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La grande crisi globale e le sue prospettive

Redazione ilcuneorosso

cuneo3A sei-sette anni dalla sua esplosione proviamo qui a fare il punto sulla crisi. Sulla sua genesi, la sua natura, la sua portata, il suo decorso e sui tentativi di farne il punto dipartenza di una nuova era di accumulazione e di sviluppo. Tentativi finora falliti. Ma i capitalisti globali a tutto “pensano” fuorché ad ammettere il loro fallimento. Ciò che hanno in programma, e già stanno mettendo in atto, è un’aggressione intensificata al lavoro e alla natura e nuovi devastanti conflitti per rispartirsi i mercati mondiali. Prendiamone atto per dare loro la risposta che meritano, prima che sia troppo tardi!

 

Spiegazioni superficiali, insufficienti, mistificanti

La grande crisi in corso ha ricevuto spiegazioni differenti e contrastanti. Tralasciamo qui quelle fornite dagli esponenti del neo-liberismo che possono ridursi a pochi chiodi fissi ribattuti in modo ossessivo: le cose non vanno perché in economia c'è ancora troppo stato e poco mercato; ci sono ancora troppi ostacoli alla concorrenza e al libero mercato; ci sono ancora troppe protezioni per il lavoro. Le affronteremo occupandoci delle politiche anti-operai e dei governi europei e italiani che ad essi continuano ad ispirarsi anche dopo l'esplosione della crisi, certi - a ragione, dal "punto di vista" capitalistico - che indichino l'unica via praticabile per uscirne.

Ci occupiamo, invece, di quelle spiegazioni che in un grado o nell'altro influenzano maggiormente il modo di pensare di quanti/e rifiutano il neo-liberismo e i suoi dogmi. Schematizzando molto, si possono identificare in questo (ampio) campo tre differenti spiegazioni della crisi: la prima la riconduce a politiche errate dei governi e delle autorità monetarie; la seconda all'abnorme sviluppo del capitale finanziario; la terza alle enormi diseguaglianze sociali. Quasi mai troviamo queste tre spiegazioni in una forma pura; quasi sempre, invece, si sovrappongono sotto vari aspetti, e tutte mettono capo alla invocazione di politiche statali espansive per far ripartire la "crescita".

A rappresentare il primo tipo di spiegazione (la crisi è dovuta a politiche errate dei governi e delle autorità monetarie) si può prendere N. Roubini, che ha acquistato autorità per essere stato tra i pochi economisti ufficiali a prevedere lo sconquasso che si è poi verificato. Roubini ha quel tanto di sale in zucca che basta per classificare l'attuale una "grande recessione" e il capitalismo un "sistema straordinariamente instabile"1 , ma gira letteralmente a vuoto quando deve rintracciare le radici profonde di questa "grande recessione". Non sa far altro, infatti, che un disordinato e scoordinato elenco di fattori anzitutto politici (di politica economica e monetaria), e poi finanziari e manageriali, accomunati tra loro dal solo fatto di essere effetti collaterali, o anche inneschi della crisi, mai loro cause di fondo. Eccoli: le sconsiderate politiche pubbliche a sostegno della proprietà della casa negli Usa, in Spagna, etc, l'inazione dei governi davanti alla formazione e all'espansione del sistema bancario "ombra", le politiche monetarie iper-espansive di A. Greenspan, lo spropositato indebitamento delle banche permesso dai governi. E poi la cartolarizzazione dei mutui subprime, la retribuzione dei manager attraverso i bonus (e il primato degli utili a breve), etc.

Questo inconcludente empirismo evita con cura di avvicinarsi alla questione-chiave: la produzione di valore, di plusvalore, di profitto, il suo andamento, le sue crescenti difficoltà sul lungo periodo. Il massimo a cui Roubini arriva è la (giusta) percezione che il sistema capitalistico andrà incontro a "crisi sempre più frequenti dell'economia globale", ma non sa darne la ragione. Non è in grado di dirci perché l'indebitamento generale (e non solo quello delle banche) si è ingigantito negli ultimi 40 anni; perché gli stati hanno favorito in tutti i modi la crescita dell'indebitamento privato e hanno chiuso tutti e due gli occhi sul sistema bancario "ombra"; perché Greenspan e altri capi delle banche centrali hanno inondato di moneta l'economia mondiale; perché si sono diffuse con un contagio irresistibile forme ultra-spericolate di speculazione finanziaria e la frenesia dei guadagni a breve. Non è in grado insomma di uscire dal labirinto degli effetti per risalire alle cause, e in specie alla causa delle cause perché, al pari dei suoi colleghi dell'economia ufficiale, diserta il terreno della produzione, dei rapporti sociali di produzione, della contraddizione crescente tra essi e lo sviluppo delle forze produttive, della produzione dei profitti - la sola cosa che realmente interessi al "sistema capitalistico".

A sinistra le analisi superficiali à la Roubini, che attribuiscono gran parte della responsabilità della crisi a errate politiche istituzionali, hanno buon corso, ma la spiegazione più diffusa è quella che riconduce la crisi all'abnorme sviluppo del capitale finanziario. Sarebbe questo l'elemento perverso e destabilizzante [oltre che disegualitario) del capitalismo. Sarebbe lì la radice del baillamme economico-sociale attuale e di tutti i mali sociali. Tra i più pugnaci nel sostenere questa tesi c'è, in Italia, L. Gallino. La sua denuncia assume, a volta, toni energici, come in questo passaggio:

"la mega-macchina sociale denominata finanzcapitalismo rappresenta il maggior generatore di insicurezza socio-economica che il mondo moderno abbia finora conosciuto. Essa è strettamente intrecciata alla produzione di smisurate disuguaglianze; al deterioramento delle condizioni di lavoro nei paesi sviluppati e al mantenimento di esse a bassi livelli per la maggior parte delle popolazioni dei paesi emergenti; alla progressiva distruzione degli ecosistemi e alla devastazione della agricoltura tradizionale a favore di un modello industriale rivelatosi incapace di nutrire il mondo. L'ascesa finora incontrollata della mega-macchina che svolge simili funzioni è un fattore centrale del degrado della civiltà-mondo"2.

Per certi versi questa denuncia ci sta tutta, ma l'impalcatura su cui si regge mostra la sua fragilità quando Gallino imputa queste conseguenze distruttive ad una serie di "eccessi": l'"eccessivo effetto leva utilizzato dalle istituzioni finanziarie"3, l'eccessiva creazione di denaro, gli eccessi delle politiche di indebitamento pubblico e privato, la eccessiva interconnessione tra i differenti prodotti e tipi di attività finanziarie, l'eccessiva complessità del sistema finanziario; in ultima istanza, quindi, le dimensioni eccessive assunte negli ultimi decenni dal capitale finanziario. Con il corollario che tutto si riaggiusterebbe con dei provvedimenti governativi volti a ridurre drasticamente queste dimensioni e a costringere il capitale finanziario a tornare a fare il bravo ragazzo, come le banche di un tempo che avevano l'unica missione di sostenere l'"economia reale".

Una simile analisi, diffusissima anche nella sinistra estrema, non riesce a spiegare perché si è creata, non in un giorno e in un luogo, ma nell’arco di 40 anni e a scala mondiale, l'attuale ipertrofia delle attività finanziarie. E perché dopo l'esplosione della crisi nulla di sostanziale è cambiato. Anzi, come ha notato la stessa BRI ancora a metà del 2014, esiste un'evidente sconnessione "tra la straordinaria vivacità dei mercati finanziari e la fiacchezza degli investimenti", tra le borse (ossia l'economia finanziaria) che continuano brindare e l'economia reale, che continua a presentare ovunque 'livelli relativamente alti di disoccupazione"4. In realtà le radici degli eccessi su cui è catalizzato Gallino, si possono rintracciare soltanto nell'ambito delle contraddizioni e degli antagonismi propri del processo di produzione di valore e di plusvalore, solo facendo i conti con i crescenti impedimenti strutturali alla valorizzazione del capitale nei processi produttivi. Sono questi impedimenti strutturali la causa fondamentale della ipertrofia dei mercati finanziari e della spasmodica ricerca di fonti di profitto fuori dai processi produttivi.

Senonché Gallino e quanti lo prendono a riferimento mettono tra parentesi proprio tali antagonismi strutturali (anche quando li nominano) e si rifiutano di vedere che la "mega-macchina del finanzcapitalismo" non è l'escrescenza tumorale sul corpo altrimenti sano del capitale; è un prodotto necessario dell'epoca imperialista del capitale, inseparabile da quel capitale produttivo, da quel capitale industriale che essi vedono come l'elemento positivo da liberare togliendolo dalle grinfie del capitale finanziario. Mentre in realtà tra capitale finanziario e capitale produttivo esiste una simbiosi. E in tale simbiosi il capitale produttivo contribuisce all'ipertrofia del suo apparente rivale5, mentre il capitale finanziario contribuisce prontamente allo sviluppo del capitale produttivo non appena questo è in grado di assicurare una adeguata profittabilità. La mega-macchina dei mercati finanziari è di certo antisociale nel suo dna, ma non è cieca, come pretendono Gallino e altri.

Una terza spiegazione insufficiente della grande crisi in corso è quella che identifica la causa prima di essa nella polarizzazione della ricchezza sociale. Questa spiegazione è stata rilanciata a turbo dalla fortuna del libro di T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, e ha tra suoi sostenitori economisti mainstream come Stiglitz6, Krugman, James Galbraith, lo stesso Roubini e perfino, per la gioia di ingenui o finti tali, alcuni economisti del FMI e il capo della banca centrale dell'India Rajan. La crescita della polarizzazione sociale, così veloce e accentuata negli ultimi 40 anni (se è vero che, al 2013, la ricchezza degli 85 super-capitalisti più ricchi del mondo era pari a quella di 3,5 miliardi degli individui più poveri) e la contrazione della massa dei salari sul totale della ricchezza prodotta così sensibile tanto nei paesi imperialisti che nei paesi del Sud del mondo7 danno una particolare verosimiglianza a questa spiegazione. Dal fatto che la rilevazione delle crescenti disuguaglianze sociali sia fatta, in genere, da economisti "riformisti" fautori di pecette sotto-riformiste per curare i mali sociali del capitalismo, non deriva in alcun modo che la denuncia della polarizzazione sociale vada regalata ai riformisti. Al contrario la polarizzazione della società è per noi qualcosa di diverso da uno scomodo ed evitabile inconveniente dovuto all'ingordigia del "capitalismo patrimoniale", è il portato obbligato del progredire del modo di produzione capitalistico: anche nelle sue fasi di pieno sviluppo, sostiene l'Indirizzo inaugurale della Associazione internazionale degli operai redatto da Marx 150 anni fa8. E, come spieghiamo altrove, lo stesso impoverimento [relativo e/o assoluto) dei salariati si può considerare un sinonimo, l'altra faccia, dell'accumulazione del capitale.

Tuttavia resta da spiegare perché l'intero arco degli ultimi decenni è stato caratterizzato da una speciale esasperazione di tale tendenza, e come questa polarizzazione, che è parte integrante del modo di essere del capitalismo, abbia dato ossigeno fino ad un certo punto all'accumulazione del capitale (lo "sviluppo"] attraverso l'intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro e la sua svalorizzazione, operando come un fattore di rinvio, di freno all'esplosione della crisi, anziché esserne la sua principale causa scatenante, come sono soliti ripetere certi keynesiani.

