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Mai più figli di troika*

di  Luciano Vasapollo

Tutto quello che appare come qualcosa di nuovo, come il possibile  default di vari paesi europei, ma addirittura degli stessi USA, in realtà vede l’origine dal 1971  con la fine degli Accordi di  Bretton Woods. Da tale data gli Usa decidono in base al loro potere politico e militare di  imporre il proprio modello di sviluppo basato sull’import attraverso l’indebitamento, facendo così pagare il costo agli altri: debito privato, debito pubblico, e consumo sostenuto dal mix tra debito interno ed esterno, avendo molto deboli i cosiddetti fondamentali macroeconomici e una economia reale che già da allora mostrava alcuni caratteri tipici della crisi strutturale.

Già a partire dagli anni ‘80 si era verificato in Europa, anche se in maniera diversificata nei differenti paesi,  un vero e proprio intenso processo di privatizzazione, con l’intento di ridimensionare la presenza pubblica nell’intero sistema produttivo. Le azioni dei Governi di questi anni confermano la volontà di attuare un programma completo di dismissione delle aziende pubbliche, con la motivazione ufficiale di risolvere i problemi produttivi ed economici.

A ciò hanno fatto eccezione alcuni paesi, ad esempio la Francia e in parte la Germania, che hanno difeso la presenza  pubblica nei settori strategici, strutturando in tal modo un modello produttivo più forte ed equilibrato nella competizione globale, più centrato sull’export.

Questo processo si è avviato in concomitanza alla costituzione del Mercato Unico Europeo (1992) e poi dell’Unione Europea con i pesanti sacrifici imposti al mondo del lavoro.


Dopo la caduta del muro di Berlino si apre una fase di guida unipolare del mondo basata sullo strapotere politico e militare USA, che con l’imposizione dell’acquisto dei propri titoli del debito imponevano il sostenimento della loro crescita basata sull’import e sull’economia di guerra a varie caratterizzazioni.

E’ così che si apre la fase che a suo tempo definimmo non di globalizzazione ma di  competizione globale, centrata sullo scontro politico-economico fra il modello importatore degli americani ma con l’Europa che cerca i suoi spazi di affermazione economica puntando sul ruolo internazionale, con una forte posizione di esportatore svolto dalla Germania. Lo stesso modello di economia basata sull’esport viene realizzato dalla Cina, che grazie ai suoi avanzi nella bilancia dei pagamenti decide di diventare il maggior compratore del debito statunitense.

Il modello tira e ovviamente accade che le banche tedesche e lo Stato cinese acquistano i titoli degli USA e, in parte, anche degli altri membri dell’Europa che devono subire lo strapotere tedesco. Su tale scenario macroeconomico  si realizza la costruzione dell’Unione Europea  come nuovo polo imperialista che, pur mancando di grande forza interna politica e militare, impone la logica economica-finanziaria con guida tedesca.

Ne segue che la stessa costruzione dell’Europolo, basata sui parametri di Maastricht, altro non rappresenta che la definizione di uno scenario di un confronto aperto e diretto dei paesi nordeuropei alla partecipazione da protagonisti a quella economia globalizzata che misura lo scontro per la definizione delle aree di influenza e di dominio delle tre ipotesi liberiste: quella statunitense, quella giapponese-asiatica e quella europea guidata dall’asse franco-tedesco[1]. Così si fa più aspra e diretta la competizione globale alla ricerca della centralizzazione della ricchezza in poche mani, con scenari sempre più frequenti di guerra economica- finanziaria, guerra commerciale, guerra sociale verso le classi subalterne e guerra militare espansionista per la conquista e il dominio sulle risorse energetiche sempre più scarse per sostenere i ritmi del processo di accumulazione internazionale .


a)
Quando si scatena la crisi dei subprime negli USA, volutamente viene evidenziata come crollo di carattere finanziario per lo scoppio delle bolle speculative immobiliari e finanziarie; ma è semplicemente la punta dell’iceberg che evidenzia un blocco dell’economia reale nei processi stessi dell’accumulazione, cioè sono questi stessi meccanismi che permettono la crescita capitalistica che si sono inceppati già dai primi anni ’70 e che dimostrano che la crisi è sistemica e irreversibile. La difficoltà di riattivare  un nuovo e profittevole modello di accumulazione rende questa crisi unica, mettendo in seria discussione lo stesso modo di produzione capitalistico, è per questo che ormai da vent’anni la identifichiamo come di carattere sistemico.

