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manifesto

L’età della depressione

Joseph Stiglitz

La crisi dell’euro: cause e rimedi. La miscela esplosiva contemporanea: un modello che mescola declino economico e speculazioni della finanza, una produzione ridotta all’osso e controllata dalle grandi imprese, vecchi risparmi familiari che finanziano consumi impoveriti, una società disuguale, frammentata e disorientata

2009-03-27-joseph-stiglitz-reutersNon ho biso­gno spie­gare quanto sia dram­ma­tica la situa­zione eco­no­mica in Europa, e in Ita­lia in par­ti­co­lare. L’Europa è in quella che può defi­nirsi una «tri­ple dip reces­sion», con il red­dito che è caduto non una, ma tre volte in pochi anni, una reces­sione vera­mente inusuale.

Così l’Europa ha perso la metà di un decen­nio: in molti paesi il livello del Pil pro capite è infe­riore a quello del 2008, prima della crisi; se si estra­pola la serie del Pil euro­peo sulla base del tasso di cre­scita dei decenni pas­sati, oggi il Pil sarebbe del 17% più alto: l’Europa sta per­dendo 2000 miliardi di dol­lari l’anno rispetto al pro­prio poten­ziale di crescita.

Oggi abbiamo a dispo­si­zione una grande quan­tità di dati sull’impatto delle poli­ti­che di auste­rità in Europa. I paesi che hanno adot­tato le misure più dure, ad esem­pio chi ha intro­dotto i mag­giori tagli al pro­prio bilan­cio pub­blico, hanno avuto le per­for­mance peggiori.

Non solo in ter­mini di Pil, ma anche in ter­mini di defi­cit e debito pub­blico. Era un esito pre­vi­sto e pre­ve­di­bile: se il Pil decre­sce anche le entrate fiscali si ridu­cono e que­sto non può far altro che peg­gio­rare la posi­zione debi­to­ria degli stati.

 

Tutto ciò avviene non per­ché que­sti paesi non abbiano rea­liz­zato poli­ti­che di auste­rità, ma pro­prio per­ché le hanno seguite. In molti paesi euro­pei siamo di fronte non a una reces­sione, ma a una depressione.

La Spa­gna, ad esem­pio, può essere descritta come un paese in depres­sione se si guar­dano gli impres­sio­nanti dati sulla disoc­cu­pa­zione gio­va­nile di quel paese. La disoc­cu­pa­zione media è al 25% e non ci sono pro­spet­tive di miglio­ra­mento per il pros­simo futuro (…).

Quali sono le cause? Devo dirlo con molta fran­chezza: l’errore dell’Europa è stato l’euro.

Quando fac­cio que­sta affer­ma­zione voglio dire che l’Euro è stato un pro­getto poli­tico, un pro­getto voluto dalla poli­tica. Robert Mun­dell, pre­mio Nobel per l’economia, soste­neva fin dall’inizio che l’Europa non pre­sen­tava le carat­te­ri­sti­che di un’«area valu­ta­ria otti­male», adatta all’introduzione di un’unica moneta per più paesi. Ma a livello poli­tico si rite­neva che la moneta unica avrebbe reso l’Europa più coesa, favo­rendo l’emergere delle carat­te­ri­sti­che pro­prie di un area valu­ta­ria otti­male. Que­sto non è suc­cesso; l’euro, al con­tra­rio, ha con­tri­buito a divi­dere e fram­men­tare l’Europa.

 

