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manifesto bologna

Il fascino discreto della crisi economica

intervista a Marco Veronese Passarella

canaryMarco è lecturer in economics presso la University of Leeds. I suoi interessi di ricerca includono le teorie dei prezzi e della distribuzione, la dinamica macroeconomica, l’economia monetaria, nonché la storia e la filosofia del pensiero economico. Oltre alle sue pubblicazioni accademiche, è autore di varie opere divulgative, fra cui ricordiamo “L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa” (con E. Brancaccio, ed. Il Saggiatore).

 

DOMANDA: L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono. Una posizione piuttosto diffusa (appoggiata ad esempio dai teorici della rivista “Monthly Review”) è quella che attribuisce la crisi al seguente meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha portato ad un abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata è stata quindi necessaria un’enorme estensione del credito e lo scoppio della bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo. Altri pensatori, come il marxista americano Andrew Kliman, ritengono che le cause della crisi non si possano trovare nella distribuzione dei redditi e che la depressione sia spiegabile tramite l’andamento del saggio tendenziale di profitto. Una visione tutta improntata sulla produzione. Lei cosa ne pensa?

 

PASSARELLA: La mia idea è abbastanza semplice, l’ho già esposta altrove peraltro: io credo che si siano sommati tre ordini di cause. Cause di tipo finanziario, cause di tipo istituzionale e cause di tipo economico. Di tipo finanziario perché l’innesco della crisi europea è la crisi americana, quindi in qualche modo la crisi dei paesi dell’Area Euro è una crisi importata dagli USA. E come sappiamo a sua volta negli stati uniti d’America l’innesco è stato un fattore finanziario, è stato il crollo del sistema dei derivati legato a quella particolare configurazione del sistema bancario. Quindi la causa ultima è di tipo finanziario, ma questo non vuol dire che, primo, non ci fossero delle condizioni di tipo istituzionale affinché ciò potesse accadere nella maniera in cui si è manifestato, secondo, che non ci fossero delle ragioni economiche profonde che in qualche modo hanno alimentato quella crisi.

Dal punto di vista istituzionale il ruolo ambiguo, in realtà il non-ruolo della BCE all’indomani del crollo di Lehman Brothes ha sicuramente consentito ciò che altrimenti si sarebbe potuto contenere. Che la Banca Centrale Europea non sia intervenuta per niente, e che addirittura all’inizio della crisi abbia alzato i tassi, questa cosa ogni tanto si dimentica. In ogni caso, non è intervenuta a copertura dei titoli del debito dei paesi che naturalmente erano più esposti, cioè i paesi cosiddetti periferici. Il fatto che non abbia fatto tutto ciò, che non abbia agito da banca centrale, ha naturalmente contribuito a far sì che la speculazione finanziaria, o anche semplicemente la fuga di capitali degli investitori istituzionali, si potesse manifestare.

Ma naturalmente resta da spiegare perché la crisi ha colpito inizialmente alcuni paesi dell’Area Euro, poi propagandosi anche nei paesi del resto dell’area. Secondo me la ragione è che i paesi che sono stati colpiti inizialmente erano paesi caratterizzati da un’elevata esposizione verso l’estero. Quindi la fuga di capitali che è stata innescata dalla crisi USA e poi ha colpito le periferie europee, grazie anche al non intervento della banca centrale europea, quella fuga di capitali ha la sua ragione ultima negli squilibri che si erano creati in seno all’Area Euro, tra periferie e paesi del centro. Quali sono le ragioni di questi squilibri esteri? C’è un grande dibattito al riguardo. C’è sicuramente, nel caso di paesi come la Spagna rispetto a paesi come la Germania, un differenziale di crescita. Cioè la Spagna ed altri paesi delle periferie, esclusa l’Italia, sono cresciuti più rapidamente della Germania e questo ha aperto uno squilibrio di tipo commerciale tra Spagna e Germania.

