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LA GRANDE CRISI E L’IMPERIALISMO GLOBALE*

Ernesto Screpanti

Relazione presentata alla IX Università Popolare di Attac Italia, tenuta a Roma, Città dell’Altra Economia, 1-3 Maggio 2009. Aggiornata a febbraio 2010

recession global financial crisisIntroduzione

Molti osservatori hanno paragonato la crisi iniziata nel 2007 a quella del 1929-33[1], avendo notato che esistono diverse somiglianze tra di esse. In realtà se guardiamo indietro nella storia del capitalismo ci accorgiamo che di grandi crisi come l’attuale ce ne sono state altre, oltre a quella del 1929-33. Per esempio ce ne fu una che scoppiò negli anni 1857-61. Un’altra si verificò nel 1836-38. Uno storico dell’economia potrebbe individuarne altre ancora, ma qui non sono interessato a una completa ricostruzione storica[2].

Quattro grandi crisi che si somigliano sono sufficienti per giustificare l’elaborazione di un concetto e di un modello che consentano di sviluppare una teoria capace di spiegare il fenomeno nella sua regolarità, e senza far ricorso all’ipotesi di shock esogeni eccezionali. Il concetto potrebbe essere appunto quello di “grande crisi”, intesa come evento non riducibile alle tipiche recessioni del normale ciclo economico e tuttavia rispondente e una ben definita logica che lo rende “eccezionale” solo per le dimensioni, non per le cause e le modalità.

Le caratteristiche salienti di una grande crisi sembrano essere sette. Innanzitutto l’intensità: c’è il crollo della produzione, i fallimenti a catena e un forte aumento della disoccupazione. Poi la pervasività, in quanto coinvolge tutti i comparti economici: industriale, commerciale, finanziario. In terzo luogo le grandi crisi sono precedute da una bolla speculativa. In quarto luogo, in tutte si verifica quella che viene chiamata trappola della liquidità. In quinto luogo tutte partono dal centro del sistema capitalistico mondiale e si espandono rapidamente all’intero mondo, presentandosi come crisi del sistema capitalistico globale. Così non consideriamo “grandi crisi” quelle che coinvolgono una specifica area geografica, anche se molto intense, come le recenti crisi del Sud-Est asiatico, dell’Argentina, del Messico, della Russia. In sesto luogo tutte durano abbastanza a lungo, più a lungo delle normali recessioni cicliche. Infine le grandi crisi danno la sensazione che c’è qualcosa di fondamentale che non funziona nel sistema. Sono percepite non come crisi solo finanziarie o solo produttive o solo locali, bensì come crisi del sistema capitalistico, e quindi contribuiscono alla diffusione della convinzione che non basta mettere una toppa per rilanciare la domanda aggregata o sostenere i mercati finanziari, ma sia necessario riformare qualcosa di essenziale nelle istituzioni economiche nazionali e internazionali, nelle strutture politiche, nel sistema dei pagamenti internazionali e negli apparati di egemonia ideologica.

Senonché la sensazione che vada cambiato qualcosa di fondamentale si diffonde tra gli scienziati, i giornalisti, l’opinione pubblica, ma non tra i governi. Da una parte i ceti dirigenti che hanno gestito le condizioni dalle quali la crisi è emersa non sono attrezzati intellettualmente per attuare i cambiamenti necessari. Dall’altra non si può pretendere che siano proprio loro a mettere in atto i provvedimenti che servono a cambiare il sistema da cui dipende il loro potere. Perciò il meglio che ci si può aspettare da essi è che cerchino di metterci appunto una toppa con politiche più o meno estemporanee, senza riuscire a risolvere i problemi di fondo.

La crisi che stiamo vivendo è indubbiamente una “grande crisi”. Si tratta di spiegarla, cioè di elaborare una teoria che ne dia conto come di un fenomeno tipico. Tenterò di abbozzare la spiegazione, e lo farò in quattro mosse. Con la prima presenterò un modello semplificato dei meccanismi bolla-crash-trappola e innesco-diffusione, un modello che può dar conto del processo di crisi come fenomeno comune a tutte e quattro quelle sopra richiamate. Ovviamente, pur avendo queste crisi qualcosa di fondamentale che le assimila, hanno anche delle specificità che le differenzia, delle peculiarità che sono connesse ai sistemi istituzionali prevalenti nelle diverse epoche. Con la seconda mossa quindi mi soffermerò sugli aspetti specifici della crisi attuale, le caratteristiche che la distinguono dalle altre. Questo farò nella prima parte del saggio. Nella seconda parte mi occuperò delle cause strutturali della crisi attuale. Con la terza mossa cercherò di capire le condizioni economiche e politiche dalle quali è emersa questa crisi, soffermandomi soprattutto su alcune caratteristiche della struttura del imperialismo globale. Infine cercherò di disegnare uno scenario dei possibili sbocchi della crisi in termini di riorganizzazione dei rapporti di forza tra i soggetti coinvolti a livello globale.



PRIMA PARTE
La bolla e la crisi

Le bolle speculative

Cominciamo col vedere come funziona il processo finanziario che sostiene una bolla spculativa[3]. E partiamo da una definizione di “speculazione”. La speculazione è una pratica economica con cui si mira a conseguire guadagni di capitale modificando la struttura dei portafogli tra attività a breve termine e attività a lungo termine. Gli speculatori sono interessati a questo tipo di guadagno, alla differenza tra valore di vendita e valore d’acquisto di un’attività, più che al pagamento dei dividendi e degli interessi. Questi ultimi sono appetibili in una prospettiva di lungo periodo. I guadagni di capitale invece si realizzano a brevissimo termine, una settimana, un mese.

Le attività a breve sono costituite da moneta e quasi moneta, cioè certificati di deposito delle banche, titoli di stato a breve, carta commerciale. Sono tutte considerate attività liquide: hanno valore pressoché certo, e rischio e rendimento molto bassi. Le attività a lungo invece sono quelle che hanno una scadenza più lontana, almeno due-tre anni, e un prezzo che è determinato dalla domanda e dall’offerta in mercati ben ordinati. Quindi hanno un valore variabile, possono comportare alti rischi, ma anche dare alti rendimenti in termini di guadagni di capitale.

Lo speculatore tipico ha un portafoglio di attività di diverse scadenze. Quando specula al rialzo riduce la detenzione di attività a breve e aumenta quella di attività a lungo; ovvero usa moneta per acquistare obbligazioni, azioni e altri beni patrimoniali. Questi possono essere anche beni reali, per esempio abitazioni, terreni e commodities, e in genere tutte le merci, come il petrolio e il grano, che sono stoccabili e che hanno un mercato in cui il prezzo è determinato dalla domanda e dall’offerta. Nella speculazione al rialzo le scorte di attività a breve possono essere ridotte fino al punto di diventare negative, di diventare delle passività, come quando uno speculatore si indebita per investire a lungo. Chi fa un mutuo per comprare una casa, ad esempio, si indebita per acquistare un bene patrimoniale. I ratei annuali del mutuo sono pagamenti certi in termini monetari o reali (a seconda che il tasso d’interesse sia fisso o indicizzato). Il valore della casa invece è incerto e variabile in relazione all’andamento del mercato immobiliare.

Chiunque può essere uno speculatore, anche un risparmiatore che mette i propri soldi in un fondo di investimento obbligazionario o azionario. I lavoratori che hanno messo i propri risparmi in un fondo pensione sono speculatori. Il “NINJA”, il poveraccio senza reddito, è uno speculatore se s’indebita per comprarsi casa contando su una rivalutazione del suo prezzo in breve tempo. Le imprese industriali, in linea di principio, non sarebbero speculatrici, perché mirano a fare profitti; e il profitto è il risultato di un processo produttivo in cui si estrae plusvalore dal lavoro degli operai. Il profitto non è un guadagno di capitale nel senso specificato sopra. In realtà molte grandi imprese sono anche impegnate in attività finanziarie di tipo speculativo. Soprattutto nel sistema capitalistico contemporaneo, in cui le grandi imprese hanno quasi tutte la struttura di società per azioni con proprietà dispersa e sono controllate da manager con stipendi, bonus e stock options legati al valore dell’impresa, questi tendono a comportarsi sistematicamente in modo speculativo poiché sono interessati al valore corrente delle azioni dell’impresa che dirigono, più che alla sua profittabilità di lungo periodo (Toporowski, 2009).

Un tipo di impresa particolarmente importante sotto questo profilo è la banca, specialmente la banca universale, quella che oggi si è affermata nel sistema globale. La banca universale detiene attività di tutti i tipi di scadenza, comprese quelle molto rischiose. È un’impresa sostanzialmente speculativa, perché si indebita a breve termine per investire a lungo. Si indebita accettando i depositi dei clienti ed emettendo certificati di deposito e altre passività a breve, poi usa la moneta così raccolta per effettuare investimenti a lungo termine, acquistando azioni, obbligazioni e concedendo prestiti.

Lo speculatore deve formarsi delle aspettative sul valore delle attività in cui investe. Poiché punta a conseguire guadagni di capitale, deve farsi una idea dei rischi e dei possibili guadagni che possono essere generati dai suoi investimenti. La formazione delle aspettative è di centrale importanza, visto che gli investimenti vengono effettuati su attività il cui valore futuro è incerto.

Possiamo distinguere due tipi di aspettative: miopi e lungimiranti. Le prime sono quelle che mirano a prevedere il valore di una attività in un arco di tempo molto corto, anche meno di un mese. Le seconde mirano a definire il valore fondamentale dell’attività, ovvero il valore che dovrebbe affermarsi come trend di lungo periodo. Per esempio: se compro azioni Fiat e lo faccio sulla base di una aspettativa miope, mi interessa sapere come varierà il loro valore, e quindi il mio guadagno di capitale, diciamo, entro una settimana. Se invece le acquisto con l’intenzione di detenerle per diversi anni in vista dei dividendi che pagheranno, mi interessa sapere qual è la capacità della Fiat di produrre profitti e distribuire dividenti nell’arco di due o tre anni almeno.

A seconda degli effetti che hanno sul mercato, si distinguono due tipi di speculazione: destabilizzante e stabilizzante. Il primo tipo è determinato dal prevalere di aspettative miopi di tipo adattivo o estrapolativo. Gli speculatori cercano di valutare la variazione del prezzo di un’attività in un arco di tempo molto corto sulla base della conoscenza delle variazioni verificatesi nel recente passato. Tutti i grandi speculatori usano a tal fine l’analisi tecnica, un metodo di valutazione che analizza l’andamento dei valori registrati dalle attività nel passato per stimare quelli dell’immediato futuro. Per cui se c’è stata una tendenza al rialzo, diciamo, negli ultimi tre o quattro mesi, ci si può aspettare che il rialzo continui ancora per un po’. Se prevale questo tipo di aspettativa, quando i valori stanno aumentando quasi tutti gli speculatori si aspettano che continueranno ad aumentare, quindi saranno indotti ad acquistare azioni in vista di guadagni di capitale immediati. La domanda aumenta e il valore cresce. Queste aspettative perciò, quando si diffondono, tendono ad autorealizzarsi. Una “bolla” speculativa cresce così, sulla base di aspettative miopi giustificate da un’analisi superficiale di ciò che è accaduto nei mercati speculativi nel recente passato. È evidentemente un comportamento destabilizzante, perché tende a far crescere i valori quando stanno già crescendo o a farli crollare quando stanno già diminuendo.