Gli errori concettuali

Vediamo gli errori con­cet­tuali alla base del pro­getto dell’euro (…). Quando si crea un’area mone­ta­ria si vanno ad eli­mi­nare due mec­ca­ni­smi di aggiu­sta­mento, i tassi di cam­bio e i tassi di inte­resse. Gli shock sono ine­vi­ta­bili e in assenza di mec­ca­ni­smi di aggiu­sta­mento si va incon­tro a lun­ghi periodi di disoc­cu­pa­zione. I 50 stati fede­rati degli Usa hanno un bilan­cio uni­ta­rio a livello fede­rale e due terzi della spesa pub­blica negli Stati Uniti sono a livello fede­rale. Quando uno stato come la Cali­for­nia ha un pro­blema, può con­tare ad esem­pio sull’assicurazione pub­blica con­tro la disoc­cu­pa­zione, che è finan­ziata da fondi fede­rali. Se una banca in Cali­for­nia è in crisi, viene atti­vato un fondo di emer­genza anch’esso dotato di risorse fede­rali. Un’altra dif­fe­renza di fondo tra gli stati che com­pongo gli Usa e quelli dell’Unione Euro­pea è che nes­suno negli Stati Uniti si pre­oc­cu­pe­rebbe per lo spo­po­la­mento del Sud Dakota a seguito di una crisi occu­pa­zio­nale, anzi, l’emigrazione è vista come un mec­ca­ni­smo fisio­lo­gico. Ma in Europa un’emigrazione come quella che ha carat­te­riz­zato la com­po­nente più gio­vane e istruita della popo­la­zione del sud Europa — dove la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile è a livelli ele­va­tis­simi — ha effetti nega­tivi di impo­ve­ri­mento di quei paesi, con ten­sioni sociali e fran­tu­ma­zione delle fami­glie. Sono costi sociali che non sono cal­co­lati dal Pil. Tutto ciò era stato in qual­che modo pre­vi­sto nel momento in cui si è deciso di intro­durre l’euro (…).

Quali altri errori sono stati com­piuti? Innanzi tutto l’idea che le cose si sareb­bero risolte se i paesi aves­sero man­te­nuto un basso rap­porto tra defi­cit o debito pub­blico e Pil. È l’idea che sta die­tro al Fiscal com­pact. Ma non c’è nulla nella teo­ria eco­no­mica che offra un soste­gno ai cri­teri di con­ver­genza adot­tati in Europa. Anzi, la realtà ci mostra come quei cri­teri fos­sero sba­gliati: Spa­gna e Irlanda ave­vano un bilan­cio pub­blico in avanzo prima del 2009, non ave­vano spre­cato risorse. Eppure hanno avuto delle crisi gra­vis­sime. Il debito ed il disa­vanzo di que­sti paesi si sono creati suc­ces­si­va­mente, per effetto della crisi, e non vice­versa. Il fatto di aver intro­dotto un Fiscal com­pact che impone vin­coli fer­rei al disa­vanzo e al debito non risol­verà i pro­blemi, né aiu­terà a pre­ve­nire la pros­sima crisi.

Un altro ele­mento che non è stato valu­tato appieno è che quando un paese si inde­bita in euro, piut­to­sto che in una moneta emessa dal paese che con­trae il debito, si creano auto­ma­ti­ca­mente le con­di­zioni per una crisi del debito sovrano. Il rap­porto debito/Pil negli Stati Uniti è ana­logo a quello euro­peo ma gli Usa non avranno mai una crisi del debito sovrano come quella che ha inve­stito l’Europa. Per­ché? Per­ché l’America si inde­bita in dol­lari, e quei dol­lari ver­ranno sem­pre rim­bor­sati per­ché il governo degli Stati Uniti può stam­pare i pro­pri dollari.

La crisi che ha col­pito i debiti sovrani di nume­rosi paesi euro­pei negli ultimi anni è simile a quanto ho visto molte volte quando ero capo eco­no­mi­sta della Banca Mon­diale: paesi come l’Argentina o l’Indonesia hanno vis­suto pro­fonde crisi cau­sate pro­prio dal fatto che si erano inde­bi­tati in valute che non pote­vano con­trol­lare. Quando que­sto avviene c’è sem­pre il rischio di una crisi del debito, e in Europa le con­di­zioni per que­sto tipo di crisi sono state create con l’introduzione dell’euro. L’unica solu­zione pos­si­bile nell’attuale situa­zione euro­pea è piut­to­sto sem­plice e si chiama Euro­bond. Tut­ta­via, sem­brano esserci osta­coli poli­tici a que­sta solu­zione che la ren­dono impra­ti­ca­bile, ma que­sta sem­bra l’unica via d’uscita logica.