Questo tipo di analisi, riscontrabile anche in analisi di economisti che si rifanno al marxismo, ha un duplice difetto: ricerca la radice ultima della crisi in corso, e della crisi in generale, ancora una volta all’esterno del processo di produzione capitalistico, nel processo di distribuzione della ricchezza sociale; e non riesce ad afferrare bene il nesso forte esistente tra i due processi. A questi difetti si somma una vera e propria mistificazione là dove e quando si indica la via di uscita dalla crisi nella redistribuzione della ricchezza sociale, e si attribuisce all'irragionevolezza dei governanti attuali il non volerlo capire. All’opposto l'uscita capitalistica dalla crisi potrà darsi soltanto con l'ulteriore compressione del valore della forza-lavoro, con l'ulteriore impoverimento di una sua quota crescente e con la messa in sovrannumero, se non la distruzione, di una parte di essa ancora più ampia dell'attuale esercito di riserva, perché solo attraverso questi processi si potrà riportare in alto, sempre più in alto, la profittabilità del capitale (il solo, vero scopo della produzione capitalistica), una profittabilità senza limiti.

 

La causa ultima delle grandi crisi, ed anche di quella attuale

La crisi globale attuale è esplosa nell'ipertrofico sistema finanziario e assicurativo statunitense/occidentale; è segnata da una forte polarizzazione sociale; ha dietro di sé politiche statali che hanno favorito sia l'ipertrofia del capitale finanziario sia una distribuzione della ricchezza fortemente sperequata; ma le sue radici più profonde sono nella produzione. È una crisi di sovrapproduzione e di sovraccumulazione del capitale. Quale che ne sia la coscienza degli attori in campo, la sua causa di ultima istanza è stata l’insufficiente profittabilità degli investimenti produttivi a scala mondiale, e in modo particolarmente acuto di quelli nel centro del capitalismo globale, tuttora costituito - mai dimenticarlo - dagli Stati Uniti, dall'Europa, dal Giappone.

Intendiamoci: ogni crisi e una crisi "particolare", va collocata nel suo contesto storico ed esaminata in rapporto alle dinamiche specifiche che l'hanno scatenata. Quindi è indispensabile, e lo faremo, esaminare i tratti specifici di questa crisi. Ma il processo genetico profondo di ogni crisi, specie delle grandi crisi com’è l’attuale, per quanto sia particolare nelle sue modalità e nei suoi fattori scatenanti, rimanda alle leggi generali di funzionamento del modo di produzione capitalistico.

Due parole su questo.

Il capitalismo è un sistema sociale che vive solo ed esclusivamente per la produzione di profitto. Prospera (la famosa "crescita") quando il profitto è abbondante, si inceppa e va in corto circuito quando è insufficiente. Il profitto, in quanto lavoro non pagato, proviene esclusivamente dallo sfruttamento del lavoro vivo nell'industria (nel senso lato del termine, compresi edilizia, trasporti, comunicazioni, etc), nell'agricoltura e nei "servizi" di supporto alla produzione industriale e agricola. Essendo il capitalismo un sistema di produzione e riproduzione dei rapporti sociali dotato tuttora di dinamismo, sotto la sferza della brama di profitto spezza di continuo i suoi "equilibri", ne crea di nuovi e poi di nuovo li infrange per allargare e approfondire il proprio raggio d'azione. E in questa frenetica corsa ad appropriarsi con ogni mezzo di una quantità sempre maggiore dei tesori della natura e delle energie vitali degli esseri umani al fine di accatastare una massa sempre più grande di profitti, crea per il suo ulteriore cammino ostacoli sempre più alti e difficili da superare.

Il principale ostacolo alla crescita ininterrotta del capitale totale è la crescita della composizione organica del capitale complessivo, cioè del rapporto tra quello che Marx chiama capitale costante (macchine, materie prime, fabbricati, etc.) e capitale variabile (la forza-lavoro impiegata). Per Marx è caratteristica intrinseca del modo di produzione capitalistico la spinta ad accrescere il più possibile il capitale costante per sviluppare al massimo la produttività del lavoro, e attraverso di essa la produzione di profitti, e la contestuale riduzione (relativa) dei proletari in carne ed ossa addetti alla produzione, quelli che debbono materialmente produrre profitti. Sulla base di questa analisi Marx ha formulato nel III Libro de Il Capitale (capp. 13-15) la legge della caduta tendenziale del saggio generale del profitto, indicandola come la più importante tra tutte le leggi di funzionamento del capitalismo, "il mistero a svelare il quale tutta l'economia politica si è adoperata dal tempo di Adam Smith" (senza riuscirci).

Non avrebbe senso fare qui la sintesi di questi tre capitoli che, per quanto solo abbozzati, presentano con mirabile dialettica questa legge, il suo fondamento, le "cause antagonistiche" che ne contrastano l'operatività e le danno "il carattere di una semplice tendenza", e il movimento delle "contraddizioni intrinseche" del capitalismo che questa legge esprime e riproduce. Invitiamo caldamente chi legge ad affrontarli di persona. Questi tre capitoli possono considerarsi un compendio di tutta l'analisi marxiana del capitale perché affrontano la questione cruciale del saggio del profitto, "la forza motrice della produzione capitalistica", senza isolarla o astrarla da altri meccanismi caratteristici del capitalismo: l'espropriazione l'impoverimento della grande massa dei produttori, carattere antagonistico della distribuzione capitalistica della ricchezza socialmente prodotta, l'incessante ampliamento della scala della produzione e dei commerci. Dall'esposizione di Marx risulta chiaro che l'operatività di questa legge andrà verificata (o, nel caso, smentita) sull’arco storico, in 'lunghi periodi di tempo", perché il capitale conduce contro di essa, naturalmente, una lotta all'ultimo sangue per impedirne, o almeno ritardarne, la sanzione.

È merito di un gruppo di studiosi militanti avere sottoposto la validità di questa legge alla prova del corso effettivo del capitalismo per l'appunto sul lungo periodo, tentando di misurare l'andamento del saggio di profitto dapprima nel secondo dopoguerra e in relazione, in prevalenza, a Stati Uniti e paesi Ocse; in seguito espandendo la loro ricerca su questi paesi a tutto il ventesimo secolo, e in qualche caso anche a una parte del diciannovesimo secolo; poi finalmente inglobando nelle loro stime i principali paesi "emergenti" nel tentativo di approssimare, per quanto è possibile, il movimento del saggio del profitto alla scala mondiale e sul più lungo periodo possibile9.

Si deve a questi stessi studiosi la ricostruzione dell'andamento del saggio di profitto nell'era "neoliberista". Per quello che concerne gli Stati Uniti, scrive M. Roberts,

"le mie principali conclusioni [fondate sui dati forni ti dal Bureau of Economic Analysis degli Stati Uniti n.] sono che vi è stato un secolare declino del tasso profitto (...) dal 1946 al 2012; ma il declino non è stato lineare perché all'inarca dai primi anni '80 fino 1997 il saggio di profitto è risalito. Questa risalita non ha riportato il saggio di profitto al precedente alto li vello esistente negli anni '60. Dal 1997 ad oggi il saggio di profitto è rimasto piatto o è caduto di poco, con un periodo di ripresa tra la recessione del 2001 fino al 2006, anno in cui ha raggiunto un picco, e poi una caduta durante la grande recessione del 2008-2009 ed una nuova ripresa fino ad ora [marzo 2014], con un saggio di profitto al 2013 in linea con il picco del 2006 o leggermente al di sotto di esso. Dunque la profittabilità discendente o piatta verificatasi dal 1997 in avanti è stata la causa sottostante della successiva leggera caduta di investimenti, occupazione e produzione, e solo un boom dell'accesso alla proprietà [delle abitazioni] e dei mercati finanziari alimentato dal credito ha fatto risalire la profittabilità fino al 2006 prima che una nuova caduta precipitasse gli Stati Uniti e infine l'intera economia mondiale nella grande recessione come un podista che precipita da una scogliera.

"Il declino secolare della profittabilità negli Stati Uniti, avvenuto per gran parte tra la metà degli anni '60 e l'inizio degli anni '80, è spiegato al meglio dalla legge e-sposta da Marx, ovvero da una crescente composizione organica del capitale che ha soverchiato l'effetto delle controtendenze [alla caduta del tasso di profitto] come un crescente saggio di sfruttamento del lavoro. Dagli anni '80 fino agli ultimi anni '90, i fattori in controtendenza hanno dominato nella cosiddetta era neo-liberista. Ma dopo il 1997 la legge di cui in Marx ha cominciato di nuovo ad operare poiché una rilevante crescita nella composizione organica del capitale non è stata sufficientemente contrastata da un pur forte incremento del saggio di sfruttamento (in parte riflesso in una diseguaglianza dei redditi che ha toccato le punte più estreme dagli anni '20 del novecento)"10.

A scala mondiale M. Roberts e G. Carchedi hanno stimato il seguente andamento della profittabilità misurata sulle economie dei paesi del G-7 e dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina):

"La nostra analisi ha trovato che vi è stata una caduta del saggio di profitto dal punto di partenza del 1963, e che esso non ha più recuperato in seguito quel livello. Il saggio di profitto mondiale ha toccato il suo punto più basso nel 1975 e poi è risalito fino a toccare il suo picco più alto alla metà degli anni '90. Dopo di allora il saggio di profitto mondiale è stato statico o in leggera caduta e non è più ritornato ai massimi toccati negli anni '90.

"Dopo i primi anni '90 c'è una divergenza tra il saggio di profitto dei paesi del G7 e quello a scala mondiale (si veda il grafico qui sopra). Questo indica che le economie che non fanno parte del G7 hanno giocato un ruolo crescente nel sostegno del saggio di profitto alla scala mondiale, mentre le economie del G7 hanno sofferto una crisi di profittabilità dai tardi anni '80 e di sicuro dalla metà degli anni '90. Ciò suggerisce che la 'globalizzazione' è stato un fattore di primaria importanza nel contrastare l'operatività della legge della profittabilità negli anni '90"11.

Nelle economie centrali, e non solo in quelle, la crescita della composizione organica del capitale è stata determinata da due fattori: l'avvento della rivoluzione informatica e l'impennata del prezzo del petrolio e di altre materie prime. Robotica ed informatica si sono aggiunte alla meccanizzazione sempre più spinta portando all’estremo la riduzione del lavoro vivo nei processi produttivi in tutti i settori a fronte di una ulteriore crescita del capitale costante. Vi è un rovescio della medaglia: la riduzione progressiva del costo delle macchine man mano che la nuova rivoluzione tecnica si è venuta consolidando; e la riduzione del costo dei beni di consumo della forza-lavoro, e quindi del valore della forza-lavoro prodotto dal nuovo balzo tecnologico, che è avvenuto anche grazie alla mondializzazione della produzione industriale e allo sviluppo/velocizzazione dei commerci. Però i riscontri di fatto sembrano provare la prevalenza, nel tempo, del dritto del la medaglia sul suo rovescio. Anche perché smentendo le aspettative, l'ultima rivoluzione tecnica sembra far crescere la produttività del lavoro nei paesi dominanti sul mercato mondiale meno di quelle precedenti12 -laddove, invece, la crescita della produttività del lavoro è stata molto forte nei "nuovi capitalismi" (con record, al solito, in Cina grazie anche ad una imponente massa di investimenti).