C’è stato anche l’effetto di una politica di deflazione salariale molto aggressiva praticata proprio dai paesi del centro. Mentre la Germania teneva bloccati i salari in termini reali, la Spagna invece viveva un periodo di crescita delle retribuzioni del lavoro. Questo è un altro fattore che ha agito da amplificatore degli squilibri. Credo invece che la produttività abbia contato meno, anche perché in buona misura se è vero che paesi come l’Italia hanno un problema di produttività, questa è una conseguenza della caduta della domanda interna ed estera più che la causa.

Venendo poi all’ultimo punto, crisi da sottoconsumo o crisi tendenziale del saggio di profitto? Entrambe o nessuna delle due. Cioè la teoria della caduta tendenziale del saggio del profitto, che comunque andrebbe ampiamente riveduta sulla base delle nuove evidenze testuali della Mega 2 (l’edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels, ndr), può essere intesa come una sorta di tendenza di lungo periodo, nella quale si inseriscono molte controtendenze che spesso sono più forti della tendenza. Bisogna anche capire il metodo di Marx: tale tendenza di lungo periodo non può essere la causa di questa o quella crisi particolare.

Quanto al sottoconsumo, beh, inizialmente semmai c’è stato un sovraconsumo a debito delle famiglie americane all’origine della crisi, a cui poi sì è seguito un sottoconsumo come effetto della deflazione da debiti. Dunque nessuna delle due spiegazioni tradizionali è convincente fino in fondo o, meglio, sono entrambe spiegazioni del fenomeno che secondo me è un fenomeno complesso.

 

DOMANDA: in realtà il discorso più che sul sottoconsumo vero e proprio era sull’aumento della disuguaglianza e il “keynesismo privatizzato” a partire dagli anni ’80, per far fronte al calo dei salari.

PASSARELLA: L’aumento della disuguaglianza c’entra, ma non è la causa prima della crisi. Non è la causa con “C” maiuscola, ma è naturalmente parte di quello che abbiamo visto. Nel senso è ciò che ha spinto anche verso l’indebitamento delle famiglie e tutto quello che sappiamo.

 

DOMANDA: Analizzando l’andamento dell’economia mondiale, si può notare che l’economia americana, seppur in maniera ancora debole, appaia in ripresa, mentre la maggior parte delle economie europee arranca. É quindi sensato pensare che vi siano elementi peculiari dell’Unione Europea e dell’Eurozona che hanno contribuito ad aggravare la crisi. Quali sono questi elementi e qual è stato il ruolo da essi giocato? Più in generale, per alcuni l’UE è una struttura neutra, con anzi un potenziale di maggiore democratizzazione, per altri è un’istituzione di classe e uno strumento di imposizione di politiche conservatrici. Qual è il ruolo di classe giocato dall’Unione Europea?

PASSARELLA: La risposta è banale, perché gli Stati Uniti sono uno stato federale, sovrano sul piano valutario e fiscale, che non ha praticato politiche di austerità nel corso della crisi, anzi ha praticato politiche moderatamente espansive. Chiaramente si poteva fare di più e di meglio, ma qualcosa è stato fatto. Viceversa l’Area Euro è composta da paesi forti, che ne decidono l’indirizzo di politica monetaria e di politica fiscale, e paesi deboli che invece subiscono quelle decisioni. Quindi non è uno stato federale, ma è composta da governi nazionali, la maggior parte dei quali non è sovrano né sul piano monetario né sul piano fiscale.

Nota che altro conto sarebbe dire che uscendo dall’unione valutaria europea si acquisisce automaticamente la sovranità monetaria. Io non sto dicendo questo. Sto dicendo che nella situazione data [la sovranità, ndr] non c’è. Non c’è per esempio in paesi come l’Italia, ed è nel suo insieme un’area in cui sono state praticate politiche, come dire, deflattive e di austerità, i cui risultati sono esattamente la crescita zero della maggior parte dei paesi dell’area. Anche perché – dati gli squilibri interni all’area, ma esterni ai singoli paesi che la compongono – crescere, per i paesi periferici, significa aumentare ulteriormente gli squilibri esteri.

