la «crescita del saggio di plusvalore sia di fatto inferiore alla crescita della composizione in valore del capitale», ottenendo per quella via una caduta del saggio di profitto.

Diventa quindi cruciale per Bellofiore ricostruire la storia del concreto sviluppo capitalistico dell’inizio del Novecento come un processo di destrutturazione della composizione di classe operaia attraverso quello che verrà chiamato il sistema taylorista. In questo modo viene spinto in alto il saggio del plusvalore, unendo al plusvalore relativo quello assoluto, ottenendo così di moderare la depressione del saggio di profitto. Ma così facendo il capitale si espone concretamente a un altro rischio: quello di provocare la riduzione della quota dei consumi a disposizione dei lavoratori e quindi di incorrere in una crisi da realizzazione.

L’eccesso di offerta, ovvero la crisi di sovrapproduzione, può esser combattuta o quantomeno contrastata solo con un intervento massiccio del credito e della finanza, tale da agire come stimolo tanto sugli investimenti che sui consumi. Ed è quanto è effettivamente avvenuto. L’analisi delle crisi non può quindi prescindere da «una visione da subito monetaria e finanziaria del processo capitalistico». Su questo Bellofiore insiste con forza, giustamente e a più riprese nei due testi, offrendoci quindi una lettura della crisi attuale, non solo all’altezza della gigantesca finanziarizzazione del moderno sistema capitalistico, ma facendone conoscere le ragioni interne che l’hanno portato a questo punto.

Il tutto si fonda su una concezione, per così dire, molto compatta della teoria marxiana. Bellofiore, infatti, è uno dei protagonisti di quella Marx renaissance di cui parliamo in altra parte di questa rivista. «Il lavoro astratto… ha come risultato il valore» - scrive Bellofiore -. Il valore «è niente altro che un cristallo di lavoro oggettivato contenuto nella merce che deve autonomizzarsi e assumere necessariamente forma monetaria». Quindi «il valore si costituisce all’incrocio tra produzione e circolazione delle merci». Per tutte queste ragioni è in errore chi separa «l’analisi reale» da quella «monetaria».

Bellofiore ci rammenta che merito di Marx è stato quello di disvelare l’inganno contenuto nella pretesa del capitale di porsi come soggetto autosufficiente e ricorre alla famosa metafora del vampiro, che succhia fluido vitale dal lavoro vivo. Ma questo significa non solo che il lavoro viene incluso nel capitale, ma anche che quest’ultimo dipende dal lavoro. Il quale sulla scena sociale non è un’entità astratta. Il capitale acquista sul mercato la forza-lavoro e ha tutto il diritto di usarla, ma questa al contempo è dei lavoratori.

In questa potente costruzione duale, che regola l’intero ambito sociale, il capitale deve condurre un’incessante lotta di classe nella produzione, nel mercato e nella società. Ben lo ha compreso, a differenza di tanta sinistra, il miliardario Warren Buffet, quando affermò pochi anni orsono che la lotta di classe esisteva tanto è vero che loro la stavano vincendo.

Nelle vicende economiche entra quindi la potenza della soggettività, quel “residuo”, avrebbe detto Claudio Napoleoni, di irriducibilità alle leggi del capitale che per quanto mortificato, battuto e frantumato, sempre resiste e si riproduce dentro i modi di produzione capitalistica. Lo verifichiamo costantemente nell’analisi dei conflitti sociali nei luoghi di produzione - la Cina ne è un esempio - che si realizzano nei nuovi territori di conquista del capitale. Questo, osserva l’Autore, ci può quindi salvare da qualunque «ottica crollista, puramente oggettivista» della crisi sistemica.

Questo punto analitico conduce Bellofiore a una polemica contro un’interpretazione agiografica dei cosiddetti trenta anni gloriosi del capitalismo. Già Robert Reich lo aveva fatto, ma Bellofiore è ancora più severo nel considerare l’intero periodo piuttosto che come un’età dell’oro, come un’età del ferro dal punto di vista dei lavoratori. Non v’è dubbio che i vantaggi per il capitale in quel lungo periodo siano stati di gran lunga superiori a quelli dei lavoratori, che lo sfruttamento intensivo dei medesimi sia servito a fondare le fortune e il potere del primo, resta altrettanto vero che in quel periodo crescendo il capitale cresceva contemporaneamente la classe operaia, il che aveva permesso alla medesima di ottenere conquiste sociali di grande rilievo.

Vi è qui forse una sottovalutazione del ruolo e del significato che ebbe la costruzione dei sistemi di welfare per quanto riguarda il loro impatto sul sistema produttivo, nel senso che essi rispondevano a bisogni divenuti con le lotte diritti, producendo valori d’uso. Tanto è vero che le gambe su cui si è mossa la reazione del capitale dopo la grande contestazione della fine degli anni Sessanta e dei primi Settanta, non si è articolata solo, come dice Bellofiore, sulla frantumazione del lavoro e la finanziarizzazione, ma anche, e considerevolmente, sulla distruzione del welfare state e la sostituzione di ciò che era pubblico con ciò che è privato, aprendo quindi nuovi campi per un rilancio dell’accumulazione. In altre parole non abbiamo solo conosciuto il keynesismo di guerra o, successivamente, il «keynesismo privatizzato» (definizione efficacissima che ben si attaglia alla situazione attuale), ma anche un nuovo ruolo del pubblico rispetto a quello di pura ancella del sistema capitalistico.

Certamente, ed è di nuovo Bellofiore che parla, «la messa in questione della valorizzazione nel luogo centrale della produzione capitalistica… esigeva un prolungamento in uno sbocco politico che non ci fu». Così la globalizzazione neoliberista ha potuto dispiegare appieno la sua potenza, attraverso quell’originale processo di «centralizzazione senza concentrazione» che la caratterizza e la distingue da altre fasi precedenti di globalizzazione, come quella fra il 1870 e il 1914, o quella dei “trenta gloriosi” tra il 1945 e il 1975.

Bellofiore ci fornisce un suggerimento prezioso, che è al contempo una forte traccia di ricerca, quello di avvalersi, per meglio comprendere in particolare i processi dell’ultima parte del Novecento, dell’opera teorica di un economista keynesiano, quale Hyman Minsky e di quello di un economista marxista, quale Paul Sweezy, entrambi, constata con compiacimento Bellofiore, «alquanto eretici nei rispettivi campi». Suggerimento da condividere, e soprattutto da praticare, perché, per questa strada, si potrebbe avvicinare Marx a Keynes e viceversa, allontanando l’accoppiata deleteria Keynes-Schumpeter che invece viene più o meno esplicitamente suggerita dal pensiero dominante.

I testi di Bellofiore ci sono quindi utilissimi per conoscere i processi profondi che sono in atto e indispensabili per rispondere a una domanda cruciale. La stessa che si pone Colin Crouch nel suo recente The strange no-death of neoliberalism, ovvero come mai dopo le sconfitte e le falsificazioni subite il neoliberismo torna a farla da padrone in Europa e non solo?

 

Riccardo Bellofiore
La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra
Edizioni Asterios, 2012,
pp. 74, euro 7
Riccardo Bellofiore
La crisi capitalistica, la barbarie che avanza
Edizioni Asterios, 2012,
pp. 77, euro 7

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