Se esiste un qualche margine di incertezza sugli effetti d'insieme che la rivoluzione informatica ha avuto sulla crescita della composizione organica, questo margine sparisce nel caso delle materie prime, specie per il petrolio e la prima decade del duemila, come è evidente dall'impennata spettacolare del suo prezzo (v. l'importante grafico storico 1860-2010 alla pagina seguente). La crescita dei prezzi riguarda parecchie altre materie prime, ad iniziare dai metalli (e dal cotone), e va messa in relazione alla riserve fisicamente limitate di materie prime estraibili dal sottosuolo fronte di una richiesta crescente dell'economia mondiale, in specie dei paesi "emergenti"13. Per altro verso sempre nel primo decennio duemila l'impiego di vaste aree di terra coltivabile per produrre i cosiddetti bio-carburanti e mangimi animali, in combinazione con una speculazione finanziaria scatenata, hanno portato ad un forte e rapido aumento dei prezzi delle materie prime alimentari e degli alimenti-base, e quindi all'aumento dei costi di riproduzione della forza-lavoro14. Ed entrambi questi movimenti dei prezzi, soprattutto il primo, hanno contribuito a ridurre i margini di profitto delle imprese.

Insomma: nel trentennio-quarantennio "neoliberista" è stata prodotta la più gigantesca massa di profitti dell’intera storia del modo di produzione capitalistico per effetto dell'enorme allargamento spaziale e settoriale dell'accumulazione di capitale, ma in capo a un dato periodo di tempo tutto ciò non è bastato a saziare la sete del capitale-vampiro, misurata dal saggio di profitto, e cioè dalla misura in cui il capitale anticipato riesce ad ingrandirsi nel processo di produzione. È stupefacente che il raddoppio del proletariato industriale avvenuto nell'era "neo-liberista", da trecento a seicento milioni di unità, con l'impiego massiccio di forza-lavoro a basso costo e con pochissimi diritti, "orari da fine ottocento, salari da inizio novecento, produttività dell'era informatica, o quasi", non sia bastato ad evitare al capitalismo globale di finire in un marasma di proporzioni globali per via di un deficit di produzione di profitti. Ma questo è. Questo è il capitalismo reale. E ciò significa che la via maestra per uscire in modo capitalistico da questa crisi è la via classica: la distruzione di una enorme massa di capitali eccedenti [impianti, lavoratori occupati, capitali fittizi, etc.) e la ripartenza da un livello di sfruttamento del lavoro intensificato. Altre vie non ce ne sono.

Bisognatuttaviaguardarsidall'istituireunnessofacile, immediato, meccanico tra l'andamento del saggio di profitto negli ultimi 30-40 anni e l'ampiezza e profondità della crisi esplosa nel 2007-2008. La crisi di metà anni '70, di portata decisamente minore rispetto all'ultima, è stata preceduta da una caduta del saggio di profitto quasi verticale durata ben 25 anni; la crisi recente ha dietro di sé, invece, una significativa risalita del saggio di profitto dal 1975 fino alla metà degli anni '90 e dopo questo picco, la stasi o la leggera flessione di esso. Per cui resta da spiegare, e non è questione da poco, "come mai un calo dei profitti, serio ma non certo fuori dalla norma, abbia potuto causare un disastro globale che è unico nel dopoguerra né è ancora in grado di mostrare apparenti vie di uscita"15. La spiegazione va ricercata, a nostro avviso, nello specifico processo di sviluppo che sta dietro questa crisi e nel progressivo indebolimento del ruolo-guida degli Stati Uniti, poiché neppure nel capitalismo globale, dove in superficie tutto appare come "economia&finanza" e non c'è posto per niente altro, scompare la politica, e la sua capacità di retroagire sull'economia.

 

Il processo di sviluppo che sta dietro questa crisi

La crisi scoppiata nel 2007 è stata il punto di arrivo di una fase di accumulazione capitalistica che, presa nel suo insieme, non ha eguali nella storia. Per due ragioni, per molti versi opposte, che ne esprimono al contempo la grande forza e la grande debolezza (alla distanza).

La prima è stata, appunto, lo straordinario allargamento della scala dell’accumulazione e degli operai e salariati in attività produttori di plusvalore. L'inaudita crescita del proletariato industriale, e non solo industriale, avvenuta dal 1975 è dovuta all'ingresso nelle fornaci del capitale globale di centinaia di milioni di proletari e proletarie che in grande maggioranza hanno ricevuto per decenni e ricevono tuttora salari nettamente inferiori alla media mondiale dei salari industriali degli anni '70. Si è verificato perciò contestualmente un abbassamento del valore medio mondiale della forza-lavoro, che ha fatto risalire il saggio di profitto attraverso l'integrazione nel mercato mondiale del lavoro salariato di legioni di proletari a basso costo del Sud del mondo, super-sfruttati in loco o nei paesi ricchi (a seguito dell'ingrossamento delle migrazioni internazionali)16, e di altrettante legioni di donne entrate in massa nel mercato del lavoro salariato internazionale. E tutto questo processo è tornato come un boomerang sulle condizioni di lavoro e i salari dei/lle proletari/e delle metropoli, che sono stati messi in un crescente numero di settori e di imprese in diretta concorrenza con i proletari e le proletarie del Sud del mondo.

La seconda ragione, di segno inverso, è che finora non si era mai visto nella storia un ciclo (o dei cicli) di sviluppo del capitalismo sostenuto in modo altrettanto massiccio dall'indebitamento generale di stati, imprese, banche, famiglie, singoli individui. Tale processo, generale benché disomogeneo nei vari paesi, è stato finalizzato a posporre l'inevitabile sanzione di tutti i cicli ascendenti del capitale: l'emergere alla superficie della sovraccumulazione e della sovrapproduzione di capitale.

Dagli esordi del modo di produzione capitalistico il credito (ovvero: l'indebitamento) è stato un carburante insostituibile del movimento di riproduzione allargata del capitale. Ma ciò che è del tutto specifico degli ultimi 30-40 anni è il carattere generale e il livello stratosferico dell’indebitamento. Lo ha sostenuto la caduta altrettanto straordinaria, storica del tasso di interesse. A. Shaikh ne ha fornito le cifre per gli USA: mentre dal 1947 al 1981 il tasso di interesse a tre mesi dei buoni del tesoro è salito dallo 0,59% al 14.03%, dal 1982 al 2009 è sceso, invece, dal 14,03% allo 0,16%17. Negli altri paesi occidentali non è andata molto diversamente. Ed è indicativo che mentre nel primo periodo si sono verificate poche crisi finanziarie, nel secondo si sono verificate nel mondo alcune centinaia di crisi finanziarie grandi e piccole18, che sono progressivamente risalite dalle periferie al centro.

Nella crescita vertiginosa dell'indebitamento generale ha avuto un posto particolare l'indebitamento delle famiglie dei salariati, come strumento per sostenere i consumi, come forza di coazione al lavoro femminile extra-domestico, all'allungamento degli orari di lavoro, al doppio lavoro (dal momento che si deve rispondere anche ad un secondo padrone, la banca), ed infine come mezzo di abbattimento della conflittualità sociale ("per ripagare i debiti e liberarsene, bisogna lavorare duro, non c'è tempo per pensare ad altro"). Il ritmo di questa crescita è stato folle negli Stati Uniti, dove l'indebitamento medio delle famiglie è passato dai 40.000 dollari (in termini reali) degli anni '80 ai 130.000 del 2010. Ma anche in molti paesi europei non si è scherzato, se è vero che nel 2009 in Gran Bretagna l'indebitamento delle famiglie ha superato il valore del pil, in Spagna è arrivato all'83,6% di esso e in Germania a un rilevante 63,5%. L'Italia, pur partendo da livelli inferiori, ha seguito la tendenza generale.

Questo processo di indebitamento generale, pubblico e privato, senza precedenti è stato un fattore dopante di primissimo rilievo dei cicli "neo-liberisti". Ed è servito a contrastare l'andamento sempre più rallentato dell'accumulazione in Occidente che, come mostra il grafico qui accanto (vedi grafico elaborato da Durand e Leger qui sotto), è andato degradando da una media

durand leger

del 5,5% annuo degli anni '60, al 3,8% degli anni 70, al 3% degli anni '80, al 2,5% degli anni '90, all'1,7% degli anni duemila. La medesima tendenza è espressa anche dal rallentamento degli investimenti di capitale avvenuto, per gli Stati Uniti e i principali paesi europei, con quattro momenti di discesa a picco, e ogni volta più in basso del precedente, a cadenza quasi decennale, alla fine degli anni '70, degli anni '80, degli anni '90 e a fine decennio scorso; dalla stagnazione o contrazione dello stock di capitale fisso in rapporto al pil che tra il 1980 e il 2007 passa negli Stati Uniti dal 23 al 22%, in Giappone dal 32 al 23%, in Germania dal 25 al 19% e in Italia dal 27 al 22%; dall'invecchiamento crescente di questi stock; dalla crescente sproporzione tra l'impiego di fondi - da parte delle multinazionali - per gli investimenti produttivi da un lato, e per il riacquisto di proprie azioni, i bonus ai propri managers, la distribuzione di dividendi, etc. dall'altro19.

Dunque, tra la metà degli anni '70 e la metà degli anni '90 è avvenuto un forte recupero della profittabilità per l'azione dei fattori fin qui richiamati: la nuova rivoluzione tecnica e organizzativa, l'enorme crescita del proletariato produttivo di valore del Sud del mondo, l'indebitamento generale, il doping bellico. In seguito, nonostante la messa in atto di politiche monetarie ultra-espansive e la montagna di provvedimenti governativi volti a smantellare nei paesi occidentali il welfare e le forme di tutela del lavoro ottenute nel secondo dopoguerra, la profittabilità del capitale non si è più incrementata perché ha incontrato sulla propria strada ostacoli strutturali e sociali sempre più coriacei. Il superamento di questi ostacoli era legato alla possibilità di mantenere indefinitamente bassi i costi di produzione, anzi di abbassarli ulteriormente e di assicurare un mercato di sbocco alla crescente quantità di merci prodotte attraverso un prolungamento indefinito, tenuto sotto controllo, del processo di indebitamento generale. Una navigazione impervia.

 

Un successo dopo l’altro, fino al tracollo

La "rivoluzione" finanziaria intervenuta dopo il 1975 negli Stati Uniti e in Europa ha cercato per l'appunto di svolgere un ruolo di "guida", di regia mondiale del processo di accumulazione (per sua natura comunque irriducibilmente anarchico) spostando di continuo in avanti il limite oltre il quale si sarebbe materializzata alla superficie una nuova, gigantesca crisi di sovrapproduzione20. Come? Accrescendo l'efficienza nello sfruttamento della forza-lavoro alla scala mondiale per mezzo di fusioni e concentrazioni di società di portata senza precedenti. Intensificando la concorrenza tra i lavoratori del Nord e del Sud del mondo e all'interno dei due rispettivi mondi attraverso spostamenti sempre più rapidi di capitali e di impianti. Imponendo a tutti gli "attori economici", privati e statali, inclusi i più riottosi, la tirannia dei mercati, anche, quando necessario, attraverso embarghi e guerre. Premendo sui salariati e sulle salariate perché accrescessero i loro debiti, con il lanciare loro l'esca di un accesso al credito inizialmente facile e costringendoli/e in "cambio" a dosi di lavoro sempre maggiori e più intense. Diffondendo con un'estensione e un martellamento che non ha pari nella storia del capitalismo l'ideologia liberale e influenzando in senso mercantile, a mezzo di questa semina di ogm mentali ad altissima tossicità, il comportamento di milioni e milioni di individui sia sui posti di lavoro che come consumatori.