Gli intensi processi di competizione globale dell’economia a livello mondiale hanno portato, quindi, la Germania, con un asse privilegiato verso la Francia, a cercare una ipotetica soluzione dei problemi della concorrenza internazionale con la costruzione di un’area economica e monetaria incentrata sull’esigenza esportatrice del modello tedesco, con una nuova divisione internazionale del lavoro che va ad assegnare ai paesi dell’eurozona mediterranea il ruolo di importatori ed erogatori di servizi, delocalizzando il proprio sistema industriale verso i paesi dell’Est europeo per risparmiare molto sul costo del lavoro, avendo al contempo  una manodopera specializzata. E’ evidente che con le privatizzazioni, con l’attacco al costo del lavoro, al sistema del Welfare, ai diritti, con  la finanziarizzazione dell’economia, hanno cercato di fuoriuscire o almeno di coprire la crisi internazionale del capitale che si porta dietro il carattere della strutturalità e sistemicità.


b)
Va detto che la politica monetaria della Banca Centrale Europea (BCE) si è impostata soprattutto sulle necessità della Germania in quanto le politiche tedesche di moderazione fiscale e salariale hanno provocato una diminuzione della domanda interna  e tutto ciò ha richiesto dei tassi di interesse bassi per non diminuirla ancora di più. Tutto ciò ha comportato un abbassamento dei tassi reali nei paesi europei periferici, contraddistinti da una inflazione strutturalmente superiore alla media europea.

Ma applicando la stessa moneta a paesi nei quali l’accumulazione del capitale si basa sulle esportazioni e a paesi strutturalmente importatori, la politica monetaria è incapace di conciliare le necessità dei primi ( a cui è funzionale una moneta stabile per permettere l’accumulazione a lungo termine basata sulle esportazioni) e agli altri (che richiedono svalutazioni periodiche per facilitare l’aggiustamento esterno). Alla fine, la politica applicata difenderà ovviamente gli interessi dei più forti, in questo caso dei paesi esportatori dell’Europa centrale, rispetto ai deboli paesi europei della periferia mediterranea.

Da ciò si capisce chiaramente perché la Germania controlli le variabili del patto di stabilità, in quanto la sua crescita è incentrata sull’export e perché necessita il deficit dei paesi europei dell’area mediterranea, i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Grecia , Spagna, considerando anche se oggi in maniera difforme l’Irlanda), compresa anche la Francia. Infatti l’acquisto da parte della Germania dei titoli del debito pubblico di questi paesi rappresenta una forma di investimento dell’eccedente tedesco accumulato. Insomma, il surplus della bilancia commerciale tedesca è reso redditizio dall’investimento del debito dei paesi europei con bilancia commerciale in deficit. Ed è proprio il sistema bancario tedesco che gestisce tale eccedente compreso quello di altri paesi del Nord Europa.

Per questo non si può avere una uscita dalla crisi che non pregiudichi sempre più i lavoratori, in particolare quelli pubblici,  senza modificare le regole del sistema monetario e finanziario vigente.

L’euro è servito per rinforzare i padroni esportatori dei paesi centrali dell’Europolo, cioè il polo imperialista europeo, e per indebolire la posizione commerciale e subordinare la dinamica di accumulazione nei paesi periferici del Mediterraneo alla divisione internazionale del lavoro imposta dai paesi centrali; in tal modo Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (PIIGS con l’aggiunta dell’Irlanda) si convertono sempre più in riserve di servizi turistici e residenziali, o di servizi generali alle imprese, sottomessi ad un processo di deindustrializzazione più o meno accelerato.