Inol­tre, con l’euro si è creato un sistema fon­da­men­tal­mente insta­bile. L’obiettivo ini­ziale era quello di favo­rire la con­ver­genza tra gli stati euro­pei, attra­verso la disci­plina fiscale dei paesi mem­bri. Il sistema che è stato creato in realtà pro­duce diver­genza. Il mer­cato unico, la libera cir­co­la­zione dei capi­tali in Europa sem­brava essere la strada verso una mag­giore effi­cienza eco­no­mica. Ma non ci si rese conto del fatto che i mer­cati non sono per­fetti. Negli anni ottanta c’erano alcuni eco­no­mi­sti con­vinti del per­fetto fun­zio­na­mento dei mer­cati, men­tre oggi siamo con­sa­pe­voli delle innu­me­re­voli imper­fe­zioni che li carat­te­riz­zano. Ci sono imper­fe­zioni da lato della con­cor­renza, imper­fe­zioni sul ver­sante del rischio e dell’informazione. I mer­cati non sono quelli descritti dai modelli eco­no­mici semplificati (…).

 

L’insistenza sulle riforme strutturali

Oggi si insi­ste molto sulle riforme strut­tu­rali che i sin­goli stati dovreb­bero intro­durre (…) Quando si sente la parola riforma si è por­tati a pen­sare a qual­cosa dagli esi­sti sicu­ra­mente posi­tivi, ma sotto quest’etichetta pos­sono nascon­dersi misure dagli esiti pro­fon­da­mente nega­tivi. Le riforme strut­tu­rali in realtà sono quasi tutte viste dal lato dell’offerta, con obiet­tivi come l’aumento dell’offerta o della pro­dut­ti­vità. Ma, è real­mente que­sto il pro­blema dell’Europa e dell’economia glo­bale? No. I pro­blemi oggi sono legati a una debo­lezza della domanda, non dell’offerta. Le riforme strut­tu­rali sba­gliate aggra­ve­ranno, attra­verso la ridu­zione dei salari o l’indebolimento degli ammor­tiz­za­tori sociali, la debo­lezza della domanda aggre­gata, con ovvie con­se­guenze su disoc­cu­pa­zione e dina­mica macroe­co­no­mica. E’ neces­sa­rio anche riflet­tere sul momento in cui si pos­sono adot­tare tali riforme.

Senza scen­dere nel merito delle riforme del mer­cato del lavoro nei diversi paesi euro­pei, vor­rei farvi notare che i paesi carat­te­riz­zati da un mer­cato del lavoro for­te­mente fles­si­bile non hanno evi­tato le gravi con­se­guenze della crisi. Gli Stati uniti erano appa­ren­te­mente il paese con il mer­cato del lavoro più fles­si­bile, ma hanno avuto una disoc­cu­pa­zione al 10%. E anche oggi, quando viene pro­pa­gan­data la grande ripresa dell’economia sta­tu­ni­tense, con una disoc­cu­pa­zione ridotta al 6%, biso­gna pen­sare che c’è una fetta della popo­la­zione ame­ri­cana sfi­du­ciata al punto tale da aver smesso di cer­care un’occupazione. Il tasso di disoc­cu­pa­zione reale degli Stati Uniti è attorno al 10% (…).

Che cosa dovrebbe dun­que fare l’Europa? Sem­bra vera­mente dif­fi­cile che si possa risol­vere la crisi inter­ve­nendo con riforme nei sin­goli paesi senza rifor­mare la strut­tura dell’eurozona nel suo com­plesso. Su alcuni di que­sti inter­venti strut­tu­rali sem­bre­rebbe esserci un discreto consenso.

In primo luogo, una vera Unione ban­ca­ria, fatta di vigi­lanza e di assi­cu­ra­zione comune sui depo­siti, faci­li­te­rebbe la riso­lu­zione con­giunta delle crisi. Si tratta di misure urgenti, e l’urgenza è data dai nume­rosi fal­li­menti di imprese e ban­che, che pos­sono dan­neg­giare seria­mente le pro­spet­tive di cre­scita future.

