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consecutio temporum

La crisi secondo Riccardo Bellofiore

di Oscar Oddi

Recensione a “La crisi capitalistica, la barbarie che avanza”, Asterios, 2012; “La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra”, Asterios, 2012.

La crisi divampata (ma non improvvisa) nel 2007-2008, i cui terrificanti effetti sul tessuto economico, sociale e politico sono ora dispiegati in tutta la loro potenza distruttrice (si pensi alla Grecia, “modello” di azzeramento della sovranità e della democrazia reale, pronto ad essere esportato nel resto d’Europa) hanno colto la “sinistra” (in tutte le sue diramazione, compresa quel che resta di quella così detta ”radicale”) completamente spiazzata, impreparata, afona. Ridotta all’irrilevanza teorico-organizzativa, frutto di decenni di “sbornie” post-moderniste e moltitudinarie-imperiali, quando non addirittura fautrice (coscientemente o meno) dell’ideologia (neo)liberale, si trova oggi in una condizione di totale cecità rispetto alla genesi e agli sviluppi di tale crisi, e dunque sulle politiche da proporre per uscirne da una posizione di “classe”. In questo quadro sono i benvenuti questi due piccoli (come formato e pagine, non certo per la pregnante qualità di contenuto e significato) ma preziosi volumi di Riccardo Bellofiore, (“La crisi capitalistica, la barbarie che avanza”, Asterios, Trieste, 2012,  pp. 80, € 7,00, e “La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra”, Asterios, Trieste, 2012, pp. 80, € 7,00,) facente parte di quella schiera, ormai ridottissima, di autori che tentano di pensare ancora con gli strumenti forniti dal “cantiere” marxiano, e dunque, proprio per questo,  del tutto inascoltati.