Questa azione ha conseguito risultati sociali e politici esaltanti per i capitali (i capitalisti) globali: lo sradicamento delle relazioni sociali pre-capitalistiche in amplissime aree del mondo; l'apertura di nuovi nuovi campi all'accumulazione; lo sbriciolamento del muro di Berlino e dei regimi del "socialismo reale", con tutta l'enorme ricaduta ideologica e politica del caso; la conquista della Cina al denghismo più o meno temperato; la disgregazione o l'allineamento subordinato del vecchio movimento operaio dei paesi imperialisti; l'adozione delle politiche liberiste anche da parte dei partiti e dei governi "di sinistra". Ma proprio questa sequenza di successi - i nessi economia/politica sono biunivoci - nonché la relativa facilità con cui sono state circoscritte e riassorbite le crisi bancarie, monetarie e finanziarie intervenute tra il 1982 (Messico) e il 1997-'98 (Corea del Sud, Russia), hanno sospinto le vecchie e nuove istituzioni della finanza internazionale a scommettere con crescente, incontenibile euforia sul proprio futuro e sul futuro del sistema sociale capitalistico, producendo e scambiando una smisurata pletora di titoli giuridici di proprietà sul lavoro, sul pluslavoro, delle future generazioni del proletariato mondiale. Così facendo hanno generato enormi movimenti speculativi, molteplici bolle finanziarie, perché ad essere scambiate furiosamente sui mercati sono state sempre più, invece che masse di profitti reali, montagne di aspettative di profitti futuri e via via anche di debiti presenti socializzati.

Non staremo a dire - se ne è parlato un'infinità di volte -della gamma di diavolerie inventate dagli hedge fund, dal sistema bancario ombra, dai virtuosi dei fondi fuori bilancio e degli schemi-Ponzi, e così via. Diremo soltanto che nel tempo, in particolare negli anni duemila, si è venuta a creare sui mercati finanziari un'autentica vertigine del capitale che si valorizza, si ingrandisce, si moltiplica da sé senza bisogno di passare attraverso la “fatica” della produzione. Nulla di interamente nuovo, se vogliamo. Il ciclo dell'accumulazione di capitale arriva sempre ad un punto in cui il capitale cerca di forzare artificialmente le difficoltà che incontra a valorizzarsi. Marx insegna, e la storia conferma. Nuove sono state, invece, la durata di questa forzatura artificiale, la scala effettivamente mondiale a cui è avvenuta, e la velocità crescente del processo di produzione di questo smisurato capitale fittizio, incrementatasi al massimo proprio a ridosso dell'esplosione della crisi21. Così, passo dopo passo, o meglio: balzo dopo balzo, in un clima di "irrazionale esuberanza dei mercati" (parole di Greenspan), sono cresciuti i rischi di un tracollo generale. Il tracollo, con la conseguente caduta sia della massa dei profitti che del saggio di profitto, è inesorabilmente arrivato quando il grado di tensione di tutte le contraddizioni è diventato incontenibile. Ci riferiamo non soltanto alle crescenti difficoltà del tasso di profitto a tornare a salire come nel periodo 1975-1997, ma anche ad un'altra serie di fattori economici, sociali, ecologici e politici: all'inasprimento dei rapporti tra capitale e lavoro salariato, provato sia dall'insostenibilità dei debiti contratti per milioni di proletari degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Spagna, etc, sia dall'ascesa dei salari in Cina e diversi altri paesi di nuova industrializzazione; alle contraddizioni tra capitale e natura, riflesse nell'esplosione del prezzo degli alimenti-base, del petrolio, di alcuni metalli, del cotone avvenuta nei primi anni duemila; al contrasto tra le diverse forme del capitale, tra il profitto industriale e le sue detrazioni, rendita e interesse, diventate sempre più esigenti e avide; alle crescenti tensioni tra i vecchi paesi imperialisti e i "nuovi capitalismi" ascendenti, relative alla ripartizione dei proventi dello sviluppo di questi ultimi e del potere decisionale sulla scena politica internazionale.

Dietro la grande crisi di inizio ventunesimo secolo, dunque, non c'è la caduta prolungata, verticale della profittabilità che ha preceduto la crisi di metà anni '70. C'è il progressivo logoramento di tutti i fattori che per due decenni avevano favorito, con forzature di ogni tipo, una ripresa del saggio di profitto fino al loro improvviso cedimento nel 2007-2008, dopo un decennio in cui aveva preso corpo un nuovo, leggero declino di esso. L'impatto di tale cedimento è stato molto più rilevante di quello della crisi degli anni ‘70 per la portata incomparabilmente maggiore della sovrapproduzione e della sovra-accumulazione che si è venuta a formare nei decenni del "neo-liberismo", e che è stata solo in parte smaltita dal 2009 ad oggi.

La portata della prima grande crisi del ventunesimo è stata fortemente amplificata dal fatto che il suo epicentro sia stato negli Stati Uniti, la sola potenza capitalistica in grado, in qualche modo, di svolgere la funzione di "regista" e guardiano dell'economia mondiale. Dopo lo schianto dell'URSS e dei regimi "socialisti" dell'Est Europa a fine anni '80, l'egemonia statunitense nel mondo era apparsa per qualche anno pressoché assoluta. Questa nuova fase di stabilizzazione dell'ordine capitalistico mondiale aveva dato ulteriore impulso al processo della "globalizzazione neoliberista", facendo immaginare ai suoi primattori una lunga era di sviluppo (dei profitti), un nuovo "secolo americano". Ma nell'arco di un solo decennio tale prospettiva si era già molto offuscata per l'incapacità del Pentagono di vincere le guerre scatenate in Iraq e Afghanistan, ed è poi venuta meno quando le amministrazioni Bush e Obama, dopo avere dopato l'economia statunitense, non sono riuscite ad evitare che le patologie del sistema bancario, finanziario e assicurativo statunitense contagiassero l'intero globo. A sua volta il forte indebolimento della leadership yankee nel mondo ha reso e rende ancor più complicata l'uscita dalla crisi in quanto fa mancare al capitale globale una forza-guida in grado di "governare" in qualche modo la propria riproduzione allargata.

 

I capitali globali hanno reagito con violenza, ma la crisi non è superata

Messa in prospettiva storica, questa crisi segnala senza dubbio l'avvicinamento del capitalismo ai suoi propri limiti, e il rischio, per esso, di una fase di vera e propria disgregazione del suo ordine. Negli Stati Uniti è in atto anche un dibattito pubblico intorno alla possibilità che quest'ultima crisi apra una "stagnazione secolare", ipotizzata da Summers e Krugman. Ma guai ad immaginarsi una resa del capitale globale davanti ai propri certificati disastri. Al contrario le borghesie di tutto il mondo hanno prontamente reagito all'esplosione della crisi, cercando di concertare - per quanto è possibile tra fratelli coltelli - una risposta anti-ciclica comune per evitare lo sprofondamento in una depressione generalizzata; una risposta comune anche con il concorrente cinese, autore di un mega-piano di spesa da 586 miliardi di dollari.

Per ciò che riguarda l'Occidente, la risposta immediata è stata in tre direzioni: 1) socializzare le perdite di banche e imprese; 2) inasprire la torchiatura dei proletari e la concorrenza tra di essi; 3) mettere in atto nuove aggressioni militari "limitate", preparandosi nel contempo a conflitti di più ampia scala.

La coppia Bush-Obama e i governi europei hanno operato il salvataggio del sistema bancario, sia quello ufficiale che la sua "ombra", assicurando ad esso finanziamenti illimitati e scaricando le sue perdite sulle spalle della classe lavoratrice mondiale attraverso l'inflazione del debito di stato. Da tempo Bernanke aveva tratto dal tracollo del '29 la lezione che in caso di grandi crisi bisognasse far piovere fiumi di dollari dagli elicotteri. La Fed (la banca centrale giapponese lo faceva già da anni) ha stampato moneta a ciclo continuo, dando vita ad un keynesismo filo-bancario che ci è costato tra gli 11.000 e i 15.000 miliardi di dollari, se non più22. Ora a 5-6 anni da questo "miracoloso salvataggio", che ha acuito al suo massimo storico la crisi del debito statale, non solo non vi è stata una decisa e duratura ripartenza del processo di accumulazione, ma si è venuta a creare una nuova bolla finanziaria-speculativa di proporzioni tali che lo stesso Bernanke, poco prima di lasciare, ha dovuto avvertire i suoi amici cocainomani delle borse: "ragazzi, il party sta per finire, tra poco arriva una nuova tempesta".

Dopo il fallimento della Lehman Brothers, i governanti dei paesi occidentali avevano giurato: la finanza sarà ripulita e le banche ora aiutate saranno ricondotte al ruolo di sostegno della produzione reale. In realtà, in questi ultimi anni anche le banche ufficiali sono andate trasformandosi in hedge funds. Il sistema bancario ombra è ridiventato, a fine 2012, più grande, in termini assoluti, di quanto era prima del crollo del 2008: 67.000 miliardi di dollari contro i 62.000 miliardi del 2008, a fronte di un pil mondiale a 69.970 miliardi di dollari23. E all'autunno 2014 è già al 120% del pil mondiale (oltre 75.000 miliardi di dollari). C'è tuttora una quantità di banche messe male o malissimo (tra cui 15 grandi banche: Bank of America, Citigroup, HSBC, Credit Suisse, etc, declassate da Moody's), per non dire del Montepaschi. Negli Stati Uniti sono tornati i mutui sub-prime, fino al 95% del valore della casa. Continua a ridursi ancora l'orizzonte temporale medio degli investitori in borsa, precipitato negli Stati Uniti a 4 mesi a fronte degli 8 anni su cui era attestato negli anni '60. La logica finanziaria - che privilegia gli investimenti finanziari su quelli produttivi - sta imponendosi anche nelle società transnazionali dell'industria e dei servizi24.

Perché questo rischioso remake?

In generale, per la forza che il sistema finanziario ha raggiunto nei confronti degli stati e dei governi e per il peso straripante che le manovre affaristiche hanno conseguito sulle tecniche produttive - un segno, tra i tanti, della senilità del capitalismo contemporaneo, come fu messo in evidenza già negli anni '50 da A. Bordiga25. Nello specifico di questa ultima crisi ciò accade perché nonostante altissimi indici di disoccupazione, decine di milioni di licenziamenti, la riduzione all'osso degli organici, il dilagare di precarietà e mini-job, gli spietati tagli alla spesa sociale, etc; nonostante il giro di vite imposto sui luoghi di lavoro (un nome per tutti: la Fiat di Pomigliano); nonostante il dimezzamento dei salari per i nuovi assunti (un caso per tutti: la Chrysler di Detroit); non vi è stato un adeguato recupero della profittabilità del capitale produttivo, anzi parte di esso risulta tuttora, secondo la "logica" del profitto, da distruggere. La ripartenza alla grande di attività finanziarie a breve, favorita dalle banche centrali che dovrebbero istituzionalmente tenerla sotto controllo, è dovuta all'inceppamento non superato nella produzione di profitti che ha solide e non rimosse radici strutturali. Come le ha avute lo sviluppo 'abnorme' dei mercati finanziari negli anni precedenti lo scoppio della crisi.