La speculazione stabilizzante si basa invece su un confronto tra il valore di mercato osservato nel momento dell’investimento e il valore di trend, quello che è stato stimato con le aspettative lungimiranti. La stima del trend può essere basata sull’analisi fondamentale, che mira a valutare le prospettive di profittabilità reale dell’impresa di cui si vogliono acquistare o vendere azioni. Per cui se osservo che il valore odierno dell’azione Fiat è molto alto, e più alto di quello che dovrebbe essere il fondamentale, posso pensare che l’azione è sopravvalutata e aspettarmi che prima o poi il valore tornerà al suo trend di lungo periodo; quindi la vendo. Se quasi tutti gli speculatori si comportano così, i valori tendono ad avvicinarsi ai loro fondamentali.

Che ruolo giocano le banche nel processo di crescita di una bolla? Come ho già osservato, le banche si indebitano a breve per investire a lungo termine. Se nonché i debiti delle banche consistono per lo più in depositi dei clienti; e i depositi sono moneta. Succede una cosa apparentemente strana con le banche: più investono concedendo prestiti alle imprese e ai consumatori, e più aumentano i depositi, dal momento che i soldi creati dalle banche col credito sono in genere tenuti in banca sotto forma di conti correnti. Quindi quando il settore bancario espande le sue attività concedendo prestiti, simultaneamente si espandono anche le sue passività. Così l’offerta di moneta cresce[4]. In un paese con un sistema finanziario sofisticato la moneta bancaria costituisce una quota tra il 90 e il 95% della moneta in circolazione. Il resto è costituito dalla moneta creata dalla banca centrale, la base monetaria; in parte consiste in circolante, cioè banconote e spiccioli, ma principalmente è detenuta dalla banche come fondo di riserva.

Quando le banche speculano al rialzo in una bolla speculativa, espandendo i prestiti e gli investimenti finanziari più delle riserve liquide, contribuiscono ad alimentare la bolla, non solo perché fanno aumentare la domanda di attività a lungo termine, ma anche perché fanno crescere l’offerta di moneta e il credito di cui si servono gli altri speculatori per finanziare i loro investimenti. Nello stesso tempo quindi fanno aumentare anche i debiti. In una bolla speculativa infatti molti tendono ad assumere nuove passività, a indebitarsi, per fare investimenti a lungo termine. Così accade che quasi tutti gli speculatori vogliono detenere meno moneta possibile in portafoglio, proprio quando la quantità di moneta in circolazione aumenta; quasi tutti tendono ad aumentare la detenzione di attività non liquide, proprio quando i valori di queste stanno aumentando; quasi tutti infine sono propensi ad aumentare il proprio indebitamento (Kregel, 2008). Lo fanno perché credono di essere in grado di ripagare i debiti con gli introiti che si attendono dalle attività che hanno acquistato. Ad esempio, se posso ottenere un mutuo di 100.000 Euro a un interesse del 6% per acquistare oggi una casa a 100.000 Euro, e mi aspetto che il valore della casa salirà a 110.000 l’anno prossimo, lo chiederò anche se sono un NINJA. Infatti prevedo che tra un anno potrò rivendere la casa con un guadagno di capitale del 4% al netto della restituzione del prestito e del pagamento dell’interesse.

Una bolla speculativa ha anche delle forti ricadute sui mercati dei beni di consumo e sulla produzione industriale. Il processo di aumento dei valori patrimoniali crea un effetto ricchezza per cui, tutti sentendosi più ricchi, tendono a spendere di più nell’acquisto di ogni tipo di bene, non solo azioni, obbligazioni o case, ma anche automobili, abiti, vacanze ecc. In tal modo una bolla può alimentare la domanda effettiva e la produzione industriale e così sostenere la prosperità e il boom economico. Le imprese tendono a produrre di più e ad accrescere l’occupazione perché c’è domanda crescente di beni di consumo. Inoltre incrementano gli investimenti industriali quando costruiscono nuovi impianti per far fronte a una domanda crescente. Così si può dire che una bolla speculativa svolge un ruolo positivo nel sostenere lo sviluppo economico, sia perché crea l’effetto ricchezza che stimola investimenti e consumi di beni reali, sia perché favorisce l’espansione della moneta necessaria a far circolare un volume crescente di merci.

Nel boom industriale aumentano i profitti delle imprese, ma anche in questo caso si verifica un aumento dei debiti: sia i debiti dei consumatori che, ad esempio, si comprano il frigorifero a rate o fanno la spesa con carte di credito in rosso; sia i debiti delle imprese, che fanno investimenti crescenti non tutti finanziabili con i profitti correnti, e quindi si indebitano con le banche, coi fornitori e con altre imprese.


Le bolle prima o poi scoppiano

È chiaro che un processo del genere non può andare avanti indefinitamente. Tutti sanno che prima o poi la bolla esploderà. Gli speculatori smart lo sanno prima degli altri. Questi sono gli operatori razionali e ben informati. Sanno che il rischio di crash finanziario tende ad aumentare: 1) col passare del tempo dal momento dell’inizio della bolla, perché non è mai esistita una bolla che non sia esplosa prima o poi; 2) con l’aumento dell’indebitamento medio, perché alla fine i debiti dovranno essere ripagati; 3) col valore delle attività, perché più questo si allontana dai fondamentali più aumenta la probabilità che vi ritorni; 4) con l’aumento della leva finanziaria e la connessa riduzione dei margini di sicurezza che dovrebbero essere mantenuti a fronte delle attività rischiose.

Due convenzionali margini di sicurezza dovrebbero essere mantenuti da tutti gli operatori, ma soprattutto dalle banche: uno è definito in termini di un rapporto tra capitale proprio e attività; un altro in termini di un rapporto tra riserve liquide e passività. Il primo margine è l’inverso della leva finanziaria, cioè il rapporto tra attività e capitale. Entrambi i margini di sicurezza tendono normalmente ad abbassarsi man mano che procede la bolla, e con essi tende ad aumentare la rischiosità delle posizioni.

A un certo punto s’innesca l’inversione di tendenza. Gli speculatori smart cominciano a prevedere che le cose stanno per cambiare e cercano di battere il mercato, cioè di fare prima degli altri quello che deve essere fatto quando la bolla esplode: vendere. Avevano acquistato quando i prezzi erano crescenti; adesso, presumendo che siano prossimi al massimo, vendono in vista di ricomprare quando i prezzi saranno crollati[5]. Inizia la speculazione al ribasso. Mano a mano che si diffonde questo comportamento la bolla rallenta la propria crescita; quando la notizia giunge agli orecchi del “parco buoi”, arriva il crash. Questo non si verifica in modo graduale, ma repentinamente, perché in breve volgere di tempo quasi tutti si accorgono che stanno restando col cerino acceso in mano e quindi cercano di liberarsi di attività che hanno ancora un valore piuttosto alto ma in diminuzione. Così si genera un rapido aumento dell’offerta.

Nel momento in cui scoppia una bolla prevale la speculazione stabilizzante. Può sembrare paradossale, ma lo scoppio di una bolla è un fenomeno di stabilizzazione, in quanto si verifica dopo un periodo di forte destabilizzazione in cui i valori si sono allontanati da quelli fondamentali. Una tale stabilizzazione però cede subito al predominio di aspettative destabilizzanti non appena lo scoppio genera il crash, durante il quale tutti prevedono una rapida diminuzione dei valori e si comportano in modo da autorealizzare tali previsioni. La contrazione può essere cosi forte da spingere i valori al di sotto dei loro fondamentali. Inoltre può creare effetti di crisi che coinvolgono anche l’economia reale.

Durante il crash che segue l’esplosione di una bolla si verificano fenomeni di segno opposto a quelli visti prima: crollano i valori delle attività a lungo termine, tutti gli operatori cercano di alzare i margini di sicurezza, ridurre la leva finanziaria e aumentare la detenzione di scorte liquide. Lo fanno tutti, anche le banche; le quali però, in questa maniera, riducono l’offerta di credito. Così la quantità di moneta in circolazione si contrae, proprio quando sarebbe necessaria una sua espansione per far fronte ai pagamenti dei debiti. Diventa difficile ripagare i debiti, ma molti sono costretti a farlo. Si mette così in moto un processo di deflazione del debito[6]. Tutti cercano di ripagare i propri debiti in un momento in cui è difficile ottenerne di nuovi e in cui si verifica il credit crunch, quella che Marx chiamava “carestia di denaro”. I debitori sono costretti a vendere le proprie attività, ma lo fanno in un momento in cui i loro valori crollano. Così facendo, contribuiscono a farli diminuire ancora di più. Di conseguenza non tutti i debiti possono essere ripagati e molte imprese vanno fallite. Siccome le imprese industriali e finanziarie sono in gran parte indebitate le une con le altre, molti fallimenti si verificano a catena.

In questi casi solo le autorità monetarie possono porre un freno al processo di caduta. Le banche centrali possono salvare le banche dai fallimenti espandendo l’offerta di base monetaria, cioè concedendogli credito di ultima istanza a tassi di sconto molto bassi. Può accadere però che l’economia entri in una trappola della liquidità, una situazione in cui le politiche espansive dalle banche centrali risultano scarsamente efficaci. Poiché molti operatori accumulano scorte liquide, e molti altri domandano credito disperatamente, l’allentamento dei cordoni della borsa delle banche centrali, mentre fa diminuire il tasso di sconto e i tassi d’interesse a breve, non sempre riesce a indurre sostanziose riduzioni dei tassi d’interesse sui mutui e del costo del denaro per le imprese. Inoltre, poiché le banche tendono a ridurre le proprie concessioni di credito e i propri investimenti, mentre cercano di accumulare riserve liquide, l’espansione della base monetaria può non risolversi in una adeguata crescita dell’offerta complessiva di moneta. Infine la moneta viene accumulata dagli speculatori e non affluisce verso i canali dell’economia industriale. Così le politiche monetarie espansive, se possono servire a frenare la caduta del settore finanziario e i fallimenti delle banche, da sole difficilmente riescono a innescare la ripresa.

