Psicoeconomia, deflazione e altro ancora
Sebastiano Isaia
Con gli allarmistici articoli dedicati alla deflazione («Incombe l’incubo della deflazione») questa estate abbiamo assistito al più classico dei processi di inversione di causa ed effetto. Un po’ come quando lo stolto attribuisce la causa della sua febbre al termometro, l’innocuo strumento che si limita a registrare l’effetto termico della malattia che tanto lo tormenta (1).
«Per ritrovare una fase depressiva così lunga sul fronte dei prezzi – scriveva Il Corriere della Sera del 12 agosto –, occorre andare indietro di oltre mezzo secolo. Oggi combattiamo contro una recessione recidiva, che sta sfibrando il tessuto produttivo. E perché il calo dei prezzi non è una buona notizia? Non è tanto per il fatto in sé quanto piuttosto per l’effetto che genera sulle aspettative del consumatore. Che aspettandosi ulteriori cali rinvia potenzialmente all’infinito gli acquisti in programma convinto che così facendo risparmierà ulteriormente. Un bel grattacapo per l’economia». Un grattacapo che da sempre ossessiona soprattutto quella che possiamo chiamare psicoeconomia, ossia l’economia politica che ha messo al centro della prassi economica le aspettative: dei consumatori, degli investitori, dei lavoratori, dei creditori e via discorrendo.
Lungi da me negare l’esistenza di moventi psicologici individuali e di massa nella sfera economica; il mio “materialismo” non è poi così volgare come forse crede qualche lettore dei miei modesti post.
È però vero che a mio avviso ciò che domina l’intero processo capitalistico di produzione e distribuzione della ricchezza sociale è la legge del valore così come fu elaborata da Marx attraverso l’hegeliano superamento critico degli economisti “classici”. O, diciamo meglio, credo che la teoria marxiana del valore-lavoro rappresenti ancora oggi, ai tempi di Toni Negri e di Thomas Piketty, il miglior punto di partenza per chi voglia comprendere il Capitale del XXI secolo. È dentro la cornice oggettiva appena evocata che, ad esempio, colloco il sempre più seducente, ossessivo e feroce discorso del Capitale, che ha nello slogan pubblicitario Take the waiting out of wanting (2), usato alla fine degli anni Settanta per il lancio delle carte di credito negli Stati Uniti, forse la sua sintesi più efficace. Ma non è di questo che intendo trattare adesso.
Che l’inversione di causa ed effetto abbia radici teoriche e storiche molto profonde, lo capiamo, fra l’altro, leggendo alcune pagine dell’importante libro scritto da Henryk Grossmann alla vigilia della Grande Crisi del 1929 (Il crollo del capitalismo, Jaca Book, 1977), e anche per questo tanto più significativo, soprattutto se confrontato con le coeve opere dei pezzi grossi dell’economia politica del tempo – a cominciare da Keynes e Schumpeter. Detto en passant, è solo dopo aver letto i pesi massimi del pensiero economico del XX secolo (come appunto Keynes e Schumpeter) che ci si rende davvero conto della superiorità teorica di Marx nei confronti della moderna scienza economica, o «economia volgare», giusto per mutuare il lessico del vecchio ubriacone di Treviri. Un’esperienza che ho potuto rinnovare questa estate, dopo un’ennesima full immersion nella «merda economica». Ma il lettore non fugga schifato: ho avuto modo di ripulirmi tuffandomi in letture più limpide e certamente più feconde per lo Spirito, tipo Le storie di Giacobbe di Thomas Mann. Sperando che la cosa non risulti sgradita ai tagliatori di teste del Grande Califfato… Ma bando alle ciance!
Ecco alcuni passi tratti dalle pagine (91-93) dell’opera di Grossmann cui accennavo sopra. Buona lettura.