E per questo che non può rimettersi in moto, all'oggi, la dinamica "virtuosa" investimenti/crescita delle quantità di merci prodotte/realizzazione del plusvalore estorto attraverso la loro vendita, e i funzionari del capitale continuano invece a cercare largamente la valorizzazione del capitale fuori dai processi produttivi. Negli stessi Stati Uniti che in Occidente vantano i massimi tassi di crescita post-2008, l'incremento del pil tra il 2009 e il 2014 è stato in media del 2% annuo, ben al di sotto del tasso medio del periodo 1946-2008, quando fu del 3,3%, sicché la tanto invidiata ripresa statunitense - anche al lordo dei trucchi statistici - è in realtà la più debole dal 1947. Gli Stati Uniti sostengono d'esser fuori dalla crisi, gonfiando il petto; ma sono esercizi muscolari da anabolizzanti, basta vedere il livello a cui sono scesi gli investimenti produttivi26.

La loro decisione di muovere al rialzo (lentamente) i tassi di interesse ricorda tanto i mesi pre-crisi del 2007, e suona come un giocare d'anticipo scaricando sui paesi emergenti e sull'Europa le nuove incombenti tempeste. Magari per negoziare da posizioni di forza nuovi accordi bi o tri-laterali capestro come il Nafta, o per portare a casa il mega-accordo commerciale con l'UE a cui Washington tiene moltissimo anche per la sua strategia di accerchiamento e isolamento della Russia e della Cina.

All'autunno 2014 in larga parte dell'Europa occidentale, se non è recessione profonda o vera e propria depressione, con la distruzione massiccia di capacità di produzione industriale esistente al 2008 (-28% la Spagna, -25% Italia, -23% Grecia e Finlandia, -18% Svezia, -12% Portogallo, -11% Francia e Gran Bretagna), è stagnazione o semi-stagnazione, Germania inclusa. E anche alla scala mondiale, dove vi è stata una tenuta di notevoli indici di sviluppo in diverse aree del "Sud" del mondo, le previsioni della crescita sono state in questi anni sistematicamente riviste al ribasso, perfino in Cina27.

Gli ultimi documenti delle istituzioni finanziarie internazionali riconoscono che la ripresa dell'accumulazione è fiacca, atona, tuttora gravata dall'ombra lunga della crisi. E dunque, più che di un superamento della crisi - di cui del resto nessuno parla con convinzione -, abbiamo sperimentato negli scorsi anni una serie di metamorfosi della crisi nel centro del sistema capitalistico mondiale: caduta della produzione (2006-2007)/crisi finanziaria (2007-2008)/più profonda crisi produttiva (2009)/modesta ripresa della produzione in Occidente, ma emersione della crisi del debito pubblico (2010)/continuazione della ripresa, ma crisi monetaria (2011)/nuova crisi della produzione specie in Europa (2013-2014), dove c'è, nella neo-lingua della Bce, "una ripresa che rallenta"28...

Questo mancato superamento della crisi annuncia nuove, più acute aggressioni ai proletari - un esempio per tutti: il Fiscal Compact; l'ulteriore precarizzazione non solo del loro lavoro, ma della loro esistenza - un esempio per tutti: il Jobs Act della ditta Renzi&Poletti; nuovi e più stringenti limiti alla loro organizzazione autonoma - un esempio per tutti: l'accordo firmato tra Confindustria e CGIL-CISL-UIL del maggio 2013 con l'intento di spezzare le gambe sul nascere al sindacalismo militante e moltiplicare gli ostacoli alla proclamazione e riuscita degli scioperi. È questo il secondo fronte della risposta capitalistica alla crisi, con l’intensificazione della guerra di classe in Europa, di cui parliamo più ampiamente altrove.

Il terzo fronte su cui Stati Uniti ed Europa stanno agendo è quello delle guerre "locali", a conferma della funzione insostituibile della guerra nella riproduzione del modo di produzione capitalistico, tanto più nella sua fase senile. L'aggressione NATO alla Libia per riappropriarsi delle sue risorse minerarie e arraffare il suo fondo sovrano profittando dell'impopolarità crescente del regime di Gheddafi, l'attacco francese in Mali, quello alla Siria (a tutto il popolo siriano, non solo a quella sua parte che continua a stare con Assad), la campagna contro l'Isis che si configura sempre più come l'ennesima campagna di terrore in stile israeliano contro le popolazioni arabe e "islamiche" con il pretesto di colpire i jihadisti, in precedenza ampiamente tollerati, le manovre politico-militari per far esplodere la crisi e la guerra civile in Ucraina... è un'escalation che ha messo capo alla ingiunzione di Obama agli europei: dovete aumentare la spesa bellica, dovete impegnarvi di più nelle operazioni belliche, dovete mettere in preventivo nuove e più ampie guerre!

C'è stata dunque dal 2008 in poi una violenta controffensiva dei capitali euro-statunitensi (e non solo) in risposta alla crisi, che non ha raggiunto finora alcun risultato risolutivo. Anzi l'economia mondiale è più vicina oggi che due-tre anni fa ad un nuovo passaggio critico.

 

E con i Brics, come la mettiamo?

Una vulgata diffusa dall'Onu29 e dagli iper-ottimisti sull'inarrestabile energia della globalizzazione neoliberista, e bevuta senza filtro da un certo numero di compagni, vuole che i Brics possano soppiantare l'Occidente nella funzione di traino dell'economia mondiale - la Cina in testa (che alcuni compagni quanto meno frettolosi hanno promosso al rango di potere imperialista di primo livello).

È davvero realistica una simile eventualità? Secondo noi, no.

Tre cose non quadrano in questa ipotesi. La prima è l'implicita supposizione che queste economie siano del tutto o largamente indipendenti da quelle occidentali, mentre è vero il contrario per l'enorme importanza che vi hanno l'export di beni manufatti e materie prime, e gli investimenti occidentali30. La seconda è il presupposto che i Brics formino un fronte compatto, mentre il loro coordinamento, avviato solo da qualche anno, non è ancora arrivato al livello di un'Opec dei tempi eroici o di un "movimento dei non allineati". La terza è che il loro indubitabile, o travolgente, sviluppo possa essere immune da conflitti sociali di valenza, se non altro, redistributiva dalle conseguenze incalcolabili.

Il primo round di questa grande crisi è stato, senza dubbio, assai asimmetrico. Il secondo round, però, si presenta diverso dal primo. Brasile, India, Russia hanno dimezzato, dal 2008, i loro tassi di crescita. Nel 2014 il Brasile è franato al +0,2% secondo alcuni, +0,7% al massimo, secondo altri. La Russia, anche a seguito delle sanzioni NATO, può andare perfino in territorio negativo. L'India, le cui grandi imprese hanno da anni indebitamento crescente e profittabilità in calo, non pare possa essere miracolata dalla Modinomics così da riprendere i forti tassi di accumulazione degli anni pre-crisi. La Cina è in continuo rallentamento. Diversi fattori del suo rallentamento appaiono di medio-lungo periodo, come la crescente dipendenza dagli approvvigionamenti esteri di materie prime (non proprio a basso prezzo), i costi in rialzo della forza-lavoro, specie nelle più attrezzate aree costiere [dove i salari crescono più dell'inflazione), la relativa scarsità di forza-lavoro giovane qualificata per le imprese manifatturiere più avanzate, l'invecchiamento della popolazione, i problemi di inquinamento delle metropoli, la stagnazione dei grandi importatori Stati Uniti ed Europa, etc.31 Anche sul breve periodo si moltiplicano le spie di pericolo. Cominciano ad emergere, infatti, un debito di stato (province e municipalità incluse) di dimensioni assai differenti dai dati ufficiali, vicino, sembra, al 150% del pil, e un debito globale, incluse le imprese e le famiglie, vicino al 240% del pil; una bolla immobiliare di grandi pro-porzioni; una preoccupante crescita degli scambi di nuovi strumenti finanziari (derivati, etc); un sistema bancario ombra lievitato ormai fino a quasi la metà del pil; una rarefazione del credito inter-bancario e di quello ai 42 milioni di piccole imprese; l'impennata dell'indice Gini di diseguaglianza sociale. Qualcosa più di un colpetto di tosse...32. E a differenza del 2008, questa volta il governo di Pechino non può mettere in cantiere un secondo mega-piano ultra-keynesiano. Sulla Cina e sugli altri si è fatto sentire l'effetto della stagnazione o delle modestissime fasi di ripresa negli Stati Uniti e in Europa, che si accrescerà ora che l'Europa è ferma o marcia all'indietro, mentre a sua volta il rallentamento e/o la stagnazione di alcuni dei Brics si ripercuote inevitabilmente sull'Europa, sugli Usa, sull'economia mondiale.

Infine, non certo per ultimo, c'è la variabile proletaria e popolare, entrata in azione nel 2012-2013, dai grandi scioperi dei minatori sudafricani ai roventi tumulti operai di Dacca, dalla miriade di scioperi operai in atto in Cina fino alle proteste popolari in Brasile e in Turchia (indicata ancora nel 2011 da Obama come il "paese modello"). Che segnala tre cose di primaria importanza politica: 1) i proletari e ampi strati sociali subalterni di questi paesi sono stanchi di vedere accaparrare i frutti dello sviluppo dalle oligarchie dominanti e dalle imprese; 2) i paesi occidentali, che molto hanno investito in essi, nella produzione e nella speculazione, non intendono in alcun modo mollare la presa; 3) l'assoluta necessità che siano le polizie e gli eserciti a garantire lì il doppio sfruttamento del lavoro, getta benzina sul fuoco (v. Johannesburg, Marikana, Istanbul, San Paolo, Dhaka, etc).

Insomma, all'anno di grazia 2014 i Brics non se la spassano. E tanto meno i loro proletari e le loro proletarie. La botta del 2008-2009 l'hanno sentita. Anzi, come notano in molti, la prossima puntata della grande crisi scoppiata nel 2008 potrebbe riguardare proprio loro, la Cina in particolare, dove si concentra una quota importante della sovrapproduzione mondiale da distruggere. Quella Cina contro cui è iniziata la giostra dei dazi protettivi da parte dei paesi occidentali33 e un'esplicita manovra di accerchiamento politico-militare da parte degli Stati Uniti; e che a sua volta sta rispondendo a queste minacce con la tessitura di più stretti rapporti economici e strategici con la Russia,

con le misure utili ad erodere ulteriormente il primato del dollaro sul mercato monetario mondiale, con la crescita di investimenti e scambi con i paesi africani e asiatici, con l'ammodernamento del proprio apparato militare, e così via, del tutto consapevole di essere stata designata come l'"awersario strategico" degli Stati Uniti già da un decennio34.

Le prospettive

È davvero improbabile, quindi, che siano i Brics a salvare la baracca, mantenendo inalterati, o quasi, i propri tassi di sviluppo, espandendo la loro classe media all'infinito e diffondendo benessere nel mondo occidentale, come si legge in certe oleografie giornalistiche. Ciò che, invece, vediamo all'orizzonte, al di là delle manovre (anzitutto monetarie) di tamponamento sull'immediato, è l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro, dell’aggressione alla natura e delle tensioni tra Stati Uniti/Europa e paesi ascendenti. Per avere un'idea del futuro che ci si sta preparando nei laboratori-Frankestein del capitale globale, ci limiteremo a tre macro-esempi35.