Gli effetti reali del crash finanziario sono ancora più drammatici, perché insieme ai fallimenti a catena si verificano forti effetti ricchezza negativi. Tutti si sentono più poveri essendo diminuiti i valori delle attività; quindi tutti spendono di meno, i consumatori riducono i consumi, le imprese riducono gli investimenti. Le imprese che non vanno fallite comunque producono di meno. La disoccupazione aumenta, diminuisce il monte salari e i consumi si riducono ancora di più. Il processo può proseguire abbastanza a lungo, e tanto più a lungo quanto più è intenso, perché quando la produzione industriale entra in crisi profonda, con estesi processi di fallimento, grande aumento della disoccupazione, forte riduzione dei redditi di quasi tutti i soggetti economici e anche diminuzione delle esportazioni (se la crisi è internazionale), diventa molto difficile trovare quegli stimoli alla domanda aggregata che possono risollevare le sorti dell’economia. La crisi dell’economia reale poi reagisce negativamente sulla crisi finanziaria approfondendola, perché i fallimenti e i default dei clienti delle banche incidono pesantemente sui loro bilanci e sul valore delle loro attività. In questo caso solo degli interventi massicci dei governi, particolarmente con delle politiche fiscali espansive, possono servire a innescare la svolta verso la ripresa.

Resta da aggiungere qualche osservazione sul processo di diffusione internazionale della crisi. Si svolge attraverso due canali: finanziario e commerciale. Il capitale finanziario ha la tendenza a muoversi liberamente sui mercati internazionali. È vero che le grandi bolle speculative montano e poi scoppiano nel centro del sistema imperialistico globale, cioè nei paesi capitalistici dominanti, che sono quelli dotati dei sistemi finanziari più sofisticati, ma in questi paesi investono gli speculatori di tutto il mondo. Quindi quando la bolla esplode vengono trascinati nella caduta anche i capitalistici della periferia. Così i processi di fallimenti a catena e di deflazione del debito si espandono velocemente dai paesi in cui la crisi è iniziata a quelli degli investitori esteri. Quanto alla trasmissione internazionale degli effetti della crisi industriale, il canale principale è quello degli scambi commerciali. Quando comincia la recessione nei paesi più avanzati, che sono le locomotive dell’economia mondiale, la loro riduzione dei consumi e degli investimenti porta anche alla riduzione delle loro importazioni, e quindi delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo, i quali in genere puntano su una crescita trainata dalle esportazioni. Se si riducono le esportazioni diminuisce la domanda aggregata e di conseguenza diminuisce produzione e occupazione. In questo modo la recessione produttiva si trasmette a tutto il sistema mondiale.


Finanziarizzazione e deregulation: cinque fattori di instabilità

Avendo descritto in linea generale il processo con cui si genera e si dispiega una grande crisi, cerchiamo ora di capire cosa ha di specifico questa in cui ci troviamo. La bolla “immobiliare” o dei “sub-prime” americana viene datata dal 1999 al 2005, anche se i suoi prodromi vanno rintracciati nella metà degli anni ’90. Un fattore importante del suo sviluppo è costituito dalla politica dei bassi tassi di interesse attuata dalla Fed, politica che però non è stata determinata solo dalle scelte del suo governatore, bensì anche dai mercati finanziari internazionali. L’economia americana ha goduto in questo periodo di una crescente offerta di moneta, dovuta in buona parte a investimenti fatti da fondi sovrani, dalla Cina e da altri paesi emergenti, che hanno trovato conveniente impiegare le loro riserve di valuta in attività americane, soprattutto titoli di stato. Inoltre anche l’espansione del credito da parte delle banche ha favorito l’abbassamento dei tassi di interesse.

Altro fattore importante è la politica di deficit di bilancio attuata dal governo degli Stati Uniti, una politica necessaria specialmente per sostenere le spese militari (Bellofiore, 2009; Perelstein, 2009). Questo deficit da una parte alimenta la crescita della domanda aggregata e quindi l’espansione produttiva, dall’altra gonfia l’offerta di moneta. Ciò si verifica anche se il deficit viene finanziato con il debito. Il deficit del bilancio pubblico induce la crescita dei consumi e delle importazioni e quindi produce un deficit sistematico delle partite correnti nella bilancia dei pagamenti e un deflusso di moneta verso l’estero. Poi però i paesi emergenti con surplus delle partite correnti usano le loro riserve di Dollari per acquistare titoli di stato americani, cosicché la moneta creata dalle banche americane rifluisce negli Stati Uniti.

Un terzo fattore importante riguarda l’emergere della banca universale. Nel 1999, portando a compimento un processo di deregulation bancaria avviato già negli anni ’80, venne abrogato il Glass-Steagall Act, una legge bancaria approvata nel 1933 proprio a seguito della crisi di allora. La legge del 1933 separava le banche commerciali da quelle di investimento, la funzione di banchiere da quella di broker; e istituiva l’assicurazione governativa dei depositi[7]. L’intento era di evitare che le banche assumessero posizioni troppo rischiose e troppo speculative. Abolita la legge, si è affermato un tipo di intermediario bancario che può indebitarsi a breve e investire a lungo, assumendo così una struttura di bilancio molto rischiosa. Inoltre la globalizzazione finanziaria ha spinto molte banche a varcare i confini degli Stati nazionali e ad allargare le proprie operazioni su scala mondiale (Barth et al. 2000). Anche in Italia e in vari altri paesi erano in vigore leggi bancarie di quel tipo. Ebbene sono state abolite un po’ dappertutto in seguito al processo di finanziarizzazione e internazionalizzazione avviato negli anni ’90. Nello stesso torno di tempo sono stati ridotti i controlli centrali sulle attività bancarie. Oggi la differenza tra banche commerciali e banche d’investimento non è molto netta, tutte tendendo ad assumere comportamenti da banca universale. Ma è vero che una qualche differenza di rilievo permane. Le banche locali di piccole-medie dimensioni tendono a comportarsi più come banche commerciali, le grandi banche internazionali tendono a comportarsi più come banche d’investimento.

L’abolizione della legge bancaria si inserisce in un processo di deregulation che è stato giustificato ideologicamente dal pensiero neoliberista contemporaneo (Wade, 2008). Il processo ha coinvolto in diversa misura tutti i mercati e tutti i paesi del mondo. Negli USA è stato attivato da precisi provvedimenti politici. Vale la pena elencarne alcuni significativi:

  • Nel 1999 Bill Clinton firmò il Gramm-Leach-Bliley Act, che portò al superamento della legge bancaria del 1933 e limitò i controlli sulle banche d’investimento.
  • Nel 2000, sempre per iniziativa del senatore Phil Gramm, venne inserito un emendamento di 262 pagine nella legge finanziaria: il Commodity Futures Modernization Act, che deregolamenta il mercato dei derivati.
  • Nel 2002 Bush varò un piano casa con il quale si proponeva di realizzare un sogno degli americani: tutti dovrebbero avere una casa in proprietà. A tal fine rese possibile concedere mutui senza controlli anche a chi ha un reddito basso.
  • Nel 2004 la SEC ridusse drasticamente i controlli sulle borse e sulle società finanziarie.
  • Negli anni 2004-5 le banche multistatali americane furono gradualmente esentate dalle normative contro il “credito predatorio”. Si diffusero i mutui low-doc.

La deregulation ha favorito l’emergere di un quarto fattore della bolla. Riguarda lo sviluppo di un ampio settore di intermediari finanziari non-bancari e quasi-bancari: fornitori di mutui, fondi pensione, mortgage brokers, hedge funds, assicuratori finanziari e soprattutto conduit come gli Special Purpose Entity (SPE), gli Special Purpose Vehicle (SPV), gli Structured Investment Vehicle (SIV). Questi intermediari operano nei mercati finanziari e interbancari senza dover sottostare ai vincoli di sicurezza tipici delle banche, sono capaci di espandere le proprie attività con investimenti altamente rischiosi, si finanziano senza ricorrere alla raccolta di depositi e sono sottratti al controllo delle banche centrali e delle autorità di regolazione. Si è cosi sviluppato un “sistema bancario ombra” che, interagendo con le banche, ha svolto un ruolo decisivo nello sviluppo delle cartolarizzazioni e di altre innovazioni finanziarie complesse e ha contribuito molto alla crescita dei volumi di titoli derivati scambiati entro mercati non regolati e poco trasparenti (Fornasari, 2009).

Un quinto fattore della bolla e della crisi riguarda la regolazione internazionale del settore bancario. Nel 1988 sono stati sottoscritti gli Accordi di Basilea I, a cui hanno partecipato i 10 paesi più importanti nei mercati finanziari. Sono stati resi necessari dall’emergere della banca che opera nei mercati internazionali. Di fronte a questo tipo di soggetto economico i controlli attuati dalle autorità monetarie nazionali entro i singoli paesi erano insufficienti per svolgere una funzione di regolazione su scala mondiale. Perciò sono stati concepiti gli accordi. Il loro scopo principale era di stabilire dei requisiti di sicurezza che dovevano essere rispettati da tutte le banche e ai quali si dovevano adeguare le autorità di controllo nazionali. Il requisito più importante che fu stabilito con Basilea I è quello che impone alle banche di mantenere un rapporto dell’8% fra il capitale proprio e le attività pesate con il rischio. Come mostrerò più avanti, gli accordi di Basilea I hanno funzionato paradossalmente in modo perverso, poiché le banche hanno reagito ad esso cercando di aggirare le regolamentazioni (Chick, 2009, 1) e sviluppando innovazioni finanziarie che hanno contribuito ad alimentare la speculazione, l’indebitamento e la rischiosità delle posizioni. Ciò è stato reso possibile dalla deregulation dei mercati finanziari.


La Bolla “immobiliare” americana

Se mettiamo insieme tutti i fattori di instabilità descritti nel paragrafo precedente, possiamo capire il ruolo giocato dal sistema bancario-finanziario nella crescita della bolla speculativa. Le banche americane hanno trovato conveniente espandere le proprie concessioni di credito soprattutto per i profitti che incassavano con il pagamento di commissioni e di spese. Non erano motivate tanto dagli interessi pagati sui mutui perché tendevano a non tenere molte di queste attività in portafoglio e a rivenderle appena possibile. A tal fine creavano delle società formalmente indipendenti, come i conduit, che hanno bilanci autonomi. Ad esse le banche cedevano i loro mutui, che così non comparivano nei propri bilanci. Due piccioni con una fava, in quanto le banche si mettevano in condizioni di mantenere un margine di sicurezza prossimo all’8% e si alleggerivano di attività rischiose. I conduit erano i principali veicoli del processo di cartolarizzazione. Acquistavano crediti di vari tipi e di diversa rischiosità, poi li “impacchettavano” creando altre attività che rivendevano a loro volta. Tali attività consistevano per lo più in obbligazione coperte dalle ipoteche connesse ai mutui in esse impacchettati. L’impacchettamento veniva fatto combinando vari tipi di mutui in modo da ridurre il rischio medio. Tra essi c’erano anche i titoli tossici, i sub-prime e gli Alt-A[8]. Chi è che acquistava questi titoli derivati? Erano altre banche e altre società, tra cui le SIV, create sempre dalle banche stesse. Le SIV acquistavano i derivati[9] che erano stati prodotti dai conduit di primo grado, e a loro volta li rivendevano sul mercato (e ad altre banche) dopo averli trasformati in altri derivati del tipo della carta commerciale. Così le attività tornavano al sistema bancario sotto forma di titoli di credito a breve-medio termine[10] che apparivano meno rischiose di quelle originarie. Con questo sistema, noto come originate and distribute, si pensava di ridurre la rischiosità del settore bancario e di diffondere i rischi su un grande numero di operatori.