Abbiamo detto che il differenziale di crescita, per esempio tra Spagna e Germania, è una delle ragioni per cui tra quei due paesi si è aperto un divario sul piano della bilancia commerciale e più in generale sul piano della bilancia dei pagamenti. Quindi in Europa sono state praticate politiche deflattive, politiche di restrizione fiscale, e all’inizio anche politiche di restrizione monetaria. [Per quanto riguarda le politiche monetarie] ora non è più così. Draghi, da questo punto di vista, ha cambiato indirizzo, anche se non a sufficienza. E poi non bisogna pensare che la politica monetaria possa risolvere tutti i problemi. I risultati per l’Unione Monetaria Europea sono in linea con le politiche che sono state praticate.

È l’Area Euro un’opportunità o è invece una camicia di forza? Io non credo sia un’opportunità. Non lo è per come è stata disegnata. È stata disegnata per funzionare esattamente da area in cui si praticano politiche deflattive ad uso e consumo dei paesi del centro: paesi come la Germania che basano il proprio modello di crescita sull’aggressione dei mercati esteri, ma anche altri paesi forti, come la Francia, che pure sul piano dei fondamentali dell’economia hanno problemi, così come hanno problemi sul piano della bilancia commerciale, che però vedono in queste politiche deflattive uno degli strumenti per poter forzare un processo di centralizzazione e concentrazione dei capitali. Quindi, da questo punto di vista, per paesi non economicamente marginali, ma comunque politicamente marginali come l’Italia, questa unione valutaria è una camicia di forza. Talvolta sento dire: “Ma noi dovremmo combattere il capitale, non combattere l’Euro”.

Ma l’Area Euro è la forma storicamente e, come dire, geograficamente determinata in cui il potere delle classi dominanti in Europa si declina. Non si può combattere il capitale in astratto. Il che non vuol dire, naturalmente, che non vi siano contraddizioni e che non vi sia, oltre che una guerra feroce tra capitali all’interno dell’area euro, anche un terreno di ricomposizione di questa guerra nella lotta contro le classi lavoratrici. Le politiche deflattive che vengono applicate in tutta Europa, in periferia, ma anche centro europeo, sono, in fondo questo terreno di ricomposizione. I capitali si fanno la guerra, ma c’è un fronte comune rappresentato dalla guerra ai lavoratori. Detto questo, è allora necessario e sufficiente uscire o rompere i vincoli posti dall’Area Euro, dall’unione valutaria europea, per riacquisire sovranità e dunque per rilanciare quindi politiche progressiste, diciamo semi-progressiste? Io non credo.

La realtà è che siamo in una situazione piuttosto difficile, diciamo che così non si può continuare. Bisogna però essere consapevoli che la sola uscita dall’area valutaria, che peraltro comporterebbe automaticamente la rimessa in discussione della stessa Unione Europea, di per sé non garantirebbe quella sovranità monetaria, fiscale e soprattutto quelle politiche a favore delle classi lavoratrici che vengono auspicate, almeno da economisti progressisti come sono io. L’uscita è probabilmente condizione necessaria, ma non sufficiente.

 

DOMANDA: In occidente la dottrina economica neoclassica è a livello accademico da più di 30 anni a questa parte completamente dominante. In maniera analoga, anche le visioni sulla politica economica e sulla crisi hanno una matrice ideologica comune. Come deve posizionarsi un teorico eterodosso oggi? Ovvero ha senso una guerra di posizione all’interno dell’accademia, ha senso intervenire sulle modalità di gestione della crisi? Ha senso partecipare al dibattito istituzionale su ciò che andrebbe fatto, o è meglio lavorare in altri luoghi e spazi? In sostanza, il capitalismo è riformabile e quindi bisogna parteciparne alla gestione, magari in una direzione più “egualitaria”, oppure no?

PASSARELLA: Io non credo ci sia una regola aurea che vale in tutte le situazioni, per tutti i convegni, tutti i dibattiti, tutte le possibilità di confronto. Credo si debba valutare caso per caso. Credo che sottrarsi a priori al confronto sia sbagliato, proprio perché a priori. Ogni caso va valutato per sé. Per quello che riesco a capire, quello che noi chiamiamo mainstream o pensiero dominante in realtà ha molte sfaccettature. Non è affatto un monolite, gli studiosi non sono uguali, subentrano anche fattori, come dire, personali che esulano dal confronto accademico. Quindi credo che il confronto, laddove è possibile, si debba fare.