In secondo luogo, è neces­sa­rio un mec­ca­ni­smo fede­rale di bilan­cio in Europa che potrebbe pren­dere, ad esem­pio, la forma degli Euro­bond, una solu­zione pra­tica e facile che con­sen­ti­rebbe all’Europa di uti­liz­zare il debito in fun­zione anti­ci­clica, come hanno fatto gli Stati Uniti in que­sti anni. Se l’Europa potesse inde­bi­tarsi a tassi di inte­resse nega­tivi come stanno facendo gli Stati Uniti potrebbe sti­mo­lare molti inve­sti­menti utili, raf­for­zare l’economia e creare occu­pa­zione. E i soldi che oggi ven­gono spesi per il ser­vi­zio del debito dei sin­goli paesi potreb­bero essere uti­liz­zati per poli­ti­che di sti­molo alla crescita.

In terzo luogo, l’austerità va abban­do­nata e va adot­tata una stra­te­gia arti­co­lata di cre­scita. I paesi euro­pei sono molto diversi tra loro, ad esem­pio in ter­mini di pro­dut­ti­vità. Sono dun­que neces­sa­rie poli­ti­che indu­striali che favo­ri­scano la cre­scita della pro­dut­ti­vità nei paesi più deboli, ma tali poli­ti­che sono pre­cluse dai vin­coli di bilan­cio impo­sti agli stati mem­bri. Un osta­colo ulte­riore è rap­pre­sen­tato dalla poli­tica mone­ta­ria. Negli Stati Uniti la Fede­ral Reserve ha un man­dato arti­co­lato su quat­tro obiet­tivi: occu­pa­zione, infla­zione, cre­scita e sta­bi­lità finan­zia­ria. Oggi il prin­ci­pale obiet­tivo della Fede­ral Reserve è l’occupazione, non l’inflazione. Al con­tra­rio la Banca Cen­trale Euro­pea ha come unico man­dato l’inflazione, si con­cen­tra uni­ca­mente sull’inflazione. Que­sto viene da un’idea che era molto di moda, ben­ché non com­pro­vata da alcuna teo­ria eco­no­mica, quando lo Sta­tuto della BCE è stato redatto.

L’idea con­si­steva nel con­si­de­rare la bassa infla­zione come l’elemento di traino fon­da­men­tale e quasi esclu­sivo per la cre­scita eco­no­mica. Nem­meno il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale con­di­vide più que­sta con­vin­zione, ma l’Europa non sem­bra in grado di abban­do­narla. Que­sta poli­tica mone­ta­ria sba­gliata, può pro­durre e sta pro­du­cendo con­se­guenze eco­no­mi­che gravi. Se gli Stati Uniti man­ten­gono bassi i loro tassi di inte­resse per sti­mo­lare la crea­zione di nuovi posti di lavoro, men­tre in Europa i tassi con­ti­nuano a man­te­nersi più ele­vati, in una logica anti-inflazionistica, que­sto favo­ri­sce l’afflusso di capi­tali e l’apprezzamento dell’euro. E que­sto, ovvia­mente, rende ancora più dif­fi­cile espor­tare le merci euro­pee con un evi­dente impatto nega­tivo sulla cre­scita. Quando gli Stati uniti hanno comin­ciato ad adot­tare un poli­tica mone­ta­ria for­te­mente espan­siva ricor­rendo al «Quan­ti­ta­tive easing», l’esito posi­tivo di que­sta poli­tica è stato faci­li­tato dal fatto che l’Europa non ha fatto lo stesso.