Nel primo di essi, quello più “teoretico”, dove si pongono le basi analitiche che sostengono la visione dell’attuale crisi poi sviluppata più ampiamente nel secondo, si analizzano i due principali percorsi interpretativi sulla crisi che si richiamano a Marx, perorandone la sua attualità: quello, proprio di quei marxisti che si ritengono “ortodossi” rispetto all’analisi marxiana, che legge la finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio di profitto, e che per questo vede una lunga tendenza alla stagnazione iniziata negli anni Sessanta del Novecento (tra i fautori di questa posizione, tenendo ben presenti le differenze esistenti tra loro, si possono annoverare Guglielmo Carchedi, Alan Freeman e Andrew Kliman); e quello, propugnato da marxisti influenzati dalla lezione keynesiana e neoricardiana, che fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizzazione, cioè da insufficienza da domanda. Questo secondo percorso sottolinea i mutamenti nella distribuzione dei redditi avvenuta dagli anni Ottanta del Novecento sotto l’impulso della “controrivoluzione” monetarista, con una caduta della quota salari, argomentando che la ragione di fondo della crisi sia appunto l’insufficienza della domanda dei consumi (si pensi, con tutte le approssimazioni del caso, ad Emiliano Brancaccio). Entrambe le interpretazioni pensano che l’attuale crisi covi da tempo, e che altro non sarebbe che la crisi di un capitalismo asfittico, ormai perennemente stagnazionistico. Attraverso una ricognizione delle diverse teorie della crisi presenti negli scritti di Marx ( in particolare la crisi ciclica da esaurimento dell’esercito industriale di riserva, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e la crisi da realizzazione, esposte in modo chiaro nei loro risvolti, criticità, punti di forza, oltreché nei loro sviluppi successivi a Marx, che riassumerle sommariamente farebbe torto al testo a cui si rimanda il lettore) Bellofiore, non aderendo in toto a nessuna delle due tesi sopra esposte, giunge ad una originale posizione che cerca di integrare i vari spunti esistenti nella riflessione marxiana in un discorso unitario, all’interno di una lettura non meccanicistica della caduta del saggio di profitto. Il suo intento non è tanto “filologico e marxologico, ma ricostruttivo”. La lettura della caduta tendenziale del saggio di profitto proposta da Bellofiore è quella di una “sorta di meta-teoria delle crisi, che include al suo interno non soltanto l’integrazione tra il cosiddetto sottoconsumo e le sproporzioni (…) ma anche una crisi che origina direttamente dal rapporto sociale di produzione dentro il processo immediato di valorizzazione”. A questa conclusione giunge in virtù di una lettura nuova del lavoro astratto e della teoria del valore di Marx. Il lavoro astratto (un’attività non immediatamente sociale, essendo lavoro immediatamente privato che diventa sociale nello scambio contro il denaro, cioè contro quello che è il prodotto dell’unico lavoro immediatamente sociale), argomenta Bellofiore, ha come suo risultato il valore. Quest’ultimo altro non è che “un cristallo di lavoro oggettivato contenuto nella merce, che deve autonomizzarsi ed assumere necessariamente forma monetaria”. Per questo la “sostanza” e la “forma” del valore sono inseparabili. Il valore si fonda nel punto di intersezione tra produzione e circolazione, ciò porta Bellofiore a criticare sia coloro che appiattiscono il valore (e lavoro astratto, date le premesse) sulla sola produzione, così come chi lo limita alla sola circolazione, e nello stesso tempo rimprovera chi non vede in quella intersezione il movimento interno-esterno insieme a chi separa “analisi reale” e “analisi monetaria”. Infatti tali categorie hanno una precipua dimensione processuale, all’interno di una analisi della totalità capitalistica che è però “centrata” sul momento della produzione. E’ in questo “laboratorio segreto” che emerge come il “lavoro vivo” (la sorgente del valore)  sia estratto dalla “forza-lavoro” dei salariati, con sullo sfondo la sempre possibile conflittualità, che può a volte divenire antagonismo. La forza-lavoro va comprata con denaro sul mercato e gli esseri umani che ne sono portatori vanno condotti all’interno dei processi capitalistici di lavoro, per renderli una parte del “corpo” della fabbrica capitalistica, che solo dopo aver incluso in sé tale alterità può cominciare a”lavorare”. La formazione del valore “non si limita a dover trovare una validazione finale nella vendita delle merci contro il denaro quale equivalente generale; essa deve anche partire da una ante-validazione monetaria nel denaro quale finanziamento alla produzione”, in ultima analisi il monte-salari che compra la capacità di lavoro dei salariati. Il luogo dove si insedia la valorizzazione come produzione di plus-denaro a mezzo di denaro è proprio questa natura “circolare” del ciclo del capitale. Bellofiore ammonisce che se non si comprende il processo costitutivo del “feticcio” capitale, questi appare come una totalità chiusa in sé stessa, che in automatico pone i propri presupposti in un movimento a spirale, sembrando così Marx solo come l’applicatore del circolo (epistemologico e ontologico) hegeliano applicato alla realtà capitalistica. Non è così per Bellofiore, per il quale qui dove sembra massima la vicinanza tra Marx ed Hegel è anche il luogo della loro massima distanza: “il valore e il denaro non si accrescono per partenogenesi ideale, ma solo perché, in quanto lavoro morto, riescono a includere “materialmente” dentro di sé, e a comandare dentro una particolare forma della messa al lavoro degli esseri umani, quella alterità radicale al lavoro morto e al denaro che è la forza-lavoro, “appiccicata” ai lavoratori in carne e ossa”. Il vero “scandalo” del capitale sta proprio nel diventare il lavoratore appendice