Una via europea che in nome di un mal figurato progresso, di un liberismo sempre più selvaggio, si apre all’incontro-scontro con l’economia mondiale lasciando un sempre maggior numero di persone senza protezione, nella miseria, aumentando le diseguaglianze economico-sociali nel nome della gigantesca mistificazione europea.


c)
E’in considerazione di quanto scritto in precedenza che va interpretata l’azione dell’Unione Europea, che non dotata ancora di una autonoma capacità politica, impone ai paesi deficitari le stesse regole dei piani di aggiustamento strutturale che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha applicato negli ultimi 30 anni per fare “strozzinaggio” sui paesi sud-americani e condizionarne le modalità di sviluppo, facendo così giocare ora in Europa come allora in America Latina, un ruolo centrale alle regole della Banca Mondiale oltre a quelle del FMI ( e nelle attuali dinamiche europee, alla Troika,  e cioè Commissione Europea, FMI, BCE) .

L’acutizzarsi della crisi del debito degli Stati dell’Unione Europea ha fatto sì che si mettesse mano ai bilanci imponendo un continuo attacco all’economia pubblica e ai salari e diritti dei pubblici dipendenti, tagli alla spesa sociale allo scopo di sostenere le banche e le speculazioni dei privati. La caratteristica di questa fase è in ultima sintesi quella  del trasferimento  consistente  di ricchezza da una parte all’altra nelle società europee.

Le rendite finanziarie, a cui vanno aggiunte quelle immobiliari e di posizione, sottraggano le risorse alla produttività reale, incanalandosi soltanto in processi di accelerazione speculativa che necessariamente trovano poi il momento di esaurimento del ciclo nel rappresentarsi dello scoppio delle bolle speculative stesse.

Quindi, oggi, creare nell’opinione pubblica l’idea che gli Stati siano sull’orlo del fallimento, significa occultare la crisi economica generale di accumulazione del sistema capitalistico, il disastro dei mercati creditizi e finanziari, creando al contempo la necessità della socializzazione delle perdite del sistema bancario attraverso il denaro delle imposte e tasse dei lavoratori e il taglio dello Stato sociale e del costo del lavoro.

Si capisce chiaramente perché la campagna di terrorismo massmediatico, sul debito pubblico trasformato in debito sovrano, ha semplicemente un obiettivo politico che è ancora quello di indirizzare contro lo Stato,contro l’economia pubblica, la critica feroce della gente comune ,e allo stesso tempo salvare il sistema di impresa e bancario con la socializzazione delle perdite, a carico dello Stato e così via, liberalizzando, privatizzando, destrutturando e demolendo i diritti in primis  dei pubblici dipendenti, tagliando salari e Welfare, e infliggendo un altro duro colpo al potere di acquisto di lavoratori e pensionat i (2)


d)
La politica dell’austerità non è una soluzione, perché come segnalano molti analisti, la riduzione degli investimenti riduce l’accumulazione a lungo termine, e la riduzione del consumo pubblico restringe la domanda globale, e pertanto la crescita quantitativa a breve termine, al punto che l’aumento della disoccupazione e la chiusura delle imprese riducono la base impositiva fiscale e il problema del deficit, lontano dal correggersi, si aggrava. La politica di aggiustamento pertanto persegue il solo scopo di risolvere il problema di liquidità nel quale è caduta la Banca europea, mediante un trasferimento massiccio di redditi dai lavoratori al capitale, per via diretta con l’attacco contro le condizioni di lavoro e il salario, e per via indiretta con la riduzione dei trasferimenti sociali.