 

Pato­lo­gie Usa e Ue

Se l’Europa avesse abbas­sato i pro­pri tassi di inte­resse nello stesso modo in cui l’ha fatto la Fede­ral Reserve, la ripresa negli Stati Uniti sarebbe arri­vata molto più len­ta­mente. Il para­dosso, dun­que, è che gli Stati Uniti dovreb­bero rin­gra­ziare l’Europa per aver aiu­tato la ripresa dell’economia ame­ri­cana tra­mite le sue poli­ti­che mone­ta­rie sba­gliate. Ci sono altri aspetti da con­si­de­rare. Viviamo oggi in un eco­no­mia for­te­mente legata all’innovazione tec­no­lo­gica e alla cono­scenza. Ma per favo­rire l’innovazione sono neces­sari inve­sti­menti costanti e di grandi dimen­sioni in com­parti come l’istruzione e le infra­strut­ture. Si tende a pen­sare agli Stati Uniti come a un’economia inno­va­tiva. Que­sto è vero, ma è neces­sa­rio ricor­dare negli Stati Uniti le inno­va­zioni più impor­tanti, come Inter­net ad esem­pio, sono state soste­nute e finan­ziate atti­va­mente dal governo. C’è stata una poli­tica attiva dell’innovazione. Quando ero a capo del Gruppo dei con­si­glieri eco­no­mici della Casa bianca, veri­fi­cammo che i bene­fici degli inve­sti­menti pub­blici in inno­va­zione erano supe­riori a quelli pro­dotti dagli inve­sti­menti pri­vati. Si tratta di esempi di poli­ti­che attive per la cre­scita che avreb­bero effetti molto posi­tivi e che vanno in una dire­zione oppo­sta a quella del rigore che sta stran­go­lando l’Europa.

Infine, dob­biamo ren­derci conto che sia l’economia euro­pea che quella sta­tu­ni­tense erano affette da un pato­lo­gia ancor prima dell’esplosione della crisi. Fino al 2008 l’economia euro­pea e quella ame­ri­cana erano soste­nute da una bolla spe­cu­la­tiva che inte­res­sava prin­ci­pal­mente il set­tore immo­bi­liare. In assenza di quella bolla si sareb­bero visti tassi di disoc­cu­pa­zione molto più ele­vati. Ovvia­mente non vogliamo tor­nare a una cre­scita fon­data su bolle spe­cu­la­tive (…). È neces­sa­rio com­pren­dere, dun­que, quali sono i pro­blemi di fondo che col­pi­vano le nostre eco­no­mie già prima della crisi e che, oltre a non essere stati affron­tati sino ad oggi, sono peg­gio­rati durante la reces­sione. Il primo pro­blema sono le disu­gua­glianze cre­scenti nelle nostre società. La crisi ha con­tri­buito ad aumen­tarle ovun­que, negli Stati uniti i bene­fici della ripresa sono andati quasi com­ple­ta­mente all’1% più ricco della popo­la­zione. Negli Usa il valore del red­dito mediano (quello che vede metà degli ame­ri­cani con red­diti più alti e l’altra metà con red­diti infe­riori) al netto dell’inflazione è oggi più basso di 25 anni fa. Que­sto fa si che la fami­glia ame­ri­cana media non abbia soldi da spen­dere e, di con­se­guenza, la domanda aggre­gata rimane debole. Il secondo ele­mento è legato alla neces­sità di una tra­sfor­ma­zione strut­tu­rale verso l’economia della cono­scenza. Una tra­sfor­ma­zione che i mer­cati non sono in grado di gestire. Il ruolo di guida e di sti­molo di tali tra­sfor­ma­zioni dev’essere eser­ci­tato dei governi i quali, a causa della crisi attuale, non hanno in alcun modo svolto que­sto compito (…)

La poli­tica indu­striale sarà senz’altro uno degli stru­menti fon­da­men­tali per uscire da que­sta situa­zione. È neces­sa­rio un Fondo euro­peo per la disoc­cu­pa­zione e un Fondo euro­peo per le pic­cole imprese, inve­sti­menti che vadano molto oltre quello che fa oggi la Banca euro­pea degli investimenti.

Oltre alle cose che andreb­bero fatte vi sono, però, anche cose che non vanno fatte. Per quanto riguarda il mer­cato del lavoro, ho già detto che mag­giore fles­si­bi­lità non aiu­terà a risol­vere i pro­blemi attuali, anzi li aggra­verà aumen­tando le disu­gua­glianze e depri­mendo ulte­rior­mente la domanda. La situa­zione ita­liana, ad esem­pio, vede già pre­sente un ele­vato grado di fles­si­bi­lità; aumen­tarla ancora inde­bo­li­rebbe l’economia senza por­tare van­taggi. Biso­gna essere molto cauti.