Il primo riguarda gli investimenti di capitale dei prossimi decenni, di sui si occupa un recente testo programmatico della Banca Mondiale36. In esso si constata che i "paesi in via di sviluppo" contribuiscono in modo crescente tanto al risparmio quanto agli investimenti alla scala mondiale (negli ultimi 15 anni sono passati dal 20% del totale a circa il 50%); e si prevede che di qui al 2030 la quota di stock di capitale dislocata nei paesi del Sud del mondo andrà ulteriormente a crescere fino a circa il 50% del totale (dal 30% di oggi), mentre la loro quota del risparmio mondiale dovrebbe arrivare al 75% (da circa il 50% di oggi). La Cina e l'India sono individuate come le due principali destinazioni degli investimenti internazionali, sempre più direzionate nei "servizi" e nelle infrastrutture Quindi, dopo l'assalto imperialista all'agricoltura all'industria manifatturiera dei continenti "di colore ecco un analogo piano di assalto alle infrastrutture, alla sanità, ai servizi sociali, al sistema dell'istruzione, al sistema pensionistico dei "paesi in via di sviluppo". E poiché è prevedibile che i bilanci statali di questi paesi ne saranno appesantiti dal lato dei costi, anche a causa dell'invecchiamento della popolazione, ecco i gangster delle istituzioni finanziarie mondiali venire loro in soccorso da due lati: pretendono dai governi la privatizzazione più larga possibile degli istituendi "servizi" di welfare, a cominciare dai sistemi pensionistici, e nello stesso tempo si offrono generosamente di far crescere il loro debito per lucrarci sopra a tempo indefinito. Il documento fa a riguardo una previsione che è anche una prescrizione, un comando:

"I policy makers [dei "paesi in via di sviluppo"] dovranno prepararsi ad un ruolo accresciuto dei mercati dei capitali nella intermediazione finanziaria internazionale e promuovere lo sviluppo dei mercati dei capitali interni"37.

È la vera e propria pianificazione da un lato della espropriazione, attraverso il mercato e gli stati, dei primi, magrissimi risparmi dei lavoratori dei paesi "emergenti", dall'altro della crescita dell'indebitamento statale di questi paesi. E l'uno e l'altro processo, se promettono ai "mercati dei capitali" globali nuovi lauti guadagni, si mettono di traverso alla crescita dei salari reali avvenuta negli ultimi anni in alcune aree del Sud del mondo. Puntano, infatti, ad estendere il potere dei capitali globali sul lavoro salariato erogato nei "servizi", e a stringere al collo dei lavoratori dell'industria e del "terziario" i lacci del debito di stato, delle polizze assicurative, dei fondi pensioni, delle tasse per l'istruzione privata, e così via. E in un contesto di mercato del lavoro sempre di più realmente globalizzato anche nei "servizi", nel quale la concorrenza tra i lavoratori dei paesi imperialisti e quelli dei paesi dominati/controllati dall'imperialismo e dei paesi emergenti è sempre più diretta, la compressione del valore della forza-lavoro in questi ultimi spinge al ribasso anche il valore della forza-lavoro e i diritti in quelli.

Il secondo macro-esempio è il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), il trattato Usa-Europa sull'ulteriore liberalizzazione dei commerci, di cui non si sa nulla e, al tempo stesso, si sa praticamente tutto. Si sa, ad esempio, che non si occuperà dei dazi perché le barriere tariffarie tra le due sponde dell'Oceano sono già bassissime, tra il 3 e il 5% (nel 1947, tanto per dire, erano al 45%). Si sa, per contro, che colpirà da più lati la condizione dei proletari europei perché se ci sarà, come pare più che probabile, un'armonizzazione delle normative sul lavoro, i lavoratori europei avranno solo da perderci, dato che in nessun paese occidentale il mercato del lavoro è una giungla senza regole come negli Stati Uniti; con la possibilità, se non la certezza, che prendano piede anche in Europa norme come quelle contenute nel "Right to Work" statunitense, ribattezzato dai sindacati "Legge contro i sindacati" per quanti e quali ostacoli pone alla sindacalizzazione dei lavoratori. Nello stesso senso va pure l'unica disposizione in materia di circolazione dei lavoratori prevista nel Trattato, che estende e normalizza la pratica del "distacco dei lavoratori" da una nazione all'altra, prevedendo che lavoratori di una nazione (poniamo: dell'Est Europa...) possano essere pagati nella nazione in cui lavorano (dell'Europa occidentale o degli Stati Uniti...) secondo le leggi e le norme contrattuali del proprio paese di nascita: una forma di vero e proprio dumping sociale, la riedizione più in grande e più spietata della direttiva Bolkestein. Altri colpi a chi vive di salario (quando c'è) sarebbero inferti, poi, da una nuova raffica di privatizzazioni (e tagli) dei servizi pubblici, anzitutto dell'acqua. Dalla liberalizzazione degli scambi agricoli, finora parzialmente controllati, invece, ci si può attendere che falceranno un buon numero di piccole imprese agricole europee (negli Usa ci sono 2 milioni di aziende agricole, in Europa 10).

La mitica "riduzione delle barriere" promessa dagli sponsor del Ttip - la totalità delle multinazionali europee e statunitensi - riguarderà naturalmente anche le misure di tutela della salute degli operai e dei salariati, la protezione dell'ambiente, gli standard di qualità dei prodotti, la sicurezza alimentare, etc: sarà sanzionabile tutto ciò che ostacola gli interessi delle imprese e dei loro "liberi commerci". Il nocciolo del trattato è: non debbono esserci più barriere sociali e giuridiche alla profittabilità delle imprese. Per esser certe di ciò le multinazionali intendono imporre sanzioni deterrenti agli stati coinvolti dal Trattato. E per esser certe del risultato hanno previsto la creazione di tribunali speciali privati sovranazionali incaricati di dirimere le controversie tra loro e gli stati, che dovrebbero essere composti da avvocati (sembra in numero di 3) in vario modo legati alle imprese. A tali tribunali speciali verrebbe attribuita un'ampissima competenza in materia di lavoro, ambiente, politiche sociali: ogni "eccesso" legislativo da parte degli stati, delle regioni o dei comuni, che possa intaccare i profitti, anche futuri, delle imprese verrà punito come si deve. E la sentenza sarà senza appello!

Oltre ad essere contro il lavoro salariato e contro l'ambiente naturale (si dà per scontato ad esempio che il Ttip darebbe il via libera al fracking anche in Europa), il Trattato ha una chiara valenza strategica antiRussia e anti-Cina. Il rafforzamento dell'asse con l'Europa, infatti, mira a danneggiarne l'intesa con la Russia, isolando Mosca, ed insieme a porre un comune argine alla crescita del potere economico e politico di Pechino. È, quindi, al contrario della retorica "pacifista" e "sviluppista" che lo sostiene, un capitolo importante della guerra commerciale (e non solo) contro Russia e Cina, un monito agli altri componenti dei Brics a non mettersi di traverso all'offensiva yankeuropea nel mondo38. Non è dato sapere, ad oggi, se il Trattato sarà concluso entro la fine dell'anno e su queste basi, o se invece i contrasti di interessi, che non mancano, e il rafforzamento dell'opposizione sociale ad esso, finora limitata, ne rallenteranno o ne bloccheranno il cammino. Resta in ogni caso inequivoco il suo messaggio sul futuro.

Il terzo macro-esempio riguardal'integrale mercificazione della natura messa in cantiere da un pool di istituzioni finanziarie internazionali con la "Dichiarazione sul Capitale Naturale" presentata nel giugno 2012 a Rio de Janeiro in occasione della Conferenza dell'Onu sullo "sviluppo sostenibile" - l'Italia era ben rappresentata da Unicredit e Montepaschi. Non è certo una novità recente che le forze della natura siano appropriate e usate gratuitamente dal capitale come sue forze produttive naturalmente tali. Ciò che è nuovo, a meno di non sbagliarci, è l'impegno programmatico, la pianificazione esplicita e concorde delle più grandi banche e società finanziarie del mondo a fare del "capitale naturale" un proprio primario campo di investimenti, una fon te primaria di profitti, davanti ad una progressiva rarefazione delle opportunità di investimento. Nuova ci sembra pure l'esplicita rivendicazione dell'intera natura come capitale, cosa loro, e l'impegno a prezzarla in tutti i suoi aspetti:

"Il capitale naturale può essere definito come l'insieme dei beni naturali del mondo che includono la geologia, il suolo, l'aria, l'acqua e tutto il vivente. (...) In definitiva la natura è senza prezzo. Tuttavia essa non è senza valore, e nel mondo ci sono ora molti studi che hanno cercato di calcolare il capitale naturale in termini finanziari. Così, per esempio è stato calcolato che evitando emissioni di gas effetto-serra attraverso la conservazione delle foreste della terra avrebbe un valore di 3,7 trilioni di dollari, o che l'impollinazione ad opera degli insetti ha un valore di 190 miliardi di dollari l'anno per la produzione agricola globale"39.

Nuova, sempre in senso relativo, è la determinazione ad "integrare il capitale naturale nei processi decisionali finanziari", creando "un settore finanziario che tenga in considerazione e renda conto dell'utilizzo, della salvaguardia e del reintegro del capitale naturale". Con tanto di emissioni azionarie e obbligazionarie, "profili di rischio, portafogli clienti, filiere e opportunità commerciali" e lo sforzo per perfezionare "una metodologia per rendere conto e contabilizzare adeguatamente il capitale naturale". Con tanto di ingiunzione ai governi di "agire ora" per demolire la convinzione che il capitale naturale sia "un bene gratuitamente fruibile" e "creare un quadro regolamentare che funga da sprone per il settore privato" così da spianare la strada al capitale finanziario all'uso e all'abuso delle forze della natura come mezzo di accumulazione del capitale: con misure fiscali di favore, incentivi, e una normativa internazionale a protezione del diritto capitalistico di appropriarsi degli "stock ecosistemici"40.

Relativamente nuova è anche l'elaborazione deH"'Ecosystem Offsetting", ossia la "compensazione" (presunta) dei danni apportati all'ecosistema in un luogo con l'adozione di misure di protezione ambientale in un altro luogo: un meccanismo perverso per dare corso ad ulteriori progetti di distruzione degli ecosistemi su vasta scala sul presupposto, falso, che se ne possano neutralizzare comunque gli effetti con altrettante azioni "verdi". Nella promozione di una simile impresa l'Unione Europea è in prima fila con la legislazione centrata sul principio del "No Net Loss Iniziative", che servirà a modificare in peggio l'attuale normativa ambientale41.

Il tutto è stato solennizzato nel primo summit mondiale dei "capitalisti naturali" tenutosi ad Edimburgo nel novembre 2013, in cui il processo di mercificazione dell'intera natura e l'immissione della gestione delle forze naturali dentro i mercati finanziari globali sono state presentate come delle vie da battere per uscire dalla crisi. La "enclosure finale di tutto il pianeta"...42.

C'è almeno un altro macro-indizio di come questa grande crisi produttiva e finanziaria irrisolta vada trasformandosi in una crisi sociale, politica, diplomatica di carattere mondiale: sono gli avvenimenti ucraini.

La "questione ucraina" è così complicata, viene da tanto lontano che sarebbe demenziale pretendere di darne conto qui in breve. Ciò che non è complicato da afferrare, invece, benché venga anch'esso da lontano, è l'uso che gli Stati Uniti di Obama, la NATO, il FMI e l'Unione europea stanno facendo della crisi ucraina per stringere la loro morsa sulla numerosa e qualificata forza-lavoro ucraina (dell'ovest e dell'est) e sulle ingenti risorse agricole e minerarie del paese, e per rafforzare la cortina militare e diplomatica intorno alla Russia di Putin, capitalisticamente di nuovo in piedi dopo le terribili umiliazioni degli anni bui di Yeltsin. Per Washington, poi, l'aggressione all'Ucraina è anche un mezzo per imporre all'Europa di schierarsi e per avviare una nuova corsa agli armamenti nella quale sa bene di essere in una posizione di vantaggio competitivo.