L’idea di abbandonare l’Unione Economica e Monetaria della UE (UEM) e tornare alle monete nazionali del passato non può neppure questa essere considerata un’alternativa per i Paesi della periferia europea mediterranea, poiché la debolezza estrema di un’eventuale moneta nazionale di fronte al capitale finanziario globale non permetterebbe una regolazione efficace del ciclo e del cambio strutturale in questi Paesi. Quindi è la stessa costruzione dell’Europolo che è in crisi e non hanno a disposizione strumenti economici efficaci per far fronte  alla crisi che ormai anche organismi internazionali identificano come sistemica.

Rimane pertanto alle organizzazioni conflittuali dei lavoratori di porsi  domande che hanno una forte valenza politica che si impone con superiorità rispetto a qualsiasi scelta economica.

Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili, sarebbe una alternativa realizzabile?

Ciò permetterebbe di mantenere un margine di negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea?

Si può creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori ?


e)
Noi pensiamo che l’uscita dall’euro dovrebbe realizzarsi in forma concertata, in primo luogo tra i paesi della periferia mediterranea con quattro momenti intimamente relazionati senza i quali tale processo potrebbe risultare un disastro per tutti.

I quattro momenti sono: a) La determinazione di una nuova moneta comune all’Europa mediterranea (a titolo esemplificativo potremmo chiamare questa moneta “LIBERA”, cioè una moneta appunto libera dai vincoli monetari imposti nella costruzione dell’euro); b) La rideterminazione del debito nella nuova moneta dell’area periferica  (a titolo esemplificativo tale area la potremmo chiamare ALIAS. – Area Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale) relazionata al cambio ufficiale che si stabilisce; c) Il rifiuto e azzeramento almeno di una parte consistente del debito, a partire da quello con le banche e le istituzioni finanziarie, e l’imposizione di una rinegoziazione dello stesso residuo; d) La nazionalizzazione delle banche e la stretta regolazione (incluso la proibizione momentanea) della fuoriuscita dei capitali dall’area stessa, e la nazionalizzazione dei settori strategici (energia, trasporti, telecomunicazioni,ecc.).

Tutti questi elementi si devono però realizzare simultaneamente, per evitare la decapitalizzazione dell’intera regione periferica e per assumere un controllo adeguato sulle risorse disponibili per gli investimenti a  carattere sociale, con un ruolo prioritario degli interessi dei lavoratori pubblici e con un rilancio di una efficiente economia pubblica.

La nazionalizzazione delle banche in una situazione di insolvenza e di dipendenza dall’aiuto pubblico, è anche un requisito per evitare la fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.

La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni, energia e trasporti potrà portare le risorse per realizzare una strategia di rilancio produttivo a breve termine, che permetta di creare le condizioni affinché milioni di disoccupati nei Paesi della periferia europea mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo possibile.

 
f) L’uscita dall’euro, quindi dall’Eurozona o Europolo, è un’opzione e un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche, che non sono semplicemente squilibri finanziari ma son innanzitutto legate allo stesso  carattere del sistema produttivo: una struttura di base industriale in declino, un uso eccessivo e inefficiente enorme del sostenimento attraverso fondi pubblici, una concentrazione scandalosa di ricchezza e di patrimonio.

Con il non pagamento del debito pubblico è quindi il sistema bancario-finanziario che bisogna aggredire e danneggiare nei suoi interessi economici e politici, in tal modo si possono di conseguenza favorire gli investimenti in beni comuni, in servizi sociali, in nazionalizzazioni delle imprese dei settori strategici, aumentando di conseguenza i salari diretti, indiretti e differiti.

La capacità di resistenza e negoziazione è molto maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici. La nazionalizzazione di tali settori dovrebbe permettere di realizzare utilità attraverso usi sociali così come l’ampliamento intenso dell’accesso ai sistemi di comunicazione ed energia in particolare per quelle fasce più povere della popolazione locale e per i Paesi alleati della nuova area ALIAS in una pratica di una nuova strategia di sviluppo globale solidale, con una ripresa del protagonismo di classe che sappia aprire con le lotte vertenze su riforme strutturali che sappiano creare organizzazione di classe.

Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di una nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su una nuova area fuori dalle regole dell’Europolo, uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di uno sviluppo sociale collettivo solidale e un benessere qualitativo.

E’ ovvio, quindi, che tale proposta da credibile diventa realizzabile concretamente rilanciando il protagonismo nelle lotte dei lavoratori europei, ristabilendo la supremazia della politica sull’economia, trasformando così la crisi dell’Europolo in una forte ripresa di iniziativa del sindacalismo di classe; così accumulando forze nel conflitto sociale e sedimentando organizzazione di classe a partire da lotte rivendicative per riforme strutturali.
 

g) Per ribaltare la logica economico-finanziaria imperialista è assolutamente necessario un cambiamento radicale socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune), che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica, come già si sta sperimentando, ad esempio nei paesi dell’area dell’ALBA (Alleanza Bolivariana per i popoli di Nuestra America), e in particolare, seguendo Cuba socialista rivoluzionaria, in Venezuela e Bolivia dove i movimenti sociali, gli operai,gli indios, i contadini, i minatori, gli sfruttati tutti ,hanno determinato nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento politico della democrazia partecipativa sui percorsi della transizione al socialismo.

Tale lettura è propedeutica al rafforzamento delle lotte ed ai processi di sedimentazione organizzativa in tutti i livelli ed ambiti possibili che sono, di quelle lotte, il prodotto permanente e strategico di un progetto sindacale di classe in Europa. Solo così  il pensabile può diventare praticabile poiché da subito è possibile inceppare i meccanismi di potere dei centri-polo, delle aree del sistema di dominio del modo di produzione capitalista, come sta  tenacemente realizzando l’alternativa bolivariana dell’ALBA.

 Gridare con rabbia nelle lotte delle metropoli  europee dei PIGS “MAIALA TROIKA” significa identificare il nemico di classe e così ripartire per ricostruire quella coscienza ed identità di sé del mondo del lavoro nella dimensione e nella pratica dell’internazionalismo di classe; da ciò deve derivare la decisione di rafforzare i processi del conflitto sociale parallelamente  ai percorsi di formazione e consolidamento  della conflittualità politico-sindacale, come passaggio fondamentale per dare forza al progetto in Europa del sindacalismo della classe del lavoro e del lavoro negato ,nei posti di lavoro e nella fabbrica sociale della metropoli.

Ciò deve necessariamente essere accompagnato dall’idea forte che solo una soggettività di classe politico-sociale e sindacale complessiva che si muove su un percorso di superamento del modo di produzione capitalista,quindi sull’orizzonte e la pratica rivoluzionaria per il socialismo, può costituire  uno strumento valido per  le nuove sfide  che il sempre più aspro conflitto capitale-lavoro richiede in Europa.

* Prosegue il dibattito sul documento della Rete dei Comunisti "Dentro l'Europa ma fuori dall'Unione Europea". Qui di seguito l'intervento di Luciano Vasapollo, economista e autore insieme a Martufi e Ariolla de "Il risveglio dei maiali".

1] Si veda, anche per quanto sostenuto nel seguito: Vasapollo L. ( con R. Martufi, J.Arriola) “Il risveglio dei maiali. PIIGS”, seconda edizione, Jaca Book, Milano, 2012.
 
[2] Va ricordato che il debito dello Stato, da sempre definito “debito pubblico”, è in questi ultimi tempi chiamato “debito sovrano” per un’operazione di terrorismo massmediatico rivolto ad ottenere nuovi sacrifici dai lavoratori, in particolare di quelli pubblici, in termini di ulteriori riduzioni di salario diretto, indiretto e differito in nome della difesa della sovranità per evitare i “fallimenti” degli Stati; ma il primo vero obiettivo è abbattere l’economia pubblica, il Welfare, e di attaccare  profondamente e definitivamente i diritti dei dipendenti pubblici.

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