In genere, prima delle elezioni, a volere il confronto in TV tra leader (cosa che a me non piace per niente, ma oggi si fa perché si segue un po’ l’esempio del mondo anglosassone), sono i candidati che sono in svantaggio nei sondaggi, non quelli che vincono. Mi pare sensato. Ma se è così, visto che quelli che stanno perdendo siamo noi, siamo noi che dovremmo cercare il confronto. Cosa ci dobbiamo aspettare dal confronto con economisti mainstream? Poco, molto poco da loro. Magari da chi viene a seguire i dibattiti, da qualche giovane studente, invece, qualcosa di più sì. Secondo me l’errore che, per contro, non bisogna fare è attribuire al dibattito accademico importanza eccessiva, perché il mondo là fuori non lo cambiano le idee.

Il mondo là fuori lo cambia la lotta di classe organizzata, non lo cambiano gli intellettuali. Gli intellettuali contribuiscono nella misura in cui, come dire, mettono le proprie idee al servizio della lotta di classe organizzata. Ma la lotta non si sostituisce con le idee, non si sostituisce con i dibattiti. Detto questo, che dire su riformismo o via rivoluzionaria, e sul cambiamento del sistema capitalistico? Intendiamoci, se vogliamo fare la rivoluzione mi dovete prima dire quanta gente abbiamo nell’esercito, nei corpi di polizia, e così via. È così che si fanno le rivoluzioni nel mondo. Siccome a me, al momento, magari non sono bene informato, ma non risulta che siamo così ben attrezzati, direi che l’unica cosa che possiamo fare seriamente è cercare di mettere in difficoltà con proposte alternative, ma soprattutto attraverso le lotte sociali, chi ci governa. Il mio obiettivo è quello di migliorare le condizioni materiali della classe lavoratrice con ogni mezzo necessario. Se [tale miglioramento] passa attraverso politiche di riforma del sistema in cui sono, e non attraverso insurrezioni rivoluzionarie, mi va bene, anzi meglio. Il punto è riuscire a migliorare le condizioni delle classi lavoratrici e non perdere di vista quell’obiettivo. Perché spesso ci si dice “vabbè, ma noi facciamo la rivoluzione” in qualche modo come alibi per poi non fare niente. Dunque ben vengano le proposte, per esempio, di politica economica alternativa e il confronto di idee in ambito accademico, a patto che si capisca che i dibattiti sono importanti, ma che non possono sostituire la lotta, questo no.

 

DOMANDA: per me le politiche Keynesiane hanno un senso politico quando diventano di rottura, nel senso che tu costringi il sistema, perché il discorso secondo me è sempre stato: il Keynesismo è una cosa che quando è stata applicata sostanzialmente il sistema capitalista ha potuto reggere fino ad un certo punto, cioè fino a quando i tassi di crescita erano tali e la forza lavoro era tale che comunque il compromesso andava accettato. Dopodichè alla fine anni ’70, ci si è trovati in una situazione in cui c’è stata una reazione, nel senso che avevi il problema dei tassi di profitto che andavano male, avevi il problema di un movimento operaio sindacale molto forte e quindi come reazione hai avuto tutta la controrivoluzione liberista, cose che ben sappiamo. Quindi il punto è che se fare politiche Keynesiane mette in luce il fatto che il sistema le può reggere fino ad un certo punto , quindi aiuta anche a mettere in luce le contraddizioni. Ovvio che il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato dovrebbe essere l’obiettivo a cui tendere, dopodichè il dubbio è sempre a che compromessi devi scendere.

PASSARELLA: Io in chi schifa le politiche keynesiane ci vedo un po’ la favola della volpe e dell’uva. Siccome non riusciamo più a strappare politiche di sostegno alla domanda, di redistribuzione dei redditi e di stato sociale (perché quelle sono state strappate con le unghie, con il sangue, dai lavoratori, non è che te le ha calate dall’alto il capitale, dall’alto della sua generosità), ci raccontiamo che “tanto non le vogliamo, che oggi non funzionerebbero, che quello era il compromesso keynesiano fordista, che oggi ci basta un reddito straccione e siamo contenti, anzi con quello facciamo la rivoluzione”. No, la verità è che dobbiamo tornare a lottare, dobbiamo tornare ad organizzarci per lottare e per strappare quelle riforme.

