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Il fattore G

I tempi cambiano, e i tormentoni pure. Una volta si diceva: speriamo di non fare la fine dell’Argentina. Oggi gli italiani fanno corno e bicorno, e ripetono: speriamo di non finire rovinati come la Grecia. Grecia che, in effetti, si ritrova in un mare di guai: ad Atene, il debito pubblico sta letteralmente esplodendo; e con i debiti stanno esplodendo anche le proteste di piazza. Una situazione caotica. Tanto caotica, che questa settimana i giornali di mezzo mondo - dal blasonato “New York Times” al nostrano “Corriere della Sera” - si chiedevano in coro se e quando sarebbe arrivato il momento del “sipario”, cioè del fallimento. Dubbio, per carità, atroce e legittimo. Ma che sarebbe stato bene accompagnare con una domanda davvero indispensabile.

Ovvero: chi - e soprattutto come - sta “scomettendo” sul fallimento della Grecia? Una domanda fondamentale. Perché - per dirla con una metafora - se non si conoscono i giocatori, è impossibile capire a che gioco si stia giocando.

Spieghiamoci ancora meglio. Il premier greco, George Papandreou, con toni da tragedia greca, giorni fa ha gridato al complotto.  Dicendo urbi et orbi che chi colpiva il suo Paese, mirava più in alto: voleva - in realtà - distruggere l’euro. Addirittura? Addirittura. E chi è che aveva in mente ’sto po’ po’ di piano? “Interessi politici e finanziari”. Parola di Papandreou. Nomi e cognomi? Ovviamente, nessuno. Ma il riferimento era ad ambienti della Finanza anglosassone (Londra e agli Stati Uniti), notoriamente euroscettici (pro domo eorum). Finanza anglosassone che starebbero appunto complottando contro la moneta unica.

Ah, i complotti. Sempre dannatamente intriganti. Sempre affascinanti.

E allora - visto che sono così intriganti e affascinanti - perchè non proviamo a disegnarne più d’uno? Partiamo sempre da alcuni fatti accaduti nelle ultime settimane. Settimane in cui l’interesse sui titoli di stato greci sono saliti (rendendo più difficile alla Grecia finanziare il proprio debito); le voci sul fallimento di Atene si sono moltiplicate; e l’euro è crollato (rispetto al dollaro).

Bene. Cui prodest?

Per esempio potrebbe essere stata - così, tanto per dire - non la Finanza anglosassone, ma la Germania ad architettare tutto.
Perché? Perché Berlino vive di esportazioni (fino al 2009 era il primo Paese esportatore al mondo); e con un euro debole, può esportare meglio. Non solo. Ma Berlino - che è la prima economia europea - è anche in pole position per pagare i debiti accumulati da Atene. E allora che fa? Spaventa a morte i greci con la spada di Damocle del default e li convince, con le cattive, ad accettare tagli alla spesa pubblica draconiani. Risultato: due piccioni con una fava: ci si guadagna di più (con le esportazioni) e non si pagano i debiti altrui. E vissero tutti (i tedeschi, s’intende) felici e contenti. Un piano perfetto.

Sta (più o meno) in piedi, no? Ma si può fare anche di meglio. Perché il complotto potrebbe essere stato ordito - udite udite - anche da Atene
, dove il povero Papandreou si trova ad avere a che fare con un’opinione pubblica furibonda che non ne vuol sapere di tagli e sacrifici. E allora? E allora Papandreou - che tra l’altro è nato negli Stati Uniti e ha studiato ad Harvard e Londra - è una vecchia volpe. E così pensa bene di farsi dare una mano da “amici” dell’Alta finanza anglosassone che mettono in giro voci di un imminente default della Grecia, e cominciano a produrre numeri su numeri per dimostrare che un crac di Atene potrebbe minare la salute dell’intera economia europea. Tutti i giornali ripetono questa storiella (cosa che di fatto è accaduta). E i tedeschi si spaventano talmente tanto che alla fine mettono subito mano al portafoglio. E pagano senza fiatare i conti più urgenti della Grecia. I banchieri ci guadagnano il loro. E la Grecia può evitare di tagliare tutto il tagliabile. Per la gioia di Papandreou.