della propria forza-lavoro, per cui conta solo come prestatore di lavoro vivo. In questo modo per Bellofiore la totalità del capitale si ha nella misura in cui nasce un determinato rapporto sociale di produzione, che non si può pensare sia riprodotto in modo meccanico dalla totalità medesima. Marx spiega la valorizzazione “infrangendo” la chiusura della totalità capitalistica, mostrando l’impossibilità della pretesa del capitale di presentarsi come Soggetto autosufficiente. Si tratta di uno snodo cruciale, che implica riflessioni e interpretazioni su diversi terreni (economici, filosofici, antropologici) a partire dalla questione dibattuta da sempre dell’influenza di Hegel sull’opera di Marx (si segnala il volume a cura di Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi “Marx in questione. Il dibattito “aperto” dell’International Symposium on Marxian Theory”, La Città del Sole, 2009, pp.352, € 25,00, per un quadro, parziale ma esaustivo, della discussione in ambito marxista su molti di questi temi). Pur non essendo citato esplicitamente nel testo,  sul punto della totalità capitalista chi scrive scorge le tracce di una discussione aperta da anni tra Bellofiore e Roberto Finelli, dubbioso dell’oggettivo antagonismo della forza-lavoro all’interno del modo di riproduzione dell’accumulazione capitalista (vero soggetto costituito da sola quantità in un processo di suo accumulo potenzialmente infinito che plasma l’intera produzione sociale), e che dunque cerca nella psicanalisi di impronta freudiana elementi per una antropologia che superi i limiti che su questo rinviene in Marx, a sua volta incalzato da Bellofiore che gli rimprovera di non vedere, appunto, l’antagonismo della soggettività di classe, per cui la natura di “vampiro” del capitale non solo include in sé il lavoro, ma dipende anche da questo così che il capitale deve vincere la “lotta di classe nella produzione”. Auspicando il proseguo del confronto (la cui necessità è sotto gli occhi di tutti), è su queste solide fondamenta teoriche che Bellofiore poggia per analizzare l’attuale crisi e proporre alcune soluzioni alla “sinistra”, temi, come detto all’inizio di queste note, sviluppati in massima parte nel secondo dei due volumi. Grazie anche all’uso critico di autori eretici come Sweezy e Minsky, Bellofiore respinge l’idea del capitalismo neoliberista come asfittico, incapace di spiegare l’emergere, almeno a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, di un capitalismo vivace e dinamico in molte parti del pianeta. Attraverso la triade “lavoratore traumatizzato-consumatori-indebitati-risparmiatori-maniacali-depressivi”, Bellofiore analizza questo “nuovo” capitalismo, definito anche come “capitalismo dei fondi pensioni”, in cui cioè il risparmio delle famiglie è dirottato in fondi gestiti da specialisti con l’obiettivo del rendimento più alto possibile nel brevissimo periodo. Si ha così una “sussunzione reale del lavoro alla finanza” che comporta la finanziarizzazione del capitale, la frantumazione del lavoro all’interno della nuova catena del lavoro transazionale e la sempre più intensa concentrazione della politica economica nella politica monetaria. La “sinistra”, stretta tra le fantasie della fine del lavoro e dello Stato, di Imperi e capitalismo della conoscenza (privo di crisi), e interpretazioni immediatamente sottoconsumiste centrate sulla distribuzione, ha dato campo come unica risposta alternativa al social-liberismo (di cui tutte le “sinistre” nessuna esclusa, sono subalterne), che pretenderebbe di ricondurre globalizzazione e finanza ad una qualche forma di redistribuzione universalistica, salvo fare precipitosa marcia indietro una volta al governo, ossessionati dal ripristino dell’equilibrio nel bilancio pubblico, mandati in rosso dai neoliberisti. Le attuali parole d’ordine in voga oggi nel “variegato” e frastagliato ambiente “alternativo” (o presunto tale) sono da  Bellofiore (in particolar modo nell’ultimo saggio che compone il secondo volume scritto insieme a Jan Toporowski, docente all’Università di Londra), sezionate e ricondotte alla loro inconsistenza, dall’uscita dall’euro (che ad oggi sarebbe catastrofica per i lavoratori, piuttosto si chiede come mai nessuno si oppose quando fu istituito), al diritto al default (le cui conseguenze sarebbero deleterie per le classi subalterne, approfondendo le politiche restrittive e l’attacco al lavoro). Una politica fiscale alternativa dovrebbe per Bellofiore passare per, dal lato delle entrate, l’aumento delle imposte sui ceti più alti e sulle loro ricchezze, imposte sui fabbricati per usi commerciali e  tassa sugli stati patrimoniali, con deduzioni per gli investimenti fissi. Sul lato delle spese, nessun taglio della spesa dei governi rivolta all’economia reale (al netto degli interessi sul debito), dentro un coordinamento tra i vari stati europei. Inoltre, aumento dei salari nel pubblico impiego, del salario minimo e/o delle misure di sostegno al reddito, con un aumento più generalizzato di quest’ultimo con l’inizio della ripresa, mantenimento del disavanzo fiscale primario fino a quando la crescita del Pil nominale non cominci a ridurre la quota del debito. Un programma minimo di “classe” deve avere al suo centro la “socializzazione degli investimenti, la riconduzione delle banche a public utilities, un piano del lavoro che faccia dello Stato un fornitore diretto di occupazione e per questo garante del pieno impiego, il controllo dei capitali”. Non è ancora Marx, eppure servono lotte (che si preannunciano durissime) su scala continentale come condizione necessaria per resistere alle politiche di austerità che ci sono imposte. Solo se si è radicali, “addirittura” rivoluzionari, conclude Bellofiore, si può, “magari, ottenere in cambio qualche riforma decente”.

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