«Che cosa occorre considerare come condizione caratteristica per il ciclo di riproduzione capitalistico, come condizione determinante per esso? Lederer scorge questa condizione nel fatto della mutazione dei prezzi nel corso del ciclo congiunturale, nel fatto che tutti i prezzi delle merci e della forza-lavoro crescono durante il periodo di espansione mentre cadono poi nel periodo di crisi e in quello di depressione. La sua impostazione del problema è dunque questa: come può avvenire nel periodo di espansione una crescita generale dei prezzi? L’estendersi della dimensione produttiva, che è tipico del periodo congiunturale favorevole, è possibile secondo Lederer in conseguenza dell’aumento dei prezzi. Occorre quindi prima di tutto spiegare questo fatto. Lederer individua l’impulso all’aumento dei prezzi soltanto nella creazione di credito addizionale; a questo dunque viene ascritto il ruolo principale nelle configurazioni del decorso congiunturale.
Diversamente si pronuncia Spiethoff. Egli osserva: “Il segno distintivo e il fattore determinante delle cause dell’espansione è la crescita degli investimenti di capitale. L’espansione suole durare parecchi anni. La sua caratteristica concettualmente determinante è il crescente investimento di capitale e l’aumento del consumo indiretto”. In questo caso non viene fatto alcun cenno all’aumento dei prezzi. Dalla ricca enumerazione di sintomi che ci offre lo schema congiunturale dell’istituto Harvard o un qualche altro schema, avremmo potuto con eguale giustificazione addurre molti altri segni come “tipici” e ciononostante non ci saremmo tuttavia avvicinati di un passo alla chiarificazione del problema.
Che gli aumenti dei prezzi di regola durante l’espansione si presentino effettivamente, questo non dice ancora che ne siano necessariamente connessi. L’impostazione del problema data da Lederer: come può accadere un aumento generale dei prezzi con cui è possibile l’espansione, è dunque falsa come la questione: come può essere provocato lo sviluppo di fumo con cui il proiettile viene sparato? Se si suppone che l’aumento dei prezzi sia un presupposto necessario all’espansione, ci si trova poi sprovveduti nei confronti di una situazione come quella dell’espansione degli Stati Uniti d’America, che presentava temporaneamente non soltanto nessun aumento ma al contrario persino una caduta dei prezzi (3).
L’erronea scelta del punto di partenza è evidente. Per gli imprenditori capitalisti tanto gli aumenti dei prezzi quanto l’estensione degli investimenti produttivi sono in sé equivalenti. Il processo di produzione capitalistica è infatti duplice: è un processo di lavoro per la produzione delle merci, dei prodotti; ed esso è contemporaneamente un processo di valorizzazione, per il conseguimento del profitto, del plusvalore. Ma solo quest’ultimo processo costituisce il fattore stimolante ed essenziale della produzione capitalistica, che decide della sua vita e della sua morte, mentre la produzione dei beni rappresenta per l’imprenditore soltanto un mezzo per lo scopo, un inevitabile malum necessariu (4). L’imprenditore proseguirà dunque la sua produzione e la estenderà soltanto se per mezzo di essa può aumentare il suo guadagno. L’estensione degli investimenti produttivi, l’accumulazione, è puramente una funzione della valorizzazione, della grandezza del guadagno. Anche il livello dei prezzi in sé è indifferente all’imprenditore. Non i prezzi in aumento determinano il suo comportamento, ma i guadagni. Questi risultano però dalla differenza di due fattori: i prezzi e i costi. Anche con stabili o addirittura decrescenti i profitti possono crescere, se la riduzione dei costi è più grande del decrescere dei prezzi.
Già queste considerazioni mostrano che la questione dell’aumento dei prezzi, tanto per la teoria quanto per la prassi, è del tutto indifferente sul piano del principio. Con profitti crescenti la produzione viene estesa, con la scomparsa della valorizzazione viene invece sospesa. Tanto l’una situazione quanto l’altra può subentrare con prezzi costanti, o decrescenti e crescenti».