E si potrebbe andare avanti, formulando ipotesi e scenari ancora più fantasiosi
. Per la semplice ragione che non sappiamo esattamente chi ha fatto cosa. Cioè non sappiamo esattamente chi ha “scommesso” contro la Grecia.

E a ben vedere, il problema sta tutto lì. Ossia nell’opacità dei mercati. Opacità che di fatto non permette di conoscere il nome e cognome degli operatori finanziari che stanno facendo tremare Atene (il quotidiano “La Stampa”, per esempio, ha riferito boatos su “molti hedge fund ma anche grandi banche americane ed europee”; ma non è riuscita ad andare oltre). Opacità che - a volte - maschera pesanti conflitti di interessi. Opacità che ha a lungo tenuto nascosto, in questa tragedia greca, anche “il fattore G”. Come Goldman Sachs.

Partiamo dalla fine. Cioè da Goldman Sachs.

I governi greci degli ultimi dieci anni hanno accumulato responsabilità pesantissime. Erano già stati pescati a taroccare i conti pubblici nel lontano 2004. E l’anno scorso hanno concesso il bis. Ad aprile 2009, il governo di Atene prevedeva un deficit pari al 3,7% del Pil. Poi, ad ottobre scorso, è arrivato il momento della verità: il neo eletto premier, Papandreou ha dovuto ammettere che il deficit sarebbe stato pari a ben il 12,5% del Prodotto interno lordo. I conti, in realtà, non sono ancora chiari e una commissione inviata dall’Unione europea ci sta lavorando sopra. Ma il punto è un altro. Nel mezzo - ovvero dall’inizio degli anni Duemila ad oggi - qualcuno ha aiutato Atene ad aggiustare i bilanci: la banca americana Goldman Sachs.

Goldman Sachs è tanto conosciuta negli Stati Uniti, quanto ignota ai più in Italia. Simbolo del turbocapitalismo made in Usa, Goldman Sachs è una banca d’affari - tradotto: non ha sportelli, si occupa solo di investimenti - che fa affari con tutti. Governi compresi. Quello greco, in particolare - nel 2002 - ha chiesto a Goldman una mano. Per fare cosa? Ovvio: taroccare i conti. Con un cross-currency swaps. Un bel girolone di parolone per dire una cosa nemmeno troppo complicata (a proposito di opacità…). Atene, in pratica, ha acceso debiti in valuta straniera (dollari e yen). Debiti che avrebbe ripagato ad anni distanza, ma in euro. Una pratica abbastanza comune. Ma con una piccola variante: i cambi erano farlocchi, cioè volutamente molto molto favorevoli. Troppo favorevoli. Tanto che - per spiegarsi con un esempio - la Grecia si era indebitata sulla carta per 10, ma si ritroverà di fatto a pagare 11.

Un complotto? No, un affare svelato qualche giorno fa dal settimanale tedesco “Der Spiegel“. Un affare che a Goldman Sachs ha fruttato parecchi quattrini in commissioni; e che ad Atene, invece, rischia di costare carissimo. Comunque sia: gli uomini di Goldman non si sono dimenticati del loro vecchio cliente. E - dopo averlo aiutato a indebitarsi fin quasi al default - ora lo stanno aiutando a indebitarsi ancora di più. Il Financial Times, a fine gennaio, ha rivelato che sempre Goldman Sachs avrebbe cercato di piazzare a Pechino alcuni miliardi di bond greci. La Cina, in cambio, voleva una quota delle azioni della Banca nazionale greca o - in alternativa - le ferrovie. Una contropartita che Atene non avrebbe accettato. E così l’affare è sfumato, purtroppo. Purtroppo - va da sè - per Goldman Sachs che avrebbe incassato altre ricche commissioni, oltre a quelle già messe in cassaforte per aver aiutato Atene - a gennaio scorso - a vendere un’altra tranche di bond.