Gli avvenimenti ucraini hanno dato ulteriore impulso alla ripresa della spesa bellica, iniziata negli ultimi tre anni anzitutto negli Usa, quindi in Arabia Saudita, Cina, Germania, Giappone, e ritornata nel 2011 ai livelli del 1989, per in seguito oltrepassarli. In parallelo si infittiscono nella politica internazionale azioni e reazioni che esprimono disegni strategici in cui è sempre più tangibile il segno bellico, a partire ancora una volta da Washington (e Tel Aviv). Anche i mass media italiani ed europei stanno dando il loro contributo in questa direzione con i sempre più frequenti toni bellicisti e razzisti - uno per tutti l'editoriale del direttore di "Repubblica" E. Mauro, del 5 settembre scorso, che chiamava apertamente alla mobilitazione e alla guerra contro T'anima imperiale e imperialista eterna e insopprimibile" della Russia. Per noi, ci sono pochi dubbi sul fatto che l'aggressione a Kiev, nel Donbass, e ovunque, venga da Occidente, un Occidente indebolito e timoroso di veder crollare il suo primato nel mondo43. Ma la soluzione non viene da Oriente, dalla Russia e dalla Cina in quanto potenze capitalistiche messe nel mirino euroyankee. Viene, può venire solo dal proletariato ucraino (dell’Est e dell’ Ovest) e internazionale con la contrapposizione alle politiche anti-crisi e alle nuove aggressioni imperialiste in atto e in programmazione, con la contrapposizione a tutte le manovre tese, da Occidente e da Oriente, a spaccare il proletariato attraverso politiche nazionaliste, con il rilancio della lotta rivoluzionaria contro l'ordine capitalistico che ci sta guidando verso un futuro di catastrofi, per abbatterlo.

 

E noi? e i nostri?

Salvo eccezioni, c'è in Italia tra i proletari comuni e anche tra i compagni uno stato d'animo così depresso che un'ipotesi del genere appare esclusa: per l'Ucraina e per tutto il resto del mondo, a cominciare da 'casa nostra'. Si ripiega, spesso, sull'abbandono del campo anche quando si rimane fisicamente in campo trascinando le proprie ombre; o sull'attesa millenarista e passiva di altri e diversi tempi; o, peggio, si disegnano "furbe" ipotesi strategiche, del tipo: appoggiare il "nemico del nostro nemico", senza andare troppo per il sottile.

Per noi, invece, ci sono due punti fermi essenziali.

Il primo è il carattere storico della crisi in corso e il suo avvitamento. Crisi irrisolta non vuol dire irrisolvibile. Abbiamo visto quali leve i capitali globali stanno azionando per rimuovere i macigni che ostacolano la ripresa della profittabilità, di una profittabilità senza limiti. Però, per venirne fuori dovranno imporre al lavoro salariato, alla natura, alla specie costi spaventosi. La novità politica di straordinario interesse è che fanno sempre più fatica ad addebitare la colpa di tali costi a forze, fattori, nemici esterni, dal momento che li hanno sbaragliati pressoché tutti, o si sono auto-affondati da sé. Non c'è più il "campo socialista". Non ci sono più il 'movimento dei non allineati' e il terzomondismo tricontinental sponsorizzato dal Che e Fidel. I piccoli/grandi "demoni" Khomeini, Saddam, Milosevic, Gheddafi, Bin Laden, Chavez, Ahmadi-nejad sono scomparsi. Dunque la super-class capitalistica è più che mai padrona del campo, almeno in apparenza, e tutto ciò che riesce ad esibire al mondo è lo spettacolo sinistro di un immane caos, di cui porta per intero la responsabilità e di cui deve rendere conto ai lavoratori di tutto il mondo - si tratta delle condizioni più favorevoli alla sua delegittimazione.

Il secondo punto fermo è che negli ultimi decenni, prima e più ancora dopo lo scoppio della crisi, si è inasprito l’antagonismo che oppone il capitale al proletariato e al vastissimo semi-proletariato urbano e rurale del mondo. La cosa è evidente in Occidente, in Europa, in Italia, dove una larga parte dei salariati è stata spinta indietro rispetto ai livelli di vita e alle garanzie di diritti raggiunte. Ma anche nei paesi emergenti non è stato lo sviluppo capitalistico di per sé, sono state solo le lotte delle/gli sfruttate/i ad alleviare il super-sfruttamento e ad ottenere un minimo di agibilità per le organizzazioni operaie e popolari. L'epoca neoliberista e il suo approdo fallimentare hanno scavato tra i due poli opposti della società capitalistica un vero e proprio abisso. E se c'è un elemento che, pur nelle grandissime differenze, accomuna gli sfruttati e le sfruttate del Nord e del Sud del mondo, è la crescente diffidenza verso le élite capitalistiche, imprenditoriali e politiche che spadroneggiano sulle loro vite. Mentre il vecchio movimento operaio va dissolvendosi anche là dove era stato un giorno forte, potenti meccanismi materiali comandano ai lavoratori di conquistare l'autonomia dai propri sfruttatori e dai loro apparati politici, sindacali, culturali, religiosi, etc, di separare il proprio destino da quello dei loro sfruttatori capitalisti, del capitalismo, di dar vita ad un nuovo movimento proletario.

Dopo il 2008 la grande Intifada araba (con i limiti e le forti disomogeneità di cui abbiamo parlato nel n. 1 della rivista); le lotte in Grecia, in Spagna, in Portogallo, nei paesi dell'Est Europa ed ora finalmente, sembra, anche in Italia (con i pesanti limiti e le disomogeneità di cui parliamo in questo n. 2); il Movimento Occupy Wall Street negli Stati Uniti; i fuochi della protesta operaia e popolare in alcuni tra i paesi più dinamici del "Sud" del mondo, Cina, Sudafrica, Turchia, Brasile, Bangladesh, Cambogia, etc; sono segni, più o meno deboli, più o meno forti, di un conflitto di classe globale che evoca e attende una soluzione globale della crisi alternativa ai sacrifici, alla disoccupazione, al saccheggio della natura, a nuove criminali guerre per la spartizione del mondo. Nessun "nemico del nostro nemico" ce la regalerà. Dovremo conquistarcela da noi stessi, in decine di milioni, sfidando i poteri globali. A cominciare da quelli 'di casa nostra', perché il nostro nemico principale è qui.

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Note

1 N. Roubini - S. Mihm, La crisi non è finita, Feltrinelli, 2010, pp. 24-25, p. 57. Questo libro ambisce addirittura ad inaugurare un "nuovo pensiero economico: l'economia della crisi" (p. 314), "una nuova maniera di interpretare e prevenire le crisi" (p. 217). Ma non l'ha neppure finito di affermare che già si contraddice naturalizzando le crisi sulla scia di H. Minsky, e piegandosi alla loro inevitabilità: "Le crisi non possono essere abolite: come gli uragani, possono essere soltanto gestite e mitigate" (p. 32 3), perché sono "inscritte nel genoma del capitalismo". Allora toccherà "abolire" il capitalismo...

2 Cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, 2011, p. 167.

3 L'effetto leva è il rapporto tra il capitale proprio effettivamente detenuto da una singola istituzione finanziaria e il complesso della sua attività, del "capitale mobilizzato" da essa.

4 Cfr. Banca dei Regolamenti Internazionali, 84^ Relazione annuale, Basilea, 29 giugno 2014, p. 22.

5 Ad esempio negli ultimi ventanni le società multinazionali hanno impiegato l'enorme massa di denaro messa a loro disposizione assai più per ripianare i propri debiti, far salire il prezzo delle proprie azioni in borsa ricomprandosele massicciamente e per far lievitare i dividendi e i bonus ai propri manager, che per gli investimenti produttivi, che sono attualmente negli Stati Uniti e in Europa ai livelli più bassi degli ultimi 2 5 anni.

6 Cfr. J.E. Stiglitz, The Price of Inequality. How Today’s Divided Society Endangers Our Future, Norton, 2013.

7  Cfr. E. Stockhammer, Why have wage share fallen? A panel analysis of the determinants offunctional income distribution, ILO, Ginevra, 2013. Tra il 1975 e il 2010 la massa dei salari ha perduto - a scala mondiale - 10 punti di pil, passando dal 74-75% al 64-65% di esso.

8 Cfr. G.M. Bravo, La Prima Internazionale. Storia documentaria, Ed. Riuniti, 1978, vol. I, pp. 121-130.

9 Cfr. M. Robertsworld rate of profit, 2012, ed una serie di utili, documentati materiali su Michael Roberts Blog; G. Carchedi-M. Roberts, Marx’s Law of Profitability: Answering Old and New Misconceptions, "Critique: Journal of Socialist Theory", marzo 2014; M. Li e altri, Long Waves, Institutional Changes, and Historical Trends: A Study of the Long-Term Movement of the Profit Rate in the Capitalist World-Economy, "Journal of World-Systems Research", 2007, n. 1; A. Kliman, The Failure of Capitalist Production: Underlying Causes of the Great Recession, Pluto Press, 2011; A. Freeman, The profit rate in the presence of financial markets: a necessary correction, "Journal of Australian Political Economy", 2013, n. 70; D. Basu-P. Manolakos, Is There a Tendency for the Rate of Profit to Fall? Econometric Evidence for the U.S. Economy, 1948-2007, University of Massachusetts, 2010; I. Joshua, Note surla trajectoire du taux de profit, "Contretemps", ottobre 2009; P. Jones, The falling rate of profit explains falling US growth, paper per la 12 A Conferenza della Australian Society of Heterodox Economists, novembre 2013; E. E. Maito, The historical transience of capital. The downward trend in the rate of profit since XIX century, 2014. Gli approcci teorici di questi studi non sono perfettamente coincidenti, né lo sono i criteri di stima adottati e, in alcuni casi, le stime e i grafici elaborati; ma c'è una concordanza di fondo intorno all'importanza centrale del saggio di profitto nella spiegazione di tutte le crisi, e sul fatto che tanto negli Stati Uniti e nell'insieme dei paesi occidentali quanto alla scala mondiale, esso abbia conosciuto effettivamente, come ipotizzato da Marx, una tendenza storica, non lineare, a cadere.

Una forte contestazione di questi studi e del loro metodo, in particolare per quello che concerne l'analisi dell'ultima crisi, è venuta da M. Husson, in Le dogmatisme n’est pas un marxisme”, "alencontre", 28 giugno 2009 e in La hausse tendancielle du taux de profit, che spiega l'attuale crisi come dovuta ad un eccesso di profitti, e si può leggere sul suo blog. La tesi di Husson, in parte condivisa da A. Bihr, è stata criticata da F. Chesnais e da L. Gill. La documentazione di questa polemica è sui siti www.alencontre.org e di "Carré rouge". Un'ampia gamma di testi relativi ad essa è pubblicata sul blog di Michel Husson alla voce "Le débat sur le taux de profit".

10 M. Roberts, Sam Gindin and ‘the cause ofevery crisis is different’, March 19, 2014.

11  G. Carchedi-M. Roberts, Marx’s Law of Profitability: Answering Old and New Misconceptions, "Critique: Journal of Socialist Theory", marzo 2014, pp. 590-1. Sull'importanza centrale del super-sfruttamento della forza-lavoro a basso costo dei paesi del Sud del mondo, è di rilievo il contributo di J. Smith, Imperialism and the Law of Value (2011), che si può scaricare dal sito Global Discourse - con la riserva da parte nostra, però, sulla tendenza ad ascrivere la produzione di plusvalore quasi esclusivamente ai paesi del Sud del mondo: c'è sfruttamento e super-sfruttamento del lavoro (seppure ad altri livelli) anche nei paesi imperialisti, dove la condizione dei proletari risente in modo crescente proprio della progressiva unificazione del mercato del lavoro mondiale, sia dentro il processo lavorativo che nel mercato del lavoro.