Se poi quelle riforme mostrano i limiti del sistema capitalistico – perché si è vero, esiste, lo ha detto anche Kalecki, una sorta di incompatibilità tra un regime di pieno impiego e di garanzie contrattuali per i lavoratori e gli interessi della classe dominante – tanto meglio. Noi dobbiamo spingere questo sistema verso il limite, e quel limite si chiama socialismo. Credo che le classi lavoratrici, che sono, ripeto, il mio punto di riferimento quando parlo, accetterebbero ben volentieri una scuola pubblica che torni a funzionare come dovrebbe, un piano per il pieno impiego, e piani di investimento in infrastrutture, incluso un piano per l’edilizia popolare. Sono misure rivoluzionarie? Certo che no. Sono i soviet? No, ma nella situazione data non mi sembrerebbero risultati trascurabili. E il fatto che non abbiamo in questo momento la forza per ottenerli ci deve spingere ad organizzarci con i lavoratori per ottenere quei risultati, non a trovare giustificazioni ex-post alla nostra impotenza.

 

DOMANDA: Dal suo punto di vista, dove vede in questo momento sia in Italia che in generale nel resto del mondo movimenti e/o contraddizioni più interessanti, con un potenziale di rottura? Pensiamo ad esempio al ruolo della logistica in Italia.

PASSARELLA: Che il sistema capitalistico sia un sistema che genera continue contraddizioni è un dato di fatto. Che stia raggiungendo dei limiti invalicabili sul piano delle risorse naturali, non sono in grado di dirlo. Al riguardo, Giorgio Gattei cita spesso il titolo di un libro di Giorgio Ruffolo, “Il capitalismo ha i secoli contati”. Ecco io tendo a pensare che se questo sistema non viene incalzato dalle lotte non crolla da solo, e in realtà anche quando viene incalzato dalle lotte sembra avere un’incredibile capacità di rigenerarsi. Dunque io non aspetterei, come dire, non confiderei in un collasso imminente del sistema dovuto a contraddizioni con la scarsità delle risorse o alle pur rilevanti dinamiche di classe che in questo momento sono in atto in paesi come la Cina, e non solo.

Poi sulla Cina io ci andrei piano. Si dice sempre che la Cina è un paese capitalistico, ma è una situazione ibrida quella cinese.

Sulla questione ambientale, anche lì ci sono molte contraddizioni. È vero che Pechino è una città dall’aria sia irrespirabile, ma al tempo stesso la Cina è il paese che più di ogni altro fa investimenti in energie pulite. Non so, ecco, non confiderei che il sistema imploda da sé. È un sistema che ha mostrato nei secoli un’incredibile capacità di rigenerarsi. Non so veramente che dire su questo punto, io osservo quello che avviene, e aspetto che si aprano delle possibilità di cambiamento radicale, che però non caleranno dall’alto…

 

DOMANDA: No, è vero che non ci caleranno dall’alto, però è anche vero che, per esempio, questa cosa della logistica per me è rilevante nel senso che come diceva giustamente secondo me Giorgio Gattei è uno dei pochi passaggi della produzione in cui ancora l’automatizzazione non riesce ad essere totalmente rilevante. E’ vero che hai i container, però è anche vero che la merce nei container qualcuno ce la deve mettere, i camion qualcuno li deve guidare, ecc. Perciò lui diceva: se fermi con le lotte dei lavoratori quel frammento lì, capace anche che vinci, ovviamente sempre nell’ottica di rivendicazioni salariali, diritti sindacali, ecc quindi non in un’ottica eccessivamente ampia.