E non è finita qui. Anzi, qui, la cuccagna è appena cominciata.

Domanda: perchè nelle ultime settimane è cominciato il panico per un imminente default della Grecia?
Forse che un’asta di titoli di Stato è andata deserta? Risposta: niente aste deserte, è che un certo indice - quello dei cosiddetti Cds - è andato alle stelle. I Cds - o credit default swap (aridanghete co’ sti suòp) - altro non sono che delle assicurazioni. Compri un titolo di Stato greco, ma temi che la Grecia faccia fallimento? No problem. Ti fai un bel credit default swap, cioè un’assicurazione che ti garantisce che tu - comunque vadano le cose - riavrai comunque indietro i tuoi soldi.

Un’invenzione meravigliosa, i Cds. Con solo due difettucci (come ha ricordato anche il Financial Times, venerdì scorso). Primo: chiunque può farsi un Cds su titoli di Stato greci, anche senza possedere titoli di Stato greci. Sì, avete capito bene. Con tutto quel che comporta. Perchè - altro esempio e altra domanda - che cosa succederebbe se il vostro vicino di casa potesse assicurare la vostra casa contro il rischio di un incendio? Risposta: succederebbe che il vostro vicino avrebbe tutto l’interesse a vedere la vostra casa bruciare. Il che - lo capite da voi - sarebbe un po’ rischiosetto. E ancora. I Cds vengono comprati e venduti come azioni. Per cui il loro valore sale e scende. E qualcuno da questo saliscendi - esattamente come in Borsa - ci guadagna. Solo che il mercato in cui vengono scambiati i Cds è un mercato Over the counter. Tradotto: non è regolamentato; e si basa su scambi bilaterali (tra chi vende e chi compra). Dunque, è molto opaco.

E chi è che ci guadagna? In primo luogo chi fa da intermediario tra chi vende e chi compra questi benedetti Cds. E chi è che fa questo lavoro? Semplice, perchè in questo caso si tratta di un parterre davvero ristretto. Secondo “il Sole 24 ore”, infatti:

    (…) è interessante notare che al 30 settembre 2009, negli Stati Uniti, il 96% dei contratti swap (in cui sono ricompresi i Cds) era intermediato (come fa peraltro notare il blog IcebergFinanza) da solo cinque banche: JpMorgan, Bank of America, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup. Il dato, pubblicato dall’Office of the comptroller of the currency, è riferito ad un valore nominale di oltre 172 triliardi di dollari.

Già, di nuovo Goldman Sachs. Che quindi ha come cliente la Grecia (di cui conosce bene tutte le disgrazie). E contemporaneamente ha come cliente anche che chi specula sulla Greccia, nel borsino dei Cds. Di qui un dubbio: ma non è che, tante volte, Goldman Sachs ha comunicato per tempo a chi specula sui Cds la reale situazione delle finanze greche? O ancora: non è che la stessa Goldman Sachs ha speculato, grazie alle informazioni in suo possesso, sui Cds greci?

Ebbene. Poniamo pure di no. Ma il punto è che Goldman Sachs avrebbe potuto farlo.

E allora? E allora forse piuttosto che perdersi nel gioco di specchi dei complotti, converrebbe seguire banalmente i soldi. E poi fissarsi sulle regole dell’Alta finanza.

Regole che, qualcuno se lo ricorda ancora?, i primi ministri di mezzo mondo - nei G-7, G-8, G-20 e G-chi più ne ha, più ne metta - avevano solennemente promesso di cambiare. Per dare una lezione ai banchieri cattivoni. E per evitare che si ripeta un’altra crisi come quella che stiamo vivendo. Regole che però non sono ancora cambiate di una virgola. Oddio: ultimamente ad occuparsene è un organismo internazionale chiamato Financial stability board. Il suo presidente - il nostrano Mario Draghi - in passato è stato anche vicepresidente di Goldman Sachs. Siamo sicuramente in buone mani.

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