 

Cosa non biso­gna fare

Un’altra cosa che l’Europa non deve fare è sot­to­scri­vere il Trat­tato tran­sa­tlan­tico sul com­mer­cio e gli inve­sti­menti (Ttip). Un accordo di que­sto tipo potrebbe rive­larsi molto nega­tivo per l’Europa. Gli Stati Uniti, in realtà, non vogliono un accordo di libero scam­bio, vogliono un accordo di gestione del com­mer­cio che favo­ri­sca alcuni spe­ci­fici inte­ressi eco­no­mici. Il Dipar­ti­mento del Com­mer­cio sta nego­ziando in asso­luta segre­tezza senza infor­mare nem­meno i mem­bri del Con­gresso ame­ri­cano. La posta in gioco non sono le tariffe sulle impor­ta­zioni tra Europa e Stati uniti, che sono già molto basse. La vera posta in gioco sono le norme per la sicu­rezza ali­men­tare, per la tutela dell’ambiente e dei con­su­ma­tori in genere. Ciò che si vuole otte­nere con que­sto accordo non è un miglio­ra­mento del sistema di regole e di scambi posi­tivo per i cit­ta­dini ame­ri­cani ed euro­pei, ma si vuole garan­tire campo libero a imprese pro­ta­go­ni­ste di atti­vità eco­no­mi­che nocive per l’ambiente e per la salute umana. La Phi­lip Mor­ris ha fatto causa con­tro l’Uruguay per­ché l’Uruguay vuol difen­dere i pro­pri cit­ta­dini dalle siga­rette tos­si­che. La Phi­lip Mor­ris nel ten­ta­tivo di con­tra­stare le misure adot­tate in Uru­guay per tute­lare i minori o i malati dai rischi del fumo si è appel­lata pro­prio ai quei prin­cipi di libero scam­bio che si vor­reb­bero intro­durre con il Ttip. Sot­to­scri­vendo un accordo simile l’Europa per­de­rebbe la pos­si­bi­lità di pro­teg­gere i pro­pri cit­ta­dini. Que­sto tipo di accordi, inol­tre aggra­vano le disu­gua­glianze e, in una situa­zione come quella euro­pea, rischie­reb­bero di appro­fon­dire la recessione.

 

Si può ancora aspettare?

L’Europa può ancora per­met­tersi di aspet­tare? Se non si cam­bia la strut­tura dell’eurozona, se l’Europa con­ti­nua sulla strada attuale, si can­dida a per­dere un quarto di secolo, dovete esserne con­sa­pe­voli. Quando era­vamo nel mezzo della Grande Depres­sione degli anni trenta, non si sapeva quanto sarebbe durata, ed è finita solo con la seconda guerra mon­diale e la mas­sic­cia spesa pub­blica che l’ha accom­pa­gnata. Non dob­biamo augu­rarci che l’attuale crisi venga risolta allo stesso modo, ma oggi l’Europa ha le mani legate.

Infine, la que­stione della demo­cra­zia. C’è un defi­cit di demo­cra­zia creato dall’introduzione dell’euro. Gli elet­tori votano a favore di un cam­bia­mento delle poli­ti­che, poi arriva un nuovo governo che dice «ho le mani legate, devo seguire le stesse poli­ti­che euro­pee». Que­sto com­pro­mette la fidu­cia nella demo­cra­zia. Oltre alle argo­men­ta­zioni eco­no­mi­che che ren­dono neces­sa­rio un cam­bia­mento c’è que­sta disaf­fe­zione nei con­fronti della poli­tica, che porta al raf­for­za­mento delle forze estre­mi­ste. Non è sol­tanto l’economia che è in gioco, la posta in gioco è la natura delle società europee.

(tra­du­zione del Ser­vi­zio inter­preti della Camera dei Depu­tati, tra­scri­zione e revi­sione di Dario Guarascio)

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