PASSARELLA: Quell’idea sulla logistica di Giorgio la conosco bene, perché ne abbiamo parlato a lungo in passato. Partì da un articolo di De Cecco del 2000, forse di qualche anno prima addirittura. Giorgio mi fece fare la tesi di laurea sul coefficiente di rotazione nel capitale di Marx, da cui tra l’altro io e Hervè Baron abbiamo tratto un articolo per il Cambridge Journal of Economics, in cui trattiamo esattamente del problema della logistica nella teoria di Marx, ma che nel nostro lavoro viene trasposto nel problema della finanza.

Sembra essere diventato, in realtà, quello la finanza il vero terreno di crisi, il vero elemento di frizione del sistema attuale, più che la logistica in sé. Naturalmente, sulla logistica proprio la Cina mostra che in questo momento ci sono grandi rivoluzioni in atto. Stanno portando rotaie, alta velocità, e container, ovunque. Queste sono cose che Giorgio sa bene, e sulle quali uno dei maggiori esperti è Joseph Halevi. Mi dicono che parte della produzione avvenga addirittura nei container, cioè, la lavorazione viene terminata nei container durante il trasporto marittimo. Questo è in qualche modo un azzeramento del tempo di trasporto, che peraltro è un rebus per la teoria del valore di Marx. Perché in Marx il tempo di lavoro speso nel settore dei trasporti sembra essere produttivo di valore. Non è dunque un tempo da azzerare necessariamente, se non tramite aumenti di produttività, ma qui andiamo fuori tema. Quindi non lo so, sono temi interessanti, ma ci proiettano nel lungo periodo, quando secondo me abbiamo invece al momento problemi incredibili nel breve, brevissimo periodo.

Ad esempio, è vero che l’Italia viene da un lunghissimo declino, ma ho l’impressione che ora si stia per oltrepassare una soglia di non ritorno. Le economie sono piene di non-linearità. Tu puoi, come dire, perdere terreno rispetto ai tuoi concorrenti, un sistema produttivo si può impoverire gradualmente fino a una certa soglia, senza che questo comprometta la reversibilità del sistema. Oltre quella soglia critica c’è, però, un salto qualitativo. Temo che il sistema produttivo italiano si stia avvicinando, se non l’ha già oltrepassata, a quella soglia. E questo per i lavoratori italiani sarebbe un enorme problema, perché naturalmente un conto è combattere contro il padrone italiano per strappare certe concessioni, altro conto è se i centri decisionali si spostano a migliaia di chilometri di distanza. Soprattutto se il tuo sistema non è più in grado strutturalmente di garantire il pieno impiego e condizioni di lavoro decenti, perché è slittato, come dire, lungo la catena internazionale del valore, che è quello che secondo me l’Italia sta facendo. Sono problemi incredibilmente complessi, sui quali non riesco in realtà a dare un mio contributo. Sono molto più concentrato sul breve periodo.

E, per me, nel brevissimo periodo il problema è organizzare le classi lavoratrici, che non sono solo le tute blu naturalmente. Sono le molteplici figure contrattuali in cui la forma lavoro salariato si declina.

 

DOMANDA: e anche non salariato, c’è tutta la questione del non pagato se ci pensi.

PASSARELLA: sì, diciamo le classi che non hanno controllo diretto né indiretto dei mezzi di produzione. Quelle sono quelle che ho in testa io. Per me il mondo sta diviso in due. Quelli che controllano, direttamente o indirettamente, i mezzi di produzione. E non è detto che debbano essere i proprietari: la proprietà è solo una dimensione giuridica, non è quello il problema. Il problema è il controllo. E chi controlla i mezzi di produzione è una macro classe sociale che include capitalisti industriali, banchieri e finanzieri. E poi ci stanno tutti gli altri.

Il problema è trovare forme di ricomposizione della classe lavoratrice, inseguendo le parole d’ordine giuste. Perché, se le parole d’ordine sono sbagliate, come per esempio quella del reddito di cittadinanza che va molto di moda a sinistra, i risultati possono essere drammatici e irreversibili. Una volta che tu non hai più un luogo di ricomposizione nella produzione, e il basic income atomizza e distrugge quel luogo di ricomposizione, pensare di mettere in discussione questo sistema diventa davvero velleitario.

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