Vale la pena riflettere sul cambiamento che ha coinvolto le operazioni e i bilanci delle banche. La tradizionale banca commerciale concedeva mutui controllando la capacità di pagamento dei clienti. Svolgeva così una azione utile nel ridurre la rischiosità media dei bilanci delle famiglie e delle imprese, in quanto concedeva mutui soltanto a soggetti dotati di elevata capacità di ripagarli. Questa pratica è in buona parte caduta in disuso tra le grandi banche internazionali, alle quali importa poco controllare la capacità di pagamento dei mutuatari, visto che possono liberarsi subito dei propri crediti scaricando il rischio su altri.

La funzione di controllo del rischio viene svolta oggi dalle agenzie di rating, le quali effettuano la valutazione dei titoli di credito sulla base di modelli matematici che misurano il rischio in termini di probabilità di default. Le probabilità sono calcolate sulla base dell’osservazione dei fallimenti verificatisi nel recente passato. Perciò, se siamo nel mezzo di una bolla, quando i fallimenti sono relativamente pochi, il grado di rischio di molte attività viene valutato come basso. In questo modo le agenzie di rating (del tutto indipendentemente dal fatto che possono avere un interesse soggettivo a favorire i clienti di cui devono valutare titoli) tendono oggettivamente a sostenere e a far autorealizzare le aspettative estrapolative (Kregel, 2008; Nesvetailova, 2008).

Durante la bolla il grado di indebitamento medio tendeva ad aumentare. Aumentavano i debiti delle famiglie, che ottenevano mutui per acquistare case, barche o automobili e compravano beni di consumo con carte di credito in rosso offerte dalle banche. Aumentavano i debiti delle imprese, che, oltre a ottenere credito dalle banche, emettevano carta commerciale e obbligazioni per finanziare gli investimenti. Aumentavano i debiti delle banche, che vedevano accrescersi i depositi man mano che espandevano il credito.

Tutta questa crescita del debito era sostenuta dall’aumento dei valori delle attività, in quanto ognuno è più disposto a indebitarsi se vede che il valore del proprio patrimonio sta aumentando. In questo modo la domanda di attività patrimoniali è alimentata da aspettative ottimistiche che si autorealizzano. Gli speculatori finanziari (specialmente gli hedge funds, fondi d’investimento altamente speculativi) acquistavano una quantità crescente di azioni e derivati aspettandosi una crescita dei loro prezzi. Così li facevano crescere. Le banche da parte loro concedevano una quantità crescente di credito aspettandosi che i mercati avrebbero assorbito senza problemi i derivati risultanti dall’impacchettamento delle loro attività. Così fornivano al sistema la moneta necessaria per acquistare una quantità crescente di derivati e beni di ogni tipo.

Insieme a questo processo di autorealizzazione delle aspettative speculative sui mercati finanziari se ne è verificato uno che ha coinvolto l’economia reale. Un numero crescente di consumatori acquistava case aspettandosi un aumento del loro valore. Così la domanda di case e il loro valore aumentava. Il prezzo delle abitazioni è raddoppiato negli USA tra il 1999 e il 2005. Inoltre l’aumento dei valori patrimoniali ha attivato un effetto ricchezza che ha indotto tutti a consumare di più. Le imprese da parte loro facevano investimenti per soddisfare una domanda crescete di beni di consumo e d’investimento, aspettandosi una continuazione della crescita della domanda. Così la domanda continuava effettivamente a crescere.


Scoppia la crisi

Non si può individuare una precisa data di svolta. C’è stata una fase di transizione, con un periodo di frenata che va dall’inizio del 2004 alla fine del 2007. In quegli anni la Fed ha fatto una politica di aumento dei tassi di interesse, rialzando il tasso di sconto diverse volte e portandolo dall’1% al 6,25%. A partire dalla fine del 2004 i tassi di rivalutazione dei prezzi delle case hanno cominciato a flettere, e verso la fine del 2006 hanno cominciato a diventare negativi. Tuttavia nel 2006 c’è stato il boom delle cartolarizzazioni. La cosa può sembrare paradossale ma non lo è affatto. Davanti ad un aumento dei tassi di interesse, le banche hanno reagito offrendo i mutui cosiddetti low-doc e no-doc, per i quali cioè si richiede una bassa o nessuna documentazione ai mutuatari. Inoltre hanno lanciato i teaser rates: concedevano mutui a tasso agevolato, nullo o bassissimo per i primi 2-3 anni, ma alto e indicizzato per gli anni successivi. I clienti abboccavano perché pensavano che entro 2-3 anni il valore delle case acquistate sarebbe aumentato, cosicché avrebbero potuto rivenderle con un guadagno di capitale, oppure ottenere un nuovo mutuo ipotecario a tasso agevolato. Proprio in questo periodo aumentarono i mutuatari NINJA. Però alcuni hedge funds cominciarono a giocare al ribasso, vendendo i derivati che apparivano più rischiosi. A questo punto la bolla cominciò a sgonfiarsi. Nel 2006 però la cosa non era ancora del tutto chiara, se non a pochi spiriti eletti.

Tra il 2007 e il 2008 c’è stato il boom dei pignoramenti. Le banche, visto che molti mutui non venivano ripagati, cercavano di vendere le case ipotecate, però i prezzi stavano diminuendo. Le banche entrarono in difficoltà e si verificarono corse agli sportelli di alcune di esse. Vari hedge funds, quelli che non erano stati pronti a giocare al ribasso, subirono pesanti perdite. Le agenzie di rating cominciarono a declassare molti derivati, visto che i loro modelli di valutazione gli dicevano che i rischi di default stavano aumentando. Il che contribuì ad aggravare il problema, in quanto i titoli declassati diminuiscono di valore.

Ora torniamo a Basilea. Prima ho parlato degli accordi di Basilea I, e ho osservato che il margine di sicurezza dell’8% che essi raccomandavano ha spinto le banche a creare i conduit, i “condotti sotterranei” che praticano le cartolarizzazioni. Dunque di fatto Basilea I è servita ad alimentare la bolla speculativa incoraggiando le innovazioni finanziarie connesse alle cartolarizzazioni. Così per correggere alcuni difetti di quegli accordi, nel 2004 ci sono stati gli accordi di Basilea II, successivamente revisionati diverse volte fino al 2008. Con essi, tra le altre cose, si è cercando di rendere più articolati e stringenti i requisiti di capitale, prendendo in considerazione vari tipi di rischio. Nel primo round ci si concentrava sul rischio di credito, il rischio di default del debitore. Con Basilea II si tenne conto anche del rischio di mercato (il rischio di perdite dovute a cambiamenti dei prezzi delle attività), del rischio d’interesse (il rischio che le attività a reddito fisso perdano valore a causa di cambiamenti del tasso d’interesse) e del rischio operativo. Si imponeva alle banche di detenere capitale e riserve non soltanto a fronte del rischio di credito ma anche di questi altri tre. L’accordo inoltre prevedeva che la valutazione del rischio di mercato venisse fatta dalle stesse banche, invece che dalle agenzie di rating, e fosse effettuata sulla base dell’andamento degli effettivi corsi azionari, obbligazionari ecc. Per un perverso scherzo della sorte gli accordi sono entrati in vigore negli USA e nell’UE nel 2008, proprio l’anno della crisi. A questo punto ai motivi di cautela imposti dalla crisi stessa si aggiungevano quelli imposti da Basilea II: le banche dovevano aumentare fortemente gli accantonamenti per riserve e ridurre le attività perché così stabilivano gli accordi. Inoltre, valutando le proprie attività con la crisi in corso, da una parte attribuivano ad esse rischi e pesi crescenti, dall’altra le contabilizzavano a prezzi decrescenti[11]. Per questi motivi furono costrette a restringere fortemente l’offerta di credito. Insomma, anche se nessuno li ha pensati così, gli accordi di Basilea I e Basilea II hanno funzionato in modo perverso (Balin, 2009): i primi hanno alimentato la bolla, i secondi hanno esasperato la crisi.

Alcune date ci permettono di cogliere l’evoluzione e l’intensità della crisi. Il 15 settembre 2008 c’è stato il fallimento della Lehman Brothers, un fatto di alto valore simbolico, essendo questa una delle 5 maggiori banche americane. Il 29 settembre c’è stato il primo lunedì nero a Wall Street: il Dow Jones è crollato del 8,7%. La settimana successiva, il 6 ottobre, il secondo lunedì nero: il Dow Jones diminuì del 3,86%. Tutta quella settimana, dal 6 al 10 ottobre, è stata una settimana nera: il Dow Jones franò del 22,8%. Dal 9 ottobre del 2007 al 10 ottobre del 2008 il Dow Jones è diminuito del 42,55%. Cadute della stessa entità si sono verificate nelle borse di tutti i paesi più avanzati.

Il crash ha attivato i tipici fenomeni della crisi di deflazione del debito[12]: crollo dei prezzi delle attività a lungo termine; fuga verso la liquidità; riduzioni delle leve finanziarie; diminuzione dell’offerta di credito da parte delle banche. I debitori hanno avuto difficoltà a ripagare i debiti, e ancor più a ottenerne di nuovi a causa del credit crunch. Molti sono stati costretti a vendere le proprie attività proprio nel momento in cui i loro valori stavano diminuendo, così contribuendo a farli crollare. Sono aumentati i fallimenti.

Le autorità monetarie hanno cercato di frenare la caduta espandendo l’offerta di base monetaria, ma l’economia è entrata in una trappola della liquidità. L’espansione monetaria ha abbassato i tassi d’interesse a breve, non quelli a lungo termine. Nella fase più acuta della crisi è aumentato lo spread tra i tassi d’interesse su attività di diversa scadenza e rischiosità (Fratianni e Marchionne, 2009). L’espansione della base monetaria non si è risolta in una crescita dell’offerta complessiva di moneta poiché le banche hanno ridotto l’offerta di credito.

La crisi poi si è trasmessa all’economia reale attraverso dei forti effetti ricchezza negativi che hanno fatto diminuire i consumi e di conseguenza gli investimenti. È aumentata la disoccupazione ed è diminuito il monte salari, cosicché i consumi si sono ridotti ancora di più. La crisi industriale infine ha avuto un effetto di ritorno negativo sul settore finanziario in quanto i fallimenti e i default dei clienti delle banche hanno ridotto il valore delle loro attività, hanno aumentato la sfiducia reciproca e le hanno spinte a contrarre ulteriormente il credito.