12 Su questo tema è aperto negli Stati Uniti un dibattito intorno alla possibilità che lì si sia raggiunto un "Technological Plateau", un tetto storico difficilmente superabile di efficienza tecnologica dopo un periodo di rallentamento del tasso di innovazione tecnologica: cfr. l'e-book di T. Cowen, The Great Stagnation, che si può scaricare da http://www.nationalreview.com/redirect/amazon.p?j=B004H0M8BI; R.J. Gordon, Is US economic growth over? Faltering innovation confronts the six headwinds, Centre for Economic and Policy Research, Policy Insight n. 63, settembre 2012.

13  Cfr. F. De Novellis-C. Rapacciuolo, Materie prime, limiti alla crescita e difficoltà perle imprese italiane, Centro Studi Confindu-stria, working paper n. 60, giugno 2011.

14 Come abbiamo rilevato nel n. 1 de "ilcuneorosso", questo fenomeno è stato un fattore scatenante di primo rilievo nelle sollevazioni arabe del 2011-2012.

15  Cfr. P. Giussani, La Great Recession e il Saggio del Profitto. Osservazioni sulla presentazione di Guglielmo Carchedi e Michael Roberts alla decima conferenza di Historical Materialism, dicembre 2013.

16 Tale 'particolare' sfugge a quanti si raffigurano lo sviluppo dei Brics come qualcosa di completamente indipendente (o quasi dai paesi imperialisti, dai loro investimenti e dal controllo che essi continuano ad esercitare, nonostante tutto, sul sistema dei mercati mondiali.

17 Cfr. A. Shaikh, La crisi. Raccolta disaggi, Connessioni, 2012, pp. 116 ss.

18 La stima è di D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, 2011, p. 19.

19  Cfr. Credit Suisse, Global Equity Strategy, 29 ottobre 2013, p. 6, figg. 9 e 10; World Bank, tavole relative alla Gross Capital Formation come % del pil; M. Roberts, Awash with cash?, postato il 24 marzo 2014; id., First Look at Q4 Domestic Income Shows Labor Share at Record Low Corporate Profits at Record High, postato il 30 marzo 2014. Prescindiamo qui, si capisce, dal forte incremento degli investimenti diretti all'estero, in particolare quelli nel Sud del mondo che danno, in genere, un ottimo ritorno, agendo da primario fattore di controtendenza alla caduta del saggio di profitto. Ma sta di fatto che larga parte di questi utili sono comunque incorporati nei bilanci dei paesi e delle imprese multinazionali occidentali, e quindi sono registrati nei relativi saggi di profitto.

20 Riprendiamo qui di seguito quanto abbiamo scritto alcuni anni fa sul giornale "Che fare", nn. 69 e 70.

21  F. Chesnais, Remarques sur la situation de l’économie capitaliste mondiale sept ans après le début de la crise économique et financière mondiale, pubblicato sul sito www.alencontre.org l'il agosto 2014.

22  Cfr., per gli Stati Uniti, K. Weise, Tallying the Full Cost of the Financial Crisis, www.businessweek.com, 14 settembre 2012. Non è stato soltanto un massiccio sostegno alle banche, ma all'insieme delle attività finanziarie, "un aiuto alla finanza massiccio, incondizionato, fatto di somme di grandezza incredibile che continuano ad essere versate [dagli stati] senza che sia richiesta alcuna contropartita, alcuna limitazione, alcuna regolamentazione" (I. Joshua, Crise: l’heure de vérité, www.alencontre.org, 7 agosto 2011).

23  Cfr. L’inganno delle banche ombra, "L'internazionale", n. 1057, 27 giugno/3 luglio 2014, che contiene la traduzione di due articoli tratti da "The Economist"; M. Whitney, Shadow Banking, "Counterpunch", novembre 2012.

24 Cfr. C. Serfati, La croissance des logiques financières des sociétés transnationales, pubblicato sul sito www.alencontre.org il 18 maggio 2013.

25 Cfr. A. Bordiga, Proprietà e capitale, Iskra, 1980, p. 122.

26 II CIA World Factbook li dà, al 2012, ad un misero 12,8% del pil, a fronte di una media mondiale del 23,8%, due punti percentuali al di sotto del 2008. Non più brillanti sono le previsioni sugli investimenti alla scala mondiale: secondo una recente indagine di Standard & Poor's su più di 2.000 società transnazionali, la variazione annua degli investimenti, dopo il -1% del 2013 e lo 0% del 2014, dovrebbe essere del -3% nel 2015 e del -2% nel 2016.

27 Ad esempio tra il novembre 2013 e il maggio 2014 l'Ocse ha tagliato le previsioni di crescita degli Stati Uniti e del Giappone 0,3%, quelle della Cina dello 0,8%, quelle della Russia dell'I,8%; ha rivisto al rialzo (+0,2%) solo quelle dell'eurozona, salvo doversi vedere smentita dai fatti una simile stima, quando anche l'economia tedesca ha dato segni di recessione.

28  La espressione è di Draghi, 22 settembre 2014. In contemporanea, però, i dividendi delle grandi società passano, su scala mondiale ed europea, da un record all'altro: "Les Echos", 20 agosto 2014, p. 20.

29 Cfr. UNDP, Human Development Report 2013. The Rise of the South: Human Progress in a Diverse World, New York, 2013.

30 Tra i compagni è presente anche un'esagerazione di segno opposto (pensiamo, ad esempio, alla pubblicazione curata da Red Link, Pericolo giallo o tigre di carta?, PonSin Mor, Gassino Torinese, 2008) secondo cui la Cina sarebbe un paese capitalista periferico, che potrebbe avere l'unica ambizione di diventare semi-periferico. Ed invece proprio la Cina, per la sua enorme forza demografica (quanto a produzione di plusvalore, una forza-lavoro complessiva di quasi 800 milioni di unità varrà qualcosa, o no?) e storica (la storia del suo straordinario, multisecolare sviluppo manifatturiero non è acqua), per il suo dinamismo, per i tassi di crescita del suo mercato interno, per i livelli di innovazione tecnologica e organizzativa raggiunti (dice nulla lo sbarco record a Wall Street di Alibaba, l'Amazon/eBay cinese?), per la sagacia dei suoi governanti, è tra i paesi di nuovo capitalismo (nuovo, poi, fino ad un certo punto) quello che - necessitato ad andare in questa direzione - ha più di qualche chance di poter rompere il vecchio circolo esclusivo dei paesi imperialisti, che è tale, salva l'aggiunta del Giappone, dalla fine dell'Ottocento.

31  Cfr. D. Roucher-B. Xu, La Chine ralentit: quels risques pour l’économie mondiale?, giugno 2014; C. Piovani, Class Power and China’s Productivity Miracle: Applying the Labor Extraction Model to China’s Industrial Sector, 1980-2007, "Review of Radicai Politicai Economics", 2014, vol. 46, pp. 346-8: entrambi i testi sono sul blog Hussonet.

32 Cfr.A.Pagliarone,Labolladelcreditoeilventodell’est,aprile2013;"ilsole24ore",21giugno2013;G.DiDonfrancesco,India nella tempesta perfetta, "il Sole 24 Ore", 15 settembre 2013; F. Fubini, India, Cina, Russia, Turchia, Brasile - Le 5 tigri fragili che non ruggiscono più, "la repubblica/affari&finanza", 27 gennaio 2014; C. Peltier, La Chine rattrapée parsa dette, Bnp Paribas/Economic Research Department, febbraio 2014, n. 2; G. Magnus, China’s financial distress turns all too visible, www.ft.com , 19 marzo 2014; M. Roberts, India’s Modinomics, 6 aprile 2014; K. Caulderwood, Un rallentamento della Cina avrà conseguenza importanti sull’economia dell’Africa, avverte il FMI, Redazione IBTimes Italia, 27 aprile 2014; E. Occorsio, La ‘tempesta perfetta’ si abbatte sui Bric, da motori della crescita a giganti in affanno, "la repubblica/affari&finanza", 28 aprile 2014; Anche Pechino ha paura dei debiti, "L'internazionale" n. 1057, 27 giugno 2014 (è una traduzione da "The Economist"); il dossier sulle caratteristiche e i limiti dello sviluppo del Brasile pubblicato su "Margem Esquerda", n. 23, ottobre 2014.

33 Nel 2012 c'è stata un'impennata di misure protezionistiche (12 3 nuove restrizioni), con le prime tensioni economiche anche tra gli stessi membri dei Brics - vedi la polemica Brasile/Cina sul valore del real e del renminbi.

34 Per l'esattezza da un documento del Pentagono del 2005, in cui non si faceva il nome deH"'awersario strategico" (al 2017), ma se ne tracciavano le caratteristiche in modo tale da renderlo perfettamente riconoscibile.

35 Di un altro macro-esempio, il cosiddetto Fiscal Compact europeo, parliamo invece nell'articolo sul debito di stato.

36 Cfr. The World Bank, Capital for the Future. Saving and Investment in Interdependent World, Washington, 2013.

37 È a p. 9 della Overview del documento.

38 Cfr. il Dossier di "Le Monde diplomatique", giugno 2014; A. Cerretelli, Europa e Stati Uniti assieme per tenere testa al Dragone, "il Sole 24 Ore", 14 marzo 2014, e una molteplicità di interventi sul sito "Sbilanciamoci", affetti quasi sempre da unilaterali-smo europeista. Infatti a perderci da trattati del genere saranno certamente anche i lavoratori statunitensi perché le imprese multinazionali dell'uno e dell'altro continente ne approfitteranno per rafforzare il proprio comando sul lavoro, sulla natura e sui consumatori anche negli Stati Uniti.

39 Questo si legge sul sito del (primo) Forum mondiale sul capitale naturale tenutosi a Edimburgo nel novembre 2013.

40 Cfr. UNEP Finance Initiative-GCP Global Canopy Programme-Centro de Estudos em Sustentabilidade da EAESP, Dichiarazione sul Capitale Naturale, redatta da un gruppo di banche e enti finanziari in occasione della Conferenza dell'Orni sullo sviluppo sostenibile del giugno 2012.

41 Cfr. No to Biodiversity Offsetting!, presa di posizione del "Forum on Naturai Commons" raggruppante 140 organismi di tutto il mondo, tenutosi ad Edimburgo in parallelo rispetto al Forum mondiale sul capitale naturale. Un documento utile per fare il punto degli studi in materia è quello del FERN, Critical review of Biodiversity Offset track record, ma è debolissimo quanto ad attitudine critica, tant'è che mette capo alla semplice richiesta ai governi di adottare il "principio di precauzione".

42  "Così come in Inghilterra le terre comuni furono rinchiuse dai ricchi latifondisti a partire dal sedicesimo secolo, oggi la finanza globale riunitasi in Scozia propone la enclosure finale di tutto il pianeta": A. Tricarico, ‘Ecosystem Offsetting’, la svolta dei banchieri per uscire dalla crisi, "il manifesto.it", 21 novembre 2013.

43  Senza che ciò significhi, per noi, iscrivere la protesta sociale di Kiev a libro-paga della Cia, come nelle "analisi" di stampo complottista, per le quali l'imperialismo occidentale è ad un tempo indebolito e più onnipotente che mai.

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