In sintesi, la crisi si è svolta in quattro fasi (Kiff e Klyuev, 2009; Fornasari, 2009). Nella prima fase la caduta dei prezzi nel mercato immobiliare ha causato il collasso delle attività bancarie basate sui mutui sub-prime. Nella seconda sono state contagiate le istituzioni che producevano i derivati basati sui mutui e i titoli tossici, le quali sono venute a trovarsi in crisi di liquidità. È aumentata simultaneamente la domanda di credito a breve e la sfiducia reciproca di tutti gli operatori monetari. Si sono congelanti i mercati della carta commerciale e della moneta interbancaria. Nella terza fase il collasso dei valori delle attività reali e finanziare dei clienti delle banche ha indotto queste a ridurre le concessioni di credito e quelli a ridurre le spese in consumi e investimenti. Nella quarta fase infine si è verificata la contrazione dei redditi e della domanda aggregata e quindi una diffusa perdita di fiducia che ha spinto le istituzioni bancarie a ridurre ulteriormente le concessioni di credito e la produzione di moneta.



SECONDA PARTE
Le cause di fondo


La globalizzazione e la distribuzione del reddito

Nella prima parte del saggio ho elencato alcuni provvedimenti politici che hanno favorito la deregulation dei mercati finanziari e ne hanno aumentato l’instabilità. Essi smentiscono l’opinione secondo cui la responsabilità della crisi attuale vada attribuita semplicemente ai cosiddetti “mercati” o a errori di regolamentazione finanziaria e di politica monetaria, in quanto si configurano come scelte politiche ponderate e programmate, giustificate ideologicamente e motivate da precisi interessi. Così “un giudizio circa le cause profonde della crisi deve andare oltre i problemi di regolamentazione del settore finanziario […] Occorre alzare lo sguardo verso la condotta della politica economica a livello nazionale e internazionale” (Fornasari, 2009, 89). Allora si capirà che quei provvedimenti obbediscono a un preciso disegno politico.

L’imperialismo che si è affermato con la globalizzazione attuale sulla spinta della liberalizzazione dei mercati mondiali è basato su un patto implicito tra il grande capitale dei pesi avanzati ed il grande capitale dei paesi emergenti. Questi ultimi hanno ottenuto l’apertura dei ricchi mercati dei paesi avanzati per la penetrazione delle proprie merci. I primi hanno ottenuto gli accordi TRIPS, che proteggono i diritti di proprietà sull’attività intellettuale. Così i paesi emergenti hanno potuto sfruttare il vantaggio assoluto che hanno sul costo del lavoro. Producono beni di consumo di massa con tecnologia importata, e li esportano nei paesi più sviluppati facendo una concorrenza spietata alle loro imprese meno dinamiche. Invece il grande capitale dei paesi dominanti si è assicurato un monopolio legale sulla risorsa per cui gode a sua volta di un vantaggio assoluto: la ricerca scientifica e tecnologica (Pagano, 2009). Il capitale dei paesi avanzati trae un doppio beneficio dalla globalizzazione: può sfruttare il monopolio sull’attività intellettuale per ridistribuire reddito dal Sud al Nord del mondo; può sfruttare la concorrenza sul mercato del lavoro per ridistribuire reddito dai salari ai profitti.

La liberalizzazione del commercio mondiale contribuisce a mettere in ginocchio i movimenti operai nei paesi avanzati. Infatti la concorrenza più spietata la subiscono soprattutto i lavoratori. I prodotti standardizzati importati a basso prezzo spiazzano molte imprese locali che non godono di vantaggi monopolistici, costringendole a ridurre l’attività e a licenziare i lavoratori. La semplice concorrenza commerciale fa dunque diminuire la domanda di lavoro nei paesi avanzati. Inoltre molte imprese tendono a reagire alla concorrenza delocalizzando gli investimenti verso i paesi a più basso costo del lavoro. Ciò comporta un rallentamento degli investimenti interni nei paesi sviluppati. Ne deriva un’ulteriore spinta alla riduzione della domanda di lavoro. Infine c’è la concorrenza diretta dei lavoratori immigrati, l’emigrazione dai paesi del Sud essendo spinta dalla crescita demografica e dai processi di destrutturazione delle culture e delle economie tradizionali attivati dalla penetrazione capitalistica. Così nei paesi avanzati si verifica un aumento dell’offerta di lavoro proprio mentre la domanda rallenta. Ma non è solo un cambiamento della quantità offerta. È anche un cambiamento della sua qualità, diciamo così, politica. I lavoratori immigrati, date le condizioni di estrema povertà che si lasciano alle spalle, sono disposti ad accettare qualsiasi lavoro, qualsiasi tipo di rapporto, di orario, di salario e di condizione di lavoro. Inoltre sono poco sindacalizzati. Infine sono facilmente ricattabili. Insomma non fanno concorrenza alla forza lavoro nazionale solo premendo sulla quantità offerta, la fanno anche favorendo i processi di desindacalizzazione e indebolendo la sua forza contrattuale. A questi processi si devono aggiungere gli effetti del progresso tecnico sulla domanda di lavoro. Nei paesi avanzati sono più forti gli investimenti in ricerca e sviluppo e quindi il progresso tecnico tende ad assumere caratteristiche di risparmio di lavoro dequalificato e intensificazione d’uso del lavoro altamente qualificato, quest’ultimo fenomeno restando però confinato in settori produttivi piuttosto ristretti in termini di livelli occupazionali. Tali caratteristiche contribuiscono a destrutturare la composizione della classe operaia e a indebolirne ulteriormente la forza contrattuale. Come conseguenza di tutto ciò le condizioni di lavoro e i salari[13] peggiorano nei paesi avanzati, e anche i consumi di massa ristagnano. Così, rallentando sia gli investimenti che i consumi, le economie dei paesi avanzati tenderebbero alla depressione.


Tre schemi di politica economica

Tale risultato però non è affatto automatico, perché le scelte politiche dei governi potrebbero contrastarlo. E le scelte politiche possono essere le più varie. Ebbene nello scenario globale contemporaneo si possono individuare tre schemi di politica economica che sono stati adottati da tre diversi blocchi di paesi. Li chiamerò “Schema Cina”, “Schema UE” e “Schema USA”.

I paesi emergenti devono mantenere un basso regime salariale per restare competitivi. Ma se i salari sono bassi, lo sono anche i consumi interni. La loro crescita perciò non può essere sostenuta da quella dei consumi di massa. La liberalizzazione del commercio internazionale gli permette di far trainare lo sviluppo dalla crescita dalle esportazioni[14]. Se nonché i surplus delle partite correnti determinati dalla crescita delle esportazione e dal ristagno dei consumi spingerebbero i tassi di cambio al rialzo, facendo perdere competitività. Per evitare ciò i governi di questi paesi praticano delle oculate politiche di controllo dei cambi. Una buona ragione per accumulare riserve di Dollari è costituita dalla volontà di impedire l’apprezzamento delle valute nazionali (Costabile, 2009). Il loro è un modello di crescita trainata dalle esportazioni. Lo hanno attuato adottando lo

Schema Cina
  • politiche fiscali restrittive
  • politiche monetarie restrittive
  • politiche commerciali aggressive
  • politiche di controllo dei cambi

I paesi avanzati, in cui i tassi di cambio sono fluttuanti, non attuano politiche di controllo valutario. Perciò, di fronte alla costante penetrazione delle merci provenienti dai paesi emergenti, dovrebbero fronteggiare una tendenza al deficit delle partite correnti e al deprezzamento delle monete nazionali se volessero tenere alto il saggio di sviluppo del PIL. L’aumento del PIL peraltro porterebbe alla crescita occupazionale, al rafforzamento dei movimenti sindacali e all’aumento dei salari. Con ciò si verificherebbero ulteriori perdite di competitività. Queste potrebbero essere contrastate dalla tendenza al deprezzamento delle loro valute, tendenza che però porterebbe all’innesco di spinte inflazionistiche.

La Germania non vuole un deprezzamento dell’Euro anche perché si sta candidando ad affiancare gli USA nel ruolo di banchiere del mondo. Vuole una moneta forte, in modo da indurre un numero crescente di paesi emergenti ad usarla come moneta di riserva in sostituzione del Dollaro. Per questo ha fatto la scelta di mantenere dei sistematici surplus delle partite correnti. Ma a tal fine deve mantenere bassa la domanda interna e adottare politiche fiscali e monetarie restrittive. Perciò il tasso di crescita del PIL è piuttosto basso. In tal modo prende due piccioni con una fava: rafforza l’Euro e tiene sotto schiaffo i movimenti sindacali. In altri termini, di fronte al dilemma “o crescita elevata o surplus commerciale” ha scelto la politica che le consente di rafforzare il capitale nazionale all’interno e all’esterno[15]. Il suo è un modello di crescita frenata; ed è governato con il semplice

Schema UE
  • politiche fiscali restrittive
  • politiche monetarie restrittive

Tra i paesi del Nord gli Stati Uniti hanno fatto una scelta diversa e la loro economia è cresciuta a ritmi sostenuti da metà degli anni ’90 fino allo scoppio della crisi attuale. La spiegazione di questa eccezione ci farà capire le cause politiche della bolla speculativa. Gli Stati Uniti non potevano permettersi il ristagno della propria economia. Dovevano crescere ad ogni costo, e non solo nel proprio interesse, ma anche in quello del capitalismo mondiale. Essi infatti svolgevano tre funzioni cruciali nel sistema imperiale globale, quella di banchiere del mondo, quella di locomotiva del mondo e quella di sceriffo del mondo.

La crescita economica americana era necessaria anche all’accumulazione del capitale cinese, indiano, brasiliano, russo ecc. Con il loro deficit nelle partite correnti[16] gli USA alimentavano le esportazioni e lo sviluppo dei paesi emergenti. Nello stesso tempo, con questo deficit assicuravano il flusso monetario che serve a sostenere l’espansione del commercio mondiale e l’accumulo di riserve nei paesi emergenti. Il loro interesse in questo processo è evidente: fintantoché il Dollaro resta la principale moneta di riserva, gli USA mantengono il signoraggio che gli permette di vivere al di sopra delle proprie possibilità e di governare i flussi finanziari del mondo; e fintantoché il loro PIL cresce, possono permettersi di finanziare le guerre con cui svolgono la funzione di sceriffo del capitalismo globale. Il finanziamento delle guerre richiede un’elevata spesa pubblica, che a sua volta richiede un’elevata crescita del PIL per sostenere l’aumento delle entrate.

Parte della spesa pubblica era finanziata col debito, ma gli elevati deficit tuttavia non erano sufficienti per mantenere una sostenuta crescita del PIL. Che fare? Come potevano fare gli Usa ad alimentare la propria crescita se gli investimenti interni ristagnavano? Dovevano puntare sui consumi. E come potevano alimentare la crescita dei consumi di massa, se il reddito veniva sistematicamente ridistribuito dai salari agli altri redditi? La soluzione che è stata adottata è quella della crescita trainata dal debito. Lo stimolo alla domanda aggregata è stato creato attraverso un processo di sostituzione dell’accumulo di debito alla crescita salariale (Barba and Pivetti, 2009).

Innanzitutto debito privato delle famiglie e delle imprese, specialmente il debito assunto dall’immensa classe media americana, ma anche da buona parte della classe lavoratrice, per acquistare case, SUV e altri beni di consumo. In secondo luogo debito pubblico, il debito causato dai sistematici deficit del bilancio pubblico. In terzo luogo debito estero, quello causato dalla tendenza di alcuni paesi emergenti, Cina in testa, a reinvestire soprattutto nei titoli di Stato USA i flussi di Dollari che ottengono dalle loro esportazioni nette; ma anche quello causato dalla tendenza degli speculatori finanziari di tutto il mondo a investire in titoli e derivati emessi da banche e imprese americane. La politica monetaria di bassi tassi d’interesse è servita a sostenere tutti e tre i processi d’indebitamento crescente, quello privato in quanto ha facilitato l’espansione del credito da parte delle banche, quello pubblico in quanto ha facilitato il servizio del debito, quello estero in quanto ha alimentato la speculazione (abbassando il costo del debito a breve con cui gli speculatori si finanziano). Inoltre i processi di deregolamentazione finanziaria descritti sopra sono serviti per favorire l’espansione dell’attività bancaria e l’investimento finanziario dei profitti in eccesso rispetto agli investimenti reali. Infine anche l’intesa politico-economica con la Cina ha svolto un ruolo importante nell’assicurare il buon funzionamento del sistema: gli investimenti di portafoglio cinesi nei titoli di Stato USA sono serviti a evitare che l’espansione monetaria interna fosse completamente drenata dall’estero. Il modello di crescita trainata dal debito è governato con lo

Schema USA
  • politiche fiscali espansive
  • politiche monetarie espansive
  • politiche di deregulation dei mercati finanziari
  • politiche valutarie concertate con la Cina

Ora, tutto il marchingegno funziona molto bene… finché la bolla si gonfia. Ma ha due punti deboli. Il primo è che le bolle prima o poi scoppiano, appunto. Abbiamo visto quali effetti disastrosi sono prodotti dall’esplosione di una maxi-bolla nel principale centro del sistema capitalistico mondiale: una crisi così si diffonde rapidamente come una crisi globale che è finanziaria e reale (D’Apice e Ferri, 2009). Il secondo è che tutto il sistema regge fintanto che gli altri paesi accettano il signoraggio del Dollaro. Perciò è possibile che questa crisi porti a una rottura degli equilibri politici internazionali, alla fine dell’egemonia economica americana e a un riordino dei rapporti di forza su cui si regge l’imperialismo globale.


Le reazioni politiche alla crisi

Dunque, per capire dove andremo a finire in seguito alla crisi in cui ci troviamo, bisogna afferrare la natura dei contrasti economici del capitalismo mondiale contemporaneo e formulare delle ipotesi su una loro possibile evoluzione.

Sopra ho accennato al fatto che l’egemonia del Dollaro sui mercati valutari non è giustificata da un reale predominio industriale e commerciale americano, ma si regge su un patto politico tra USA e Cina la cui continuazione dipende oggi più dalla volontà dei dirigenti cinesi che dalla forza dell’economia americana. Questo patto coinvolge in realtà diversi paesi emergenti che vedono nella Cina il battistrada di un percorso di sviluppo mirante al cambiamento dei rapporti di forza tra blocchi capitalistici continentali. In quanto tale è intrinsecamente instabile.

Oggi l’egemonia del Dollaro già comincia ad essere minacciata dall’Euro. La percentuale di riserve globali in Dollari è andata diminuendo dal 2001 (Perelstein, 2009). Attualmente circa il 65% delle riserve è coperto dal Dollaro e circa il 25% dall’Euro. Questo ha continuato a rivalutarsi fino a tutto il 2009 e la sua attrattiva è andata aumentando. Un aumento della sua quantità in circolazione nel mondo però è frenato dalla vocazione deflazionistica della BCE, dal basso tasso di crescita delle economie europee e dal terrore tedesco per i deficit delle partite correnti. Al momento l’Euro non è un concorrente molto pericoloso del Dollaro come moneta di riserva internazionale, anche perché la sua stabilità non è poi così certa, viste le cattive performance delle economie europee durante la crisi.

Le minacce più serie possono venire da altrove. Il fatto è che la leadership industriale e commerciale americana comincia ad essere contesa dai paesi emergenti. Questi hanno accumulato enormi quantità di attività in Dollari, e temono che si svalutino drasticamente. Di solito tali timori tendono ad autoconvalidarsi repentinamente, specialmente se sono condivisi dagli speculatori e soprattutto in occasione dell’esplosione di grandi crisi. Se il valore del Dollaro dovesse dipendere solo dalle forze del mercato, una sua drammatica crisi si sarebbe probabilmente già verificata, magari in concomitanza con l’esplosione della bolla dei sub-prime, con effetti di esasperazione del crollo che si possono facilmente immaginare. Se ciò non è accaduto finora è solo perché le scelte politiche hanno fatto aggio sulle forze del mercato. In realtà il sistema dei pagamenti fondato sul Dollar Standard oggi regge solo in virtù di una precisa scelta politica elaborata lungo l’asse Washington-Pechino.

Attualmente sembra che il G2 stia lavorando a una stabilizzazione del Dollaro, dopo aver manovrato una lenta e graduale svalutazione nel 2009. La svalutazione è convenuta al capitale americano perché così ha potuto rilanciare lo sviluppo interno almeno in parte con la ripresa delle esportazioni. Ai cinesi la stabilizzazione conviene per diverse ragioni. Innanzitutto perché una caduta catastrofica del Dollaro, mentre ridurrebbe drasticamente e repentinamente la competitività delle proprie esportazioni, svaluterebbe pesantemente l’enorme massa di attività in Dollari che detengono[17]. Una caduta lenta e ordinata seguita dalla stabilizzazione gli permette di ristrutturare gradualmente e senza grandi costi le riserve. Inoltre li rafforzerebbe nel loro disegno di affiancare o sostituire il Dollaro con una “valuta globale”, dei Diritti Speciali di Prelievo emessi da un FMI in cui il peso della Cina sarebbe massiccio. Una proposta in tal senso fu avanzata dai cinesi in una riunione del G20 tenuta a Londra nel marzo del 2009. Infine in cambio del loro sostegno al Dollaro i cinesi possono chiedere delle contropartite in termini di allentamento delle spinte protezionistiche e di accesso alle tecnologie avanzate dell’industria americana.

Intanto cambiamenti drammatici stanno coinvolgendo le economie reali dei due paesi. In seguito alla crisi di domanda e di produzione dell’economia americana sono diminuite le sue importazioni e quindi è venuto meno il ruolo di traino dello sviluppo dei paesi emergenti. Inoltre il deprezzamento del Dollaro nel 2009 ha reso più competitive le merci americane. Il deficit commerciale USA è sceso al 5% del PIL nel 2008 ed è diventato un avanzo del 2,5% nel 2009.

La Cina da parte sua non può permettersi la crisi per motivi di stabilità politica interna. Il dissenso dei gruppi democratici e i disordini contadini locali sono facilmente gestibili fintantoché lo sviluppo economico assicura alla leadership del PCC (Partito Capitalista Cinese) il consenso delle classi medie e della classe operaia. Ma un aumento massiccio della disoccupazione avrebbe effetti politici catastrofici. Ed è stato calcolato dalla Banca centrale cinese che è necessaria almeno una crescita del PIL dell’8% per creare ogni anno 20 milioni di nuovi posti di lavoro per gli immigrati dalle campagne. Così il governo ha reagito immediatamente ai primi sintomi di crisi con più di 600 miliardi di Dollari di spesa pubblica in investimenti e servizi sociali; strategicamente, con un pacchetto di stimoli alla domanda interna che le hanno permesso di rilanciare subito lo sviluppo. Nel 2008 e nel 2009, a fronte del tracollo delle economie avanzate, il PIL cinese è cresciuto del 9% e dell’8,5% (vedi Tab. 1). È una impressionante riconversione del modello di sviluppo, che da export-led sta diventando auto-sostenuto. Sono aumentate anche le importazioni, con la conseguenza che per la prima volta nel 2008 le esportazioni dei paesi emergenti verso la Cina sono state più elevate di quelle verso gli USA. Insomma la Cina si sta candidando ad assumere il ruolo di locomotiva dell’accumulazione capitalistica mondiale.

tabella screpanti

Contraddizioni inter-imperialistiche?

Non è detto però che il progetto di transizione graduale abbia successo. Tanto per cominciare, esistono fazioni dei gruppi dirigenti cinesi che vorrebbero una politica più aggressiva nell’uso del ricatto valutario in vista di un cambiamento drastico dei rapporti di forza. Cosa accadrebbe se e quando in Cina prevalesse questa linea politica? D’altra parte esistono anche i mercati e la speculazione. E non è da escludere che un bel giorno non molto lontano gli speculatori (ma anche alcuni paesi detentori di grandi riserve in Dollari) cercheranno tutti insieme di anticipare una forte svalutazione della moneta americana scontando subito un suo futuro adeguamento verso un valore fondamentale realistico, diciamo, il valore della valuta di un paese che non produrrà più del 20% del PIL mondiale.

La probabilità di un tale evento catastrofico sembra che stia aumentando. Nel 2009 la Fed e altre banche centrali hanno attuato delle politiche monetarie espansive che hanno inondato i mercati finanziari di moneta. La Fed immette liquidità nel sistema sia finanziando le banche a tasso di sconto nullo sia acquistando titoli pubblici e privati. Lo ha fatto al momento dello scoppio della bolla per impedire un tracollo del sistema bancario e continua a farlo per incoraggiare la ripresa produttiva. In realtà il costo dell’indebitamento a breve in Dollari è diventato fortemente negativo (anche fino a -20%) a causa del continuo deprezzamento della valuta americana. Agli speculatori dunque è convenuto indebitarsi in Dollari. Ma poi che ci fanno con la liquidità così acquisita? La investono nei mercati speculativi acquistando azioni, obbligazioni, derivati, materie prime, petrolio, oro. In tal modo sembra essersi riformata una bolla speculativa che coinvolge tutti i mercati finanziari. Dal gennaio 2009 al gennaio 2010 l’indice MSCI delle borse mondiali è passato da un valore di circa 700 a uno di 1195[18]. il prezzo dell’oro a Londra da circa 800 a 1050 Dollari.

Si dice che di solito i mercati finanziari precorrono con un anticipo di diversi mesi i cambiamenti dell’economia reale. È possibile dunque che oggi gli speculatori stiano scommettendo sugli effetti che le politiche fiscali e monetarie espansive attuate soprattutto da Cina e USA dovrebbero avere sul rilancio della produzione industriale mondiale. Se la scommessa risulterà vincente, potrebbe non esserci a breve una drammatica crisi del Dollaro e un secondo crash finanziario. In tal caso la nuova bolla sarebbe servita tra l’altro a fornire finanza alle imprese che progettano nuovi investimenti. Segni in tal senso sono forniti dalla recente crescita dei mercati dei corporate bond, con un notevole aumento dell’emissione di obbligazioni da parte delle grandi imprese industriali. Ma non è detto che quegli effetti positivi sull’economia reale si materializzino, visto che nel Nord del mondo la disoccupazione continua ad aumentare e il monte salari a diminuire. Se nel corso del 2010 gli speculatori realizzeranno che l’economia reale dei paesi avanzati continua a ristagnare o che la ripresa è asfittica, è possibile che si verifichi una seconda ondata di crash finanziari con l’esplosione della nuova bolla e una crisi del Dollaro. La grande crisi attuale allora si prolungherà oltre il 2010, assumendo un andamento a W: il primo crash è seguito da una ripresa solo finanziaria, che è seguita da un secondo crash finanziario. Però il primo crash ha innescato la crisi produttiva, il secondo l’approfondirà. Allora tutti i nodi dei contrasti economici mondiali verranno al pettine abbastanza presto e il raggiustamento dei rapporti di forza tra blocchi capitalistici continentali sarà brusco.

Se invece nel 2010 ci sarà una ripresa sostenuta della produzione industriale nei paesi avanzati, una nuova maxi-bolla speculativa (forze centrata sul comparto delle energie alternative) contribuirà a trainare lo sviluppo e a finanziarlo per qualche anno. Allora il raggiustamento degli equilibri internazionali avverrà in modo graduale e non dirompente, salvo la possibilità che un nuovo crash catastrofico si verifichi nella seconda metà di questo decennio.

Si tratta di contraddizioni interimperialistiche insanabili? Cioè di quelle che sboccano in grosse conflagrazioni belliche come la prima e la seconda guerra mondiale? Non credo. Il sistema di imperialismo globale contemporaneo ha fatto emergere un interesse fondamentale comune del grande capitale mondiale che ha declassato i contrasti interimperialistici al ruolo di “contraddizioni in seno al popolo” (Screpanti, 2006). Non che non esistano attriti politici ed economici tra alcune aree geopolitiche continentali. Ma non sono attriti generati dalle spinte dei capitali dei singoli paesi a costruire imperi nazionali tendenti ad allargarsi gli uni alle spese degli altri. Oggi esiste il grande capitale globale. Si incarna in imprese multinazionali che hanno il mondo intero come campo d’azione. E tali imprese, che siano americane, europee, giapponesi, russe, cinesi, hanno tutte un interesse comune all’abbattimento delle frontiere economiche nazionali, cioè alla liberalizzazione globale dei mercati delle merci, dei capitali e del lavoro. Le imprese multinazionali sono in competizione oligopolistica tra di loro e spesso cercano di indurre i governi nazionali a favorirle nelle lotte di accaparramento delle risorse, ma non arriveranno mai a spingerli a bloccare i processi di liberalizzazione che aprono i canali lungo cui fluiscono le loro merci, i loro investimenti e i loro profitti. Semmai li incalzano ad aprirli sempre di più, come accade nelle attuali guerre in Medio Oriente. E in tal modo fanno l’interesse di tutto il grande capitale globale.

Oggi ci troviamo in un processo imperiale di guerre locali permanenti in cui il capitale dei paesi avanzati ed emergenti persegue un interesse comune ad aprire alla globalizzazione le nazioni recalcitranti. Sono guerre combattute lungo i confini tra il Nord e il Sud del mondo dagli Stati Uniti e dai suoi alleati (secondo lo schema Sheriff and posse teorizzato qualche anno fa dalla Segretaria di Stato americana Magdalene Albright) in nome della libertà (del capitale). Ovviamente i rapporti di forza tra aree geopolitiche continentali cambiano, perché diversi sono i tassi di accumulazione capitalistica. Ma le vere grandi guerre con cui vengono decisi e convalidati politicamente tali cambiamenti assumono la forma di contese economiche (industriali, tecnologiche, commerciali, finanziarie e valutarie), non di guerre mondiali[19]. Il massimo di catastrofe politica che ci si può aspettare oggi da quel tipo di contrasti sarà, diciamo, una crisi del Dollaro che si completerà in modo più o meno repentino quando la Cina si sentirà pronta per imporre al mondo la governance di un nuovo G6 (Cina, USA, UE, Russia, India, Giappone)[20].

Nel nuovo modello di governance che si sta approntando le tre funzioni cruciali dell’imperatore non verranno più svolte da un solo paese, ma verranno assegnate a tre diversi centri politici: La Cina assumerà il ruolo di locomotiva dell’accumulazione mondiale, Il Fondo Monetario internazionale quello di banchiere del mondo, mentre agli Stati Uniti resterà il ruolo di Sceriffo.


Le contraddizioni fondamentali

Quali sono allora le contraddizioni insanabili del capitalismo globale contemporaneo? Quelle che potrebbero portare a un cambiamento radicale? Ebbene sono due, ma due che tendono a fondersi in una. La prima è un’opposizione tra il Nord e il Sud del mondo, tra un Nord in cui risiede la classe capitalistica dominante, quella che dirige le grandi imprese multinazionali, e un Sud in cui risiede la grande massa delle risorse naturali e umane depredate dal capitale globale. I processi disciplinari attraverso cui vengono estratti plusvalore e ricchezza dal Sud per trasferirli al Nord sono noti. Ne ho trattato altrove (Screpanti, 2006, capp. 8, 9) e non ci tornerò sopra. Qui voglio solo ribadire che quei processi non si basano solo sui tradizionali meccanismi di sfruttamento economico neocoloniale (come lo scambio ineguale). Piuttosto passano attraverso dei dispositivi di destrutturazione delle culture e delle istituzioni tradizionali che mirano a creare le condizioni per la penetrazione del sistema capitalistico moderno nei paesi sfruttati. Il capitalismo globale non si limita a esportare merci e finanza, ma tende a esportare anche imprese e ideologie, a esportare se stesso come modo di produzione esclusivo. In tal modo le masse di dannati della terra asiatici, sudamericani e africani tendono a trasformarsi in masse di proletari moderni. Questo processo di trasformazione economica e sociale è già molto avanzato in buona parte dell’Asia e dell’America Latina, un po’ meno in Africa[21], e non c’è dubbio che continuerà ad avanzare.

L’altra contraddizione fondamentale è la consueta opposizione di classe tra capitale e proletariato. La globalizzazione inasprisce questa opposizione. Ha forti effetti di ridistribuzione del reddito dai salari ai profitti e quindi tende a creare una massa crescente di operai (occupati, semioccupati, disoccupati, immigrati) che vedono peggiorare continuamente le proprie condizioni di vita. La crisi attuale, con il forte aumento della disoccupazione che ha prodotto, ha accelerato il processo. La ripresa che potrebbe esserci tra un anno o due, forse lo rallenterà, ma non modificherà il trend.

Sembra che il capitalismo neoliberista contemporaneo stia riattivando quelle condizioni di impoverimento relativo crescente che Marx aveva osservato nel capitalismo liberista ottocentesco. Da una parte una cerchia ristretta di capitalisti-speculatori che si arricchiscono sempre di più, dall’altra una massa crescente di proletari il cui reddito tende ad approssimarsi al livello di sussistenza, spesso superandolo verso il basso[22]. Tale tendenza è accompagnata e sostenuta da un processo di destrutturazione organizzativa e politica dei movimenti operai che serve a disarmare la classe.

Ed è questo complesso fenomeno di deterioramento economico, culturale, organizzativo e politico che produrrà come effetto finale la fusione delle due contraddizioni fondamentali del capitalismo globale, quella tra Nord e Sud e quella tra capitale e proletariato. Il capitale si aggrega oltre i confini nazionali riproducendosi come centro del governo globale. Ma in tal modo crea un proletariato mondiale che tende ad essere sempre più omogeneo in termini di povertà economica e deprivazione culturale, una sempre più “rude razza pagana” che crescerà di numero e di esasperazione. Ecco qual è la contraddizione fondamentale del capitalismo globale. È possibile che, non potendo essere risolta dagli attuali ceti dominati, questa contraddizione si inasprisca progressivamente fino a sboccare in una grossa esplosione sociale mondiale.


Conclusioni

Nella spiegazione della crisi attuale la maggior parte degli economisti si è schierata su due posizioni alternative tendenti a focalizzare o gli errori di politica monetaria della Fed o gli squilibri internazionali nella formazione dei risparmi. In questo saggio ho avanzata una spiegazione diversa che individua la causa fondamentale nelle politiche economiche USA, viste come risposta agli effetti della globalizzazione sulla distribuzione del reddito e lo sviluppo. Le cause di fondo della crisi sono di natura reale, non monetaria.

La globalizzazione ha favorito la crescita dei paesi emergenti, Cina in testa, attraverso un meccanismo di traino delle esportazioni che presuppone un regime di bassi salari all’interno e un’elevata domanda di importazioni da parte dei paesi avanzati, e che richiede una politica di controllo dei cambi volta ad impedirne una sistematica rivalutazione rispetto al Dollaro. Una condizione che garantisce il buon funzionamento del meccanismo è che la domanda aggregata cresca a ritmi sostenuti nei paesi avanzati.

La Germania e il Giappone però si sono sottratte a questa incombenza, adottando politiche restrittive volte al contenimento della crescita dei consumi e dei salari all’interno e al rafforzamento delle loro valute all’esterno. Tali politiche hanno rafforzato gli effetti depressivi generati dalla concorrenza dei paesi emergenti sui mercati dei prodotti.

Gli Stati Uniti invece non si sono sottratti agli obblighi che gli derivano dalla loro posizione di leader del capitalismo globale, e hanno adottato politiche fiscali e monetarie espansive. Non hanno però contrastato gli effetti negativi della globalizzazione sulla crescita dei salari e degli investimenti interni. Hanno invece adottato un modello di sviluppo trainato dal debito. Con le politiche monetarie espansive e la deregolamentazione dei mercati finanziari hanno favorito la diffusione di comportamenti speculativi fra tutti gli strati sociali. In particolare, incoraggiando l’indebitamento delle famiglie, hanno sostenuto la crescita dei consumi che ha trainato la domanda aggregata. Il comportamento dei consumatori indebitati non si spiega come scelta razionale o quasi-razionale sulla base di una qualche funzione del consumo. Se ne deve piuttosto dar conto come della conseguenza di una combinazione di scelte speculative miopi ed effetti ricchezza positivi.

Tra le politiche della Cina e quelle degli USA si è creata una relazione di complementarità nel momento in cui le autorità cinesi hanno deciso di usare le loro riserve di Dollari per acquistare attività americane, cioè di finanziare il debito pubblico e privato degli Stati Uniti, così rafforzando gli effetti della loro politica monetaria e fiscale.

La crisi è scoppiata quando, probabilmente per frenare la svalutazione del Dollaro rispetto all’Euro, la Fed ha avviato una politica di rialzo dei tassi d’interesse. In tal modo ha dapprima scoraggiato l’assunzione di ulteriore debito da parte degli speculatori nei mercati immobiliari; poi, di conseguenza, ha smorzato la domanda speculativa di attività reali e finanziarie, innescando un’inversione di tendenza dei loro valori; infine ha scatenato la crisi di deflazione del debito quando la diminuzione di quei valori ha reso difficile far fronte agli impegni dei debitori. Gli effetti ricchezza negativi hanno trasmesso il crollo all’economia reale.

La crisi attuale ha portato allo scoperto i limiti e le contraddizioni di un modello di politica economica e di governo della globalizzazione che è in vigore da metà degli anni ’90. Quei limiti e quelle contraddizioni si erano manifestati già con la bolla dot-com e la recessione del 2000-2001. Allora le difficoltà furono superate con un salvataggio monetario che ha portato a un inasprimento delle contraddizioni stesse. Perciò, se non si esce dalla presente crisi con una revisione radicale di quel modello di politica e di governo, c’è da aspettarsi o un approfondimento del crollo nel 2010-11 o/e una nuova grave crisi nella seconda metà del decennio.


*Desidero ringraziare Emiliano Brancaccio, Sergio Cesaratto, Anna Soci e Maurizio Zenezini per le critiche e i consigli che mi hanno offerto. Ogni responsabilità per le tesi qui sostenute resta ovviamente mia.

 
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Note

1 Ad esempio Fratianni, 2008; Eichengreen e O’Rourke, 2009; Wolf, 2009.

2 Chi volesse approfondire potrebbe utilmente consultare Kindleberger (1981) e Reinhart e Rogoff (2009).

3 Per una trattazione formalizzata vedi Screpanti (1989).

4 Sul ruolo delle banche nella produzione endogena della moneta vedi Screpanti (1997).

5 In realtà le operazioni sono un po’ più complicate di così, essendo in gran parte basate su contratti a premio e simili, ma la sostanza non cambia.

6 Una spiegazione rigorosa è stata fornita da Irving Fisher (1933). La sua teoria è stata sviluppata in vari modelli. Particolarmente interessanti quelli di Kindleberger (1981) e Minsky (1984; 1989). Per una rassegna vedi Berger e Udell (2004).

7 L’abolizione del Glass-Steagall Act è stata solo il coronamento di un lungo processo iniziato molto prima del 1999, e in Europa prima che negli USA. Ad esempio l’integrazione tra attività bancaria e attività assicurativa era già avviata da tempo nel mercato britannico. Inoltre la CEE aveva emanato nel 1993 una direttiva che va nella direzione della banca universale (Bellone, 2000).

8 I titoli tossici sono quelli basati su crediti inesigibili, i sub-prime quelli basati su crediti a soggetti rischiosi (debitori che sono già stati insolventi o che non forniscono documentazione sul proprio reddito e sul proprio patrimonio), gli Alt-A (Alternative A-paper) quelli basati su crediti meno rischiosi dei sub-prime, ma più dei prime. Questi ultimi sono basati su crediti a clienti affidabili.

9 Ci sono vari tipi di derivati: gli ABS (Asset Backed Securities), i MBS (Mortgage Backed Securities), i RMBS (Residential Mortgage Backed Securities), i CMBS (Commercial Mortgage Backed Securities), i CDO (Collateralized Debt Obbligations, derivati di secondo grado che combinano MBS e altri tipi di attività), i CDS (Credit default swaps, polizze assicurative su scambi di attività).

10 Ad esempio short-term asset-backed commercial paper e medium-term investment notes.

11 La contabilizzazione delle attività al fair value, un criterio contabile per cui i valori devono essere registrati ai prezzi di mercato o a prezzi realistici che riflettono l’andamento del mercato, tende a produrre andamenti pro-ciclici degli attivi di bilancio, il che fa peggiorare le condizioni finanziarie delle banche durante la crisi (Wallison, 2008; Fratianni e Marchionne, 2009). È interessante osservare che le banche americane, tra il 2007 e il 2008, hanno fortemente osteggiato il criterio del mark-to-market accounting, che era stato introdotto già nel 2006. Il Congresso USA lo ha allentato nel maggio del 2009 (Hayes, 2009).
12 Buona parte della letteratura economica contemporanea ne dà conto come di una conseguenza dell’instabilità e della fragilità finanziaria cresciute durante la bolla speculativa. La teoria dell’instabilità finanziaria di Minsky è diventata oggi molto popolare, dopo che la crisi attuale è stata etichettata come un Minsky moment perfino sui quotidiani (Magnus, 2007, Cassidy, 2008). Per delle approfondite spiegazioni minskyane della crisi vedi Whalen (2007), Wray (2008), Bellofiore (2009), Ferri and Variato (2009), Vercelli (2009). Però Kregel (2008) ha raccomandato cautela, sostenendo che la teoria dell’instabilità finanziaria di Minsky non ci permette di cogliere tutta la complessità della crisi attuale. Aggiungerei che non ci permette neanche di comprenderne le cause di fondo.

13 È accertato che, con poche eccezioni, la quota salari sul reddito è andata sistematicamente deteriorandosi nei paesi capitalistici avanzarti a partire dalla prima metà degli anni ’80 (Blanchard and Giavazzi, 2003; Guscina. 2006; Arpaia and Pichelmann, 2008; Ellis and Smith, 2008; Husson, 2008). Le eccezioni più rilevanti sono costituite da Belgio, Olanda, Danimarca e Gran Bretagna. Anche gli USA sembrerebbero un’eccezione, ma lo sono solo se si includono tra i salariati l’1% privilegiato dei lavoratori che ricevono gli stipendi più alti (ingegneri, tecnici, direttori di fabbrica etc.), segno che la disuguaglianza distributiva è fortemente aumentata anche tra i lavoratori dipendenti. Il trend decrescente delle quote salari è spiegabile in parte con il cambiamento tecnologico labour-saving e skill-intensive, in parte con i processi di deregolamentazione dei mercati del lavoro, in parte con le pressioni competitive sul mercato del lavoro, tutti fattori che hanno contribuito a ridurre il potere contrattuale dei movimenti operai. Negli anni ’80 e nei primi anni ’90 ha inciso soprattutto la stagflazione, successivamente si sono fatti sentire di più gli effetti della globalizzazione.

14 La Cina ha goduto di un permanente surplus commerciale a partire dai primi anni ’90. Nel periodo 1993-2003 le esportazioni nette hanno contribuito per circa il 10 % alla crescita del PIL, mentre gli investimenti sono cresciuti più dei consumi (Felipe and Lim, 2005). Si tenga presente che il ruolo di traino delle esportazioni non si limita a quel 10%, perché tramite il meccanismo dell’acceleratore esse stimolano gli investimenti.

15 Così quel poco di crescita di cui ha goduto è stato dovuto alle esportazioni. Ma non si può parlare di modello di sviluppo trainato dalle esportazioni, perché la crescita è stata comunque piuttosto fiacca, almeno a confronto con gli USA e i paesi emergenti. Il modello tedesco vale anche per alcuni grandi paesi dell’Euro-zona, specialmente Francia e Italia, in cui anzi lo sviluppo è stato ancora più fiacco. Non vale per i paesi dell’Est europeo, che hanno adottato politiche più simili a quella cinese.

16 Era praticamente nullo (un leggero avanzo) nel 1991, è asceso al 2% del PIL nel 1997 e al 6% nel 2006 (Perelstein, 2009). Nel 2006 il deficit delle partite correnti USA ha contribuito per 2 punti percentuali al tasso di crescita della domanda aggregata mondiale (Summers, 2006).

17 1.3 trilioni di Dollari nel 2008, pari al 22% delle riserve mondiali di valuta estera (Lim, 2008).

18 In tal modo insieme ai tassi d’interesse a breve si sono abbassati anche i tassi rendimento sulle attività a lungo termine, come è mostrato dagli enormi rapporti price/earning delle azioni quotate.

19 Non è mancato chi ha interpretato la crisi attuale come la conseguenza inattesa di una battaglia interimperialistica tra USA e UE. La Fed avrebbe avviato una politica di rialzo dei tassi d’interesse tra il 2004 e il 2007 per contrastare l’indebolimento del Dollaro rispetto all’Euro. I “mercati” però hanno scatenato la crisi facendo fallire la manovra almeno inizialmente. La Cina sarebbe corsa in aiuto degli Stati Uniti sostenendo il Dollaro, che infatti si è rivalutato durante la fase acuta della crisi. Gli USA hanno effettuato una ritirata strategica riavviando una politica monetaria fortemente espansiva, ma hanno subito pesanti perdite in termini di tracollo della ricchezza finanziaria e di produzione industriale. Nel frattempo stanno preparando un nuovo attacco rilanciando la loro economia reale con politiche fiscali espansive. Le perdite dell’UE sono state ancora più pesanti perché i governi europei si sono dimostrati incapaci di adottare efficaci manovre fiscali volte ad alimentare la ripresa produttiva. La crisi industriale è stata in Europa molto più forte che negli USA (vedi tab. 1). Di conseguenza sono aumentati massicciamente i debiti pubblici insieme alla disoccupazione. Entrambi i fenomeni contribuiscono a prolungare la crisi, cosicché nessuno speculatore è disposto a scommettere su una rapida ripresa delle economie europee. I primi effetti finanziari di questa situazione si sono fatti vedere nel febbraio 2010, con la crisi della Spagna, la caduta delle borse e la svalutazione dell’Euro rispetto al Dollaro. Così sembrerebbe che alla fine l’attacco della Fed all’Euro ha prodotto i risultati desiderati.

20 Un G6 assicurerebbe un ridimensionamento degli USA più forte di quanto sarebbe reso possibile dal G2 proposto dai dirigenti della Banca Mondiale Robert Zoellick e Yifu Lin.

21 Dopo un lungo periodo di stagnazione, l’Africa ha avuto un processo di sviluppo abbastanza intenso dal 2001 al 2007, con un tasso medio di crescita del PIL tra il 4,9% e il 6,7%. Con la crisi il tasso di crescita è calato al 5,2% nel 2008 e all’1,7% nel 2009. Naturalmente le situazioni sono molto diverse in differenti paesi, alcuni dei quali (ad esempio Angola, Ciad, Guinea, Etiopia, Mauritania, Sudan, Uganda) hanno avuto in alcuni anni saggi di crescita a due cifre, mentre altri (ad esempio Repubblica Centro Africana, Eritrea, Liberia, Madagascar, Seycelle, Zimbabwe) hanno avuto tassi di crescita fortemente negativi anche duranti alcuni anni del boom.

22 I bisogni necessari ovviamente sono storicamente determinati. Così le sussistenze di un operaio contemporaneo includono beni come il cellulare, il televisore e il computer. In valore assoluto sono molto più alti di quelli dell’operaio dell’Ottocento. Cionondimeno l’impoverimento relativo può